"Non si ha mai la sensazione che il trio abbia inciso questo album come primo tassello di una carriera, anzi il dubbio che questo disco possa non avere un seguito è quasi preminente durante l'ascolto. Le dieci tracce non aprono nessun dialogo o discorso, anzi lo chiudono, lo sigillano con quella rabbia che non sentivamo più dai tempi di Mc5 e Public Enemy e con quel senso del dramma e di annichilimento umano che prima i Bad Seeds e poi i Suicide addomesticarono al gergo rock". Non amo citare le mie riflessioni passate, ma questo pensiero/dubbio, espresso su queste pagine a proposito dell'esordio degli Algiers, è fondamentale per comprendere la reale portata di "There Is No Year", terzo capitolo della band americana.
La forza dirimente e dirompente di quel gioiellino gospel, punk, no-wave del 2015 ha lasciato un solco profondo in questo decennio, un progetto quasi dadaista, la cui valenza è ormai avulsa da qualsiasi gesto ulteriore dei loro artefici. Volente o nolente il successivo "The Underside Of Power" ha sancito l'inizio di una nuova avventura, che solo il nome, Algiers, ha messo in relazione con il passato. Non va dimenticato che quel prezioso primo frutto fu il risultato di ben sei anni di attività e militanza, inoltre la scelta di includere l'ex-Bloc Party Matt Tong nell'organico ha suggellato la scelta di voler entrare con forza e autorevolezza nello scenario rock internazionale.
Dettando le coordinate politiche (anticapitalismo, antifascismo, antirazzismo) e musicali (gospel, northern soul, punk, avant-rock, funky, psichedelia, blues), gli Algiers hanno infine rispettato le cadenze delle regole del mercato, cercando nell'elettronica l'elemento corroborante per ripetere l'exploit dei primi due capitoli. Il risultato è ancora una volta elettrizzante, anzi più conciliabile e pulito, il suono Motown dei Temptations, il mood noir-wave dei Depeche Mode (questi ultimi compagni di tour in tempi recenti) e un lieve tocco industrial sono i tre elementi prevalenti di questa rivoluzione estetica della band ("Hour Of The Furnaces").
La semplificazione contagia anche i contenuti, meno poetici e più affini a slogan, ed è racchiusa nella title track la chiave di lettura perfetta di questo nuovo approccio creativo. È quasi impercettibile la costante interconnessione tra ritmi elettronici e analogici che regge gran parte delle composizioni che, pur non prive di variabili, restano adagiate su groove eleganti, prive di quel tono minaccioso e imperativo del passato.
L'urlo del canto di Franklin James Fisher è l'elemento avvincente e caratterizzante di "There Is No Year". Il tono è solenne, ponderato, ma sempre incendiario, pronto a sottolineare nuove prospettive poetiche nella ballata alla Antony And The Johnsons ("Losing Is Ours") che spezza l'impetuoso flusso del trio iniziale, in cui campeggia l'ardente inno di "Dispossession", aprendo poi le porte a una normalizzazione sonora che si tiene abilmente in equilibrio, tra impetuosi electro-funk violati da assoli stralunati di sax e noise industrial ("Chaka"), brani soul/jazz-noir ricchi di tensione ("Wait For The Sound") e corrosive ballate dal caotico flusso affine al geniale esordio ("We Can't Be Found").
I due produttori, Randall Dunn (Sunn O)))) e Ben Greenberg (Zs, The Men), hanno modificato non poco l'impatto generale della musica degli Algiers, lo si percepisce nelle meno incisive "Unoccupied" e "Repeating Night", ma anche nella riuscita poesia noir di "Nothing Bloomed". Spetta alla furiosa trama finale "Void" recuperare l'energia delle esibizioni live, un tentativo di ridurre le divergenze sempre più ampie tra i concerti e i progetti discografici, che alla fine suona lievemente pleonastico, nutrendo quei lievi dubbi che pongono "There Is No Year" un gradino al di sotto delle precedenti prove, ma, come argomentato nella premessa, sempre al di sopra della media imperante.
24/01/2020