Michael Kiwanuka

Michael Kiwanuka - Il peso dell'anima

di Fabio Ferrara

La musica di Michael Kiwanuka ha uno sguardo decisamente retrospettivo. La sua voce sembra custodire la polvere dorata degli anni 60 e 70 e i suoi testi riflettono un’irrefrenabile urgenza di cambiamento, seppur filtrata da una sensibilità contemporanea, in cui il desiderio di trasformazione si mescola a un senso di inquietudine e disadattamento tipico della nostra epoca. Sin dai suoi esordi, i paragoni con i grandi soulman del passato si sono moltiplicati: di Marvin Gaye condivide la profondità introspettiva, la capacità di rendere ogni canzone una riflessione interiore, di Bill Withers incarna la sobrietà emotiva, quel dono raro di dare forza alla semplicità, di lasciare che la voce e la melodia parlino senza bisogno di artifici. Quando la melodia si gonfia, si percepisce la stessa vulnerabilità di Otis Redding, il modo in cui ogni nota sembra scavare dentro, senza fretta ma con inevitabilità, come un fiume che conosce già il suo destino. E poi c’è Terry Callier, nella fusione fluida tra folk e soul, nella capacità di trasformare la canzone in un racconto, in un cammino da percorrere con lentezza, con attenzione, con anima.
Ma sarebbe un errore liquidare la musica di Kiwanuka come una semplice eco del passato: la sua arte, seppur radicata in una storia che lo precede, non è nostalgica. Di chi lo ha preceduto raccoglie alcuni frammenti, alcuni dettagli, ma li riassembla elettricamente con gli immancabili squarci della sua chitarra. Non si appoggia alla tradizione, la trasforma, percorrendo un cammino a metà tra il mainstream e l’indipendenza.

La sua storia comincia nel 1987 a Londra, da genitori ugandesi rifugiati politici per sfuggire al regime di Idi Amin. Fin da piccolo, sviluppa una passione viscerale per la chitarra, che lo porterà a studiare alla Brit School, celebre fucina di talenti britannici come Adele, Amy Winehouse e King Krule. Prima di affermarsi come cantautore, aveva accarezzato l’idea di diventare un chitarrista jazz, ma abbandonò la Royal Academy of Music dopo una scoraggiante relazione di fine anno. Si accontentò, quindi, di diventare un musicista su chiamata, suonando la chitarra per vari artisti, tra cui i rapper Chipmunk e Bashy.
La svolta arriva poco più che ventenne, quando inizia a condividere la sua musica online, attirando l’attenzione di Paul Butler dei The Bees, che diventa una figura chiave nella definizione del suo sound.

I primi lavori

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Prima di Home Again (2012), il suo album d’esordio, pubblica due Ep che contribuiscono a farlo conoscere al pubblico e all’industria musicale. Tell Me A Tale (2011) presenta l’omonimo brano, un pezzo sontuoso e robusto, arricchito da fiati e percussioni dal sapore retrò. Il secondo Ep, I'm Getting Ready (2011), rivela il suo lato più intimo e folk, con la title track che mette in luce la sua capacità di scrivere ballate delicate e avvolgenti. Questi primi lavori gli valgono un contratto con la Polydor Records, ed entrambe le canzoni citate troveranno spazio nel suo primo album.

Home Again è senz’altro un brillante esordio, che mostra la personalità dell’artista inglese. Alcune canzoni sembrano già destinate a lasciare il segno: "Worry Walks Beside Me", un blues struggente che conferma il talento di Kiwanuka senza dover ricorrere all'ombra delle grandi leggende del passato, "I Won't Lie", con le sue orchestrazioni notturne e malinconiche, e la solarità nostalgica di "Any Day Will Do Fine", che sembra uscita da un vecchio disco di Michel Legrand.
C'è qualcosa di arcaico, nelle sue melodie, un incanto ingenuo che richiama la psichedelia pre-Pink Floyd, l'innocenza dei primi folksinger britannici affascinati dall'America di Bob Dylan e Paul Simon. Kiwanuka mescola jazz-soul e folk con la naturalezza di chi ha interiorizzato le lezioni di Van Morrison e Traffic, eppure, in questo gioco di rimandi e suggestioni, la sua voce non cerca di imporsi con esuberanza: piuttosto, sussurra e accarezza, lavorando sulle sfumature più che sull'impatto emotivo diretto. Se il vibrante furore etno-jazz di "Tell Me A Tale" suggeriva un'intensità più aggressiva, l'album opta per un sound vellutato, un raffinato equilibrio che la produzione di Paul Butler trasforma in un tessuto sonoro sofisticato e senza tempo.
Il suo album di esordio ottiene un grande successo, conquistando il disco d'oro. Tuttavia, Kiwanuka è presto sopraffatto dai dubbi, frutto di un’umiltà quasi paralizzante: rifiuta una collaborazione con Kanye West e arriva persino a scrivere un intero album, “Night Songs, solo per accantonarlo, giudicandolo insoddisfacente.

Eppure, riuscirà a trasformare quel senso di inadeguatezza in forza creativa, dando vita a “Black Man In A White World, brano simbolo della sua produzione e fulcro del suo secondo album, Love & Hate. Prodotto da Danger Mouse e Inflo, questo disco segna un momento imprescindibile nel suo percorso artistico.
L’album si apre con la monumentale “Cold Little Heart, una suite dalla struttura dilatata che per diversi minuti si sviluppa tra orchestrazioni avvolgenti, cori eterei e suggestioni alla Pink Floyd, costruendo un’atmosfera sospesa prima che la voce di Kiwanuka faccia il suo ingresso. Non è solo un’introduzione suggestiva, ma il brano che cambierà per sempre la sua carriera: scelto come sigla della serie della Hbo “Big Little Lies, con Nicole Kidman, “Cold Little Heart trasforma il giovane cantautore in un nome di riferimento, proiettandolo verso un successo che fino a quel momento sembrava lontano.
Il disco affronta anche temi sociali, come dimostra la già citata “Black Man In A White World, scritta nel pieno fermento del movimento Black Lives Matter, ma si muove più spesso su un piano intimo e spirituale. Le melodie si fanno impalpabili e sognanti in brani come “One More Night e “I’ll Never Love, mentre assumono un tono elegiaco e struggente in “Fallin'.
Se i richiami al passato rimangono evidenti, tra groove serrati e fiati dal sapore Motown, questa volta Kiwanuka sembra aver acquisito una maggiore consapevolezza, rendendo le sue incursioni strumentali più incisive e strutturate. La sua chitarra è una presenza costante, ora ruvida e sfrigolante, ora delicata e malinconica: è acustica e raccolta nella title track, mentre in “The Final Frame si accende di toni elettrici e corrosivi. E poi c’è “Father’s Child, dove lo strumento sembra librarsi tra archi e cori gospel prima di dissolversi completamente, lasciando il campo alle note evanescenti di un pianoforte.

Dal Mercury Prize a oggi

kiwanuka_220x270_02Dopo alcuni sporadici progetti, tra cui la collaborazione con UNKLE nel brano On My Knees, parte della colonna sonora di "Roma" - il film di Alfonso Cuarón premiato con l’Oscar e il Leone d’Oro a Venezia - nel 2019 Kiwanuka pubblica il suo terzo album, semplicemente intitolato Kiwanuka. A giudicare dalla copertina, dove il cantautore londinese appare bardato come un novello Carlo V, e dalla scelta di intitolare il disco con il suo solo cognome, il terzo album suggerisce una presa di coscienza e di responsabilità da parte dell’autore. È, in un certo senso, il ritratto di un artista che abbraccia pienamente la propria identità e il proprio lascito, presentandosi all’universo black non come un semplice erede, ma come una voce autorevole.
Non è dunque un caso che Kiwanuka sia il disco più nero del cantautore inglese, quello in cui le chitarre Floyd-iane di Love & Hate, quasi estinte, lasciano posto al calore del vecchio soul d'annata. Meno evidenti e sfacciate sono le prese di posizioni politiche, che però fanno da sottotesto costante, profondendo un egualitarismo raggiante e positivo.
I coretti di "Living In Denial" e "You Ain't The Problem" ritmano due brani fantastici, col potere di catapultarti nel calore del ghetto, sia esso il Bronx o Camberwell Green. Specialmente la seconda canzone, che insieme ai colori sgargianti del titolo in copertina potrebbe funzionare bene nell'introduzione di un buon vecchio film blaxploitation, di quelli tutte mamme premurose e funky, bigodini e umanità traboccante oltre la sfortuna sociale. Il groove afro, la chitarra grinzosa come la schiena di un gatto sulle difensive sono una festa e conducono a un ritornello che suona come un motto, una calorosa incitazione a non colpevolizzarsi.
Molto movimentata è anche "Rolling" che, con il suo basso corposo e il cantato arzillo, scivola lentamente nella successiva "The Kind Of Love", una ballata avvolgente, un vero purosangue soul con abbellimenti minimali di pianoforte e archi drammatici. Diviso in due sezioni, "Hero" è un altro pezzo da novanta. Dopo l'introduzione rarefatta e dolente, è la volta di un riff incalzante di chitarra, che con un bassone a rimorchio si produce poi in stridenti evoluzioni hendrixiane. L'altrettanto lunga "Hard To Say Goodbye" è un pelo meno riuscita; le effusioni invero un po' banali delle strofe vengono però tratte in salvo da un delizioso finale cinematografico. La canzone più moderna e, volendo azzardare, "bianca" del lotto è "Final Day", in cui la voce di Kiwanuka, leggerissima, si libra tra field recording tra la folla e borbottii di pianoforte e chitarra, sfociando infine negli svolazzi lirici di "Interlude (Loving The People)".
Chiudono due ballate soffuse, al lume di timidi, vecchi sintetizzatori: la dolente "Solid Ground", altra prova canora da urlo, e la fioca "Light", sfumata da delicati ricami di chitarra elettrica.
L’album è accolto con entusiasmo e riesce anche a raggiungere la seconda posizione nella classifica britannica. Il suo impatto, però, non si limiterà al pubblico, ma troverà riconoscimento anche nei premi più prestigiosi, come il primo posto all’edizione 2020 del Mercury Prize.

Nel 2024 Kiwanuka pubblica il suo quarto lavoro, Small Changes. Il titolo  sembra una chiamata alle armi contro la concezione moderna che impone un'evoluzione continua. Dopo cinque interminabili anni di attesa, affiancato dagli inseparabili produttori Danger Mouse e Inflo, il cantautore londinese si presenta con un album che non ha velleità di rivoluzionare il suo stile bensì di rafforzarlo con piccoli aggiustamenti.
Il disco si apre con "Floating Parade", brano già ben noto al pubblico grazie ai numerosi live estivi nei quali era stato proposto. L'introduzione è più che promettente: un groove morbido che richiama le sonorità anni 70, una linea di basso elegante e un ritornello impreziosito da cori memorabili. La title track, invece, offre momenti di grande intensità, grazie agli assoli di chitarra sognanti che si intrecciano con una poderosa orchestrazione di archi, mettendo in luce la sua naturale predisposizione a creare atmosfere cinematografiche.
L'album prosegue su tonalità morbide e lente, ma si lascia ascoltare con piacere. Le liriche struggenti di "One And Only" e i cerchi di piano concentrici che si ripetono e si intersecano con violini drammatici in "Rebel Soul" sono il preludio al dittico formato dalle due "Lowdown", canzoni che più di tutte richiamano le precedenti avventure discografiche del barbuto artista di origine ugandese. Qui a giganteggiare è la sua chitarra con assoli caldi ed elettrizzanti che si inseriscono con precisione chirurgica nella miscela blues-soul che funge da tappeto sonoro.
Ancora sprazzi di chitarra accompagnano il sontuso arrangiamento della raffinata "Live For Your Love", una ballata che richiama le languide atmosfere di Sade, con il suo equilibrio tra sensualità e malinconia. Ci si aspetterebbe, a questo punto, una mossa ardita, un finale che alzi il livello, un guizzo da ricordare. Invece, Kiwanuka sceglie una chiusura più contenuta, affidandosi a canzoni intrise di morbida eleganza ("Stay By My Side", "The Rest Of Me", "Four Long Years"). Tracce senza dubbio impeccabilmente arrangiate, che preferiscono, tuttavia, accarezzare piuttosto che sorprendere, sacrificando quella magniloquenza e quell'audacia sonora che hanno fatto di lui un maestro nel trasformare ogni brano in un'esperienza unica.
Small Changes resta comunque un album piacevole, capace di intrattenere e di affascinare, ma lascia addosso un sottile rimpianto: la sensazione che alcune cose avrebbero potuto restare intatte e non sarebbero dovute cambiare affatto.

Contributi di Gianfranco Marmoro ("Home Again") e Michele Corrado (“Kiwanuka”)

Michael Kiwanuka

Discografia

Home Again(Polydor, 2012)7
Love & Hate(Polydor, 2016)

8

Kiwanuka(Polydor, 2019)7,5
Smal Changes(Polydor, 2024)

7

Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Playlist consigliata

I'll Get Along
(da Home Again, 2012)
Home Again
(da Home Again, 2012)

Tell Me A Tale
(da Home Again, 2012)

Cold Little Heart
(da Love & Hate, 2016)

Black Man In A white World
(da Love & Hate, 2016)

Rule The World
(da Love & Hate, 2016)

Love & Hate
(da Love & Hate, 2016)

You Ain't The Problem
(da Kiwanuka, 2019)

Hero
(da Kiwanuka, 2019)

Solid Ground
(da Kiwanuka, 2019)
Floating Parade
(da Small Changes, 2024)

One And Only 
(da Small Changes, 2024)

Lowdown
(da Small Changes, 2024)

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