Le classifiche di fine anno non sono cosa da prendere sottogamba, mai. Le ultime settimane del 2019 - settimane di ascolti matti e disperatissimi - mi hanno portato a scoprire e analizzare con un paio di fidati amici decine di altre testate che andavano cimentandosi in questa sfida impossibile, che sembra avere sempre meno senso in un mondo in cui ciò che si ascolta - e che si guarda, legge e, in ultima istanza, pensa - viene sciacquato via in due minuti dal costante diluvio d'informazioni e stimoli.
Quando è stata la volta di Bandcamp, le prime venti posizioni hanno riservato grandi soddisfazioni. C’erano il cinguettante punk-noise degli Empath e l’esordio solista di Brittany Howard; c’erano la strepitante Jaimie Branch (la Liberation Orchestra di Charlie Haden che trasloca in città) e lo straziante primo e ultimo album di David Berman a nome Purple Mountains; c’erano il jazz pulsante di Damon Locks (nome che pare importante appuntarsi per tenere d’occhio le possibili evoluzioni del genere) e questo progetto di cui né io né Paolo Ciro avevamo alcuna idea, Sault, con ben due pubblicazioni all’attivo nel corso dei dodici mesi.
Nessuna informazione dalle copertine, solo i due titoli - "5" e "7" - stilizzati con dei fiammiferi; nessuna informazione dalla bio o dalle descrizioni, niente di niente. A parlare era solo la musica delle ventiquattro tracce, e una frase di DJ Kool Herc ha preso a rimbalzarmi in testa fin dal primo ascolto, perfetta:
Who is dis doin' this synthetic type of alpha beta psychedelic funkin'?
Qualche dettaglio abbiamo provato a fornirlo nella
recensione del primo dei due volumi, "5", album più elaborato e soffuso, ricco di
nuance oltre che di
groove, con un umore così solare da suonare a tratti come un
reverse-engineering di
"3 Feet High And Risin’" dei De La Soul - sentite quella straordinaria piuma che è "Something’s In The Air" e provate a non immaginarla nelle mani dei Posdnuos, Trugoy e Maseo ventenni.
Un’incredibile leggerezza, anche quando il funk si fa più serrato: merito di intelaiature solide, costruite su pochissimi elementi - giusto una scarna linea di basso, bacchette che parlano alle pelli piuttosto che percuoterle, voci di volta in volta suadenti e agguerrite per una nuova
low end theory. Quarantuno minuti così belli che poi è automatico mettere sul piatto "7" e rimanerne altrettanto travolti.
Si comincia con "Over", e subito non si scherza per niente. Il ritmo si alza, la voce incalza ("you never know what you got, until it’s over") e il synth aggiunge quel piccolo scarto laterale che mostra come questo materiale sia concettualmente psichedelico oltre che schietto e ballabile: le tane del Bianconiglio in cui si ficcano volontariamente le composizioni hanno lo stesso valore del centro; ne sono una parte fondante, non semplici decorazioni.
Poi c’è la sloganistica
clintoniana - nel senso di
George - di pezzi assassini come "No Bullshit" e la cadenzata "Living In America", dove la lotta e l’impegno sociale non passano per complicate teorizzazioni, ma per il puro e semplice fastidio per ingiustizie così palesi da non richiedere altro che l’alto volume dello stereo a spalla di
Radio Raheem e il
rasoio di Occam applicato alla
gun violence (ogni giorno un massacro, nella terra dei liberi e patria dei coraggiosi, e solo perché tutti hanno una pistola: semplice, davvero).
Il trittico "Smile And Go", "Threats" e "Red Lights" è probabilmente l’apice emotivo dell’opera. Laddove la prima srotola una base funky e un coretto dispettoso che potrebbero tranquillamente stare in una delle "Boombox" della Soul Jazz Records dedicate alle origini dell’hip hop, la seconda - unica traccia del programma a estendersi per oltre quattro minuti - emerge letteralmente da una foschia di percussioni e vocalizzi gospel, prima di lasciar spazio a un canto di liberazione traboccante soul ed
empowerment che piacerebbe parecchio a
Erykah Badu ("they see you as a threat now/ but don’t let’em break you down"). L’ultima, infine, procede tra gli scatti e le ripartenze di un basso guizzante che accompagna un mantra prima sonnambulo e poi sensuale.
Chiude "Waterfalls", dolce frizione tra strumenti che ansimano e voce di velluto che abbassa le luci della stanza come in un disco di
Prince e fa solo venir voglia di ricominciare daccapo. Negli occhi, nel frattempo, si è fissata un’immagine: è la
silhouette di Pam Grier, dalla copertina di quella meraviglia di compilation Soul Jazz (sì, ancora loro) dedicata alle colonne sonore dei
black action movies dei primi Settanta; un’icona di fiera eleganza, ma pure pronta a roteare i pugni e colpire al volto il Sistema, quando necessario. Esattamente come queste tracce, impossibili da skippare:
can you dig it?
07/01/2020