Il primo album che ritorna alla mente ascoltando il nuovo di Guè Pequeno è “American Gangster” di
Jay-Z. Leggenda narra che, terminata la visione dell’omonimo film, uscito nelle sale nel 2007, un folgorato Sean Carter si mise subito all’opera per dare alle stampe un disco
kolossal in grado di replicare l’eleganza del
capolavoro gangster di Ridley Scott (la storia del
kingpin nero Franck Lucas, interpretato da Denzel Washington). E in parte ci riuscì, mettendo in piedi una sfarzosa narrazione rap a metà tra realtà e
fiction. Con le giuste proporzioni e le opportune differenze, del tipo che Jay-Z è Jay-Z e Young Rame e Geolier non sono esattamente Lil Wayne e
Nas, anche per Cosimo Fini, da sempre appassionato di gangster, sembra finalmente giunto il momento del romanzo in rima.
In “Mr. Fini”, Guè è Franck Lucas, ma anche Carlito Brigante, Tony Montana e chiaramente Don Vito Corleone, richiamato in copertina. Ormai giunto ai quarant’anni, l’ex-Club Dogo dimostra di non aver perso il piacere di fare del rap di qualità nella sua accezione più ampia, che sappia all’occorrenza esser cafone, intrattenere e mostrare una vena più introspettiva. L’obbiettivo principale, in ogni caso, resta quello di scassare gli impianti delle macchine. Lo mette in chiaro l’iniziale “L’amico degli amici”, in cui Guè mostra di avere pochi eguali quando si tratta di sciorinare barre malandrine (“vendo barre come barella”, “frate in ogni città/ tengo amici di là/ che hanno amici di qua”). E nella successiva “Chico”, sorretta da una chitarrina
latin, arriva l’immancabile citazione di "Scarface" (“gli occhi, chico, non mentono mai”) affidata alla voce femminile di Rose Villain, poco prima che
Luchè faccia il suo con un’ottima strofa.
Nonostante l’estetica gangster e un po’ pacchiana (che emerge particolarmente in brani come “Medellin” o “Cyborg”), il sesto da solista di Guè Pequeno è un disco riflessivo e dalle tinte amare, allo stesso modo del suo fratello “Vero” (2015), ancora oggi il suo album più riuscito. A differenza però di “Vero”, che conteneva pochissimi
feature, questo è un album più condiviso, ricco di ospiti, che ne contaminano fin troppo l’impronta. Il ritornello di
Sfera Ebbasta in “Immortale”, la strofa di Paky in “Ti levo le collane” o quella di
Marracash in “Tardissimo” si limitano ad accompagnare, e forse tolgono più di quanto diano. E mentre ritornano, puntuali come ad ogni disco, gli omaggi reggae, reggaeton e dancehall (“25 ore”, “Parte di me” con
Carl Brave, “Dem Fake” con Alborosie), le canzoni migliori restano quelle in cui Guè si ritrova da solo a giocare la parte del gangster malinconico, come nell’R&B disilluso di “Saigon”, nella claustrofobia di “Stanza 106” e nelle memorie di “Ti ricordi?”.
La penna e l’orecchio per i beat non sono gli stessi dei periodi migliori, ma Guè Pequeno resta uno dei pochi rapper italiani con una visione lucida dell’album rap, inteso come insieme di testi, atmosfere, musiche in grado di costruire una storia. Ogni suo disco, anche il meno valido, ha una sua identità, e “Mr. Fini” rientra sicuramente tra i suoi migliori: scorre che è un piacere, senza drastici cali di tensione, muovendosi bene tra stili e sonorità differenti. E, in tutto ciò, non manca di mettersi a nudo, affrontando per la prima volta i temi dolorosi del suicidio e del difficile rapporto col padre, scomparso nel 2017.
Salvo grandi sorprese (tradotto: il nuovo di Sfera), sarà difficile per quest’anno trovare un album rap mainstream più vario e solido di quanto non sia questo di Guè. E il prossimo, ci posso scommettere, si chiamerà “Italian Gangster”.
03/07/2020