Forse non dovrei sorprendermi della poca attenzione finora rivoltale, considerando le linee guida della musica della cantautrice londinese, più propensa a quel rock impercettibile stile Hugo Largo, dove il ruolo delle percussioni e delle chitarre è quantomeno accidentale. L’evanescente e raffinato chamber-pop di Chloë March non passerebbe inosservato se fosse pubblicato a nome di artisti più celebri (ad esempio, Kate Bush o David Sylvian). C’è un’estrema vulnerabilità in queste undici creazioni che non può essere apprezzata in pieno senza che le venga dedicata attenzione e pazienza.
Sia ben chiaro che “Starlings & Crows” non è un album difficile o pretenzioso, il candore della voce e le armonie dalle tonalità autunnali e oniriche sono un linguaggio facile da comprendere e interpretare.
Diafane (la title track), moderatamente sintetiche (l’affascinante“Turn Fox Then”), raramente palpitanti (l’intonazione del piano in “All Things Good”), melodicamente fragili (il synth-folk sinfonico di “Neon Emerald Sequin”), lievemente retrò (il tempo di valzer in “To A Place”), concise (la sontuosa “Remember That Sky” e la romantica “Chroma Bather”) o evanescenti (“High Hay”), le creazioni chamber-folk e dream-pop di Chloë March sono baciate da una inconsueta bellezza.
“Starlings & Crows” è un disco dalle fragranze delicate e penetranti, quasi un'aroma-terapia affidata alle sette note. Non mancano riferimenti letterari ("Alice nel paese delle meraviglie" in “Looking Glass Lawn), o storici (l’atterraggio sulla luna in “Landing 1969”), ma l’elemento prevalente è l’estrema cura del dettaglio degli arrangiamenti, un elemento che, unito alla profondità e intensità emotiva della raffinata e mai stucchevole padronanza vocale dell’autrice, conferma Chloë March come una delle eredi della magia di Kate Bush e delle meno note Heidi Berry e Virginia Astley.
(04/04/2021)