Anche per Tim Bowness è arrivato il momento di raccogliere i frutti di una carriera qualitativamente costante, eppur lontana dai riflettori e dal plauso critico. L’avventura targata No Man, condivisa con Steven Wilson dei Porcupine Tree, le interessanti collaborazioni con Richard Barbieri, Samuel Smiles e Peter Chilvers, e un poker di progetti da solista, sono il cospicuo bottino frutto della costante attenzione del musicista a quell’universo art-pop che ha trovato negli anni 80 e 90 la sua massima espressione negli anfratti poetici svelati ad arte da David Sylvian, Bark Psychosis e Talk Talk.
“Flowers At The Scene” segna un nuovo passo nel percorso di Tim Bowness. Grazie a una formazione più stabile (Tom Atherton, Colin Edwin, Brian Hulse, David K. Jones), a un buon numero di guest star e a un trittico di ospiti di elevata caratura (Peter Hammill, Kevin Godley e Andy Partridge), alla bella copertina di Jarrod Gosling e alla co-produzione del vecchio amico Steven Wilson (la prima collaborazione dopo dieci anni), il musicista mette a segno la collezione più brillante e intensa, con un più calibrato dosaggio degli elementi più introspettivi e una più fantasiosa ed energica architettura strumentale.
Alla maniera di Peter Gabriel in “So”, Bowness contagia le sue nostalgiche riflessioni sullo scorrere del tempo con possenti tempi ritmici e raffinati accenti lirici, che non cedono mai il passo al sentimentalismo. Deliziose trame pop lasciano fluire gli articolati arrangiamenti, tra suoni di trombe e fiati che intrecciano raffinate stratificazioni di synth nell’epico pop-rock di “Rainmark” - con un incisivo assolo di chitarra di Jim Matheos (Fates Warning) - o che tingono di vellutate inflessioni jazzy la più morbida “Borderline” - con David Longdon dei Big Big Train al flauto e alla melodica - un brano in origine concepito per un album con Chilvers.
E’ comunque nel compatto e arioso corpo ritmico che risiede il fascino di “Flowers At The Scene”, una peculiarità che l’album mette subito in scena con “I Go Deeper”, dove protagonisti sono basso, batteria e drum-machine, appena turbati da intrusioni di synth e chitarra, sonorità quest’ultime che rafforzano le similitudini con la “Red Rain” di gabrieliana memoria. C’è un che di ipnotico nel contrasto tra i ritmi possenti e la voce eterea di Bowness, un mix emotivo che infetta l’eccellente title track: una perfetta fusione di prog, jazz e rock, appena tinta di lounge, che si snoda su un delizioso groove, ingentilito dal tocco del piano e rinverdito da un assolo di chitarra appassionante (ancora il buon Jim Matheos).
Ed è ancora il ritmo a scandire le emozioni in “Ghostlike”, con una tensione che cresce man mano che gli altri strumenti intercettano i tempi ossessivi di basso e batteria, il brano è senza dubbio il più vicino a quei dettami progressive che molti sostengono siano stati traditi da Bowness in favore di velleità pop e cantautorali. Introdotta da un riff in stile The Edge “Killing To Survive” offre un classico crescendo pop-rock, mentre Peter Hammill si cimenta come back-vocalist, prima di diventare protagonista dell’oscura e tagliente “It’s The World”, un brano inaspettatamente spigoloso e granitico che mette in scena toni apocalittici affini a quelli del Bowie di “Lodger” o di Gabriel in “IV”, con Hammill che sfodera un assolo di chitarra che è un vero graffio sulla tela armonica di Bowness.
Non mancano brani più riflessivi, dove il ritmo lascia la scena ora a un quartetto d’archi dall’incedere solenne e marziale (“The Train That Pulled Away”), ora a un commovente minimalismo per piano e voce, lievemente lambito da tastiere, drum-machine e basso (“The War On Me”). Con un arrangiamento scelto da Wilson, nel trittico di versioni messe in essere da Bowness, la malinconica e introspettiva “Not Married Anymore” è un altro piccolo capolavoro di poetica sobrietà, la stessa che anima la geniale sinergia tra la chitarra dell’ex-Xtc, Andy Partridge, e la voce dell’ex-10cc, Kevin Godley, protagonisti di un'atipica e flebile ballata in stile musical “What Lies Here”, che sigilla l’album più coeso e riuscito dell’ex-No Man, qui alle prese con una serie di canzoni che oltre a incasellarsi perfettamente in una esaltante scenografia d’insieme, restano autonome e intelligentemente accessibili.
26/04/2019