Street's disciple, my raps are trifle
I shoot slugs from my brain just like a rifle
Stampede the stage, I leave the microphone split
Play Mr. Tuffy while I'm on some Pretty Tone shit
Verbal assassin, my architect pleases
When I was 12, I went to Hell for snuffin' Jesus
(dalla strofa di Nas in “Live At The Barbeque”)
Nasir Bin Olu Dara Jones è considerato, con sorprendente unanimità, uno dei più grandi rapper di tutti i tempi, nonché uno dei più famosi che si ricordino. È nato a New York nel 1973 e ha pubblicato 12 album al 2020, di cui ben 7 hanno guadagnato l’ambito disco di platino negli Stati Uniti. Fra questi bestseller c’è anche Illmatic (1994), uno dei lavori più importanti dell’intera storia del genere, spesso assai in alto nelle classifiche dei migliori album hip-hop di tutti i tempi.
Il primo periodo della sua carriera, che possiamo far coincidere con i sestetto di anni dal ‘94 al ‘99, è importante per l’intera musica statunitense di fine millennio, nonché fondamentale per capire l’hip-hop fra i due secoli. La sua figura ha continuato a farsi conoscere da un ampio pubblico anche dopo il 2000, soprattutto per questioni di cronaca e di gossip e sempre meno per grandi canzoni o grandi album. Fa parte di questa seconda fase la lunga faida con Jay-Z, che tanto ha interessato le riviste di settore e le webzine. D’altronde, la sua produzione, febbrile sul finire del millennio, si è fatta sempre più rada e conta soli due album solisti e uno collaborativo pubblicati dal 2010 a oggi: è questa un’ultima, più distesa coda della sua avventura artistica, che ha svelato una personalità sensibile ai problemi socio-politici degli Stati Uniti e dell’Africa e pronta ad agire in tal senso, donando le proprie royalties per la causa.
Ripercorriamo insieme come un ragazzo cresciuto fra Brooklyn e Queens sia diventato uno dei più rispettati, amati, omaggiati e... scopiazzati rapper di tutti i tempi.
Il sogno di diventare un rapper è di quelli che possono bruciare al meglio solo nel cuore di un adolescente, con l’intensità che le aspirazioni hanno in quell’età. Prima soprannominatosi Kid Wave, quindi Nasty Nas, il quindicenne Nasir Jones esordisce con dei versi su “Live At The Barbecue” dei Main Source, dall’album “Breaking Atoms” (1991). Il brano “Halftime”, presente nella colonna sonora del thriller romantico di Oliver Stone “Zebrahead” (1992), non riesce comunque a garantirgli un contratto con un'importante etichetta rap, e d’improvviso la sua adolescenza si trasforma in un incubo: nel maggio del ‘92 muore, assassinato, il suo amico e primo deejay, Willy “Ill Will” Graham, in una sparatoria dove viene ferito anche il fratello. È il tipico momento che segna uno spartiacque nella vita, il trauma che funge da spinta verso una carriera trionfale. Fosse un supereroe da fumetto, sarebbe questo evento la sua origine.
Dopo pochi mesi Mc Search inizia a collaborare con Nas, fino a pubblicare “Back To The Grill”, contenuta nell’esordio “Return Of The Product” (‘92). Proprio Mc Search lo aiuta a trovare il tanto agognato contratto, addirittura con la potente multinazionale Sony. Il suo mentore diventa produttore esecutivo dell’ormai prossimo esordio, al quale collabora un producer di prima categoria: Christopher Edward Martin aka Dj Premier, già distintosi con Gang Starr, Ice-T, Heavy D, Krs-One e in futuro un nome importante negli album di giganti dell’hip-hop come Big Daddy Kane, Notorious B.I.G., Jay-Z e Rakim. Ad affiancare Martin ci sono altri pezzi grossi: William Paul "Large Professor" Mitchell, già sentito nei lavori di Eric B. & Rakim, Kool G Rap & DJ Polo e anche in un brano dei leggendari A Tribe Called Quest, di Slick Rick, di Big Daddy Kane e tanti altri; Kamaal Ibn "Q-Tip" John Fareed, membro degli A Tribe Called Quest e uno dei padri del jazz-rap; Leshan David "L.E.S." Lewis, destinato a diventare un importante collaboratore di Nas nei primi anni della carriera, approdato al mainstream con Will Smith e Jennifer Lopez dopo qualche anno; Peter O. "Pete Rock" Phillips, svezzato dalle produzioni per Heavy D & the Boyz, poi passato per EPMD, Public Enemy, Run-DMC.
Il fatto che Nasir Jones fosse additato come uno dei più talentuosi tra i giovani rapper, insieme all’interesse della major e la collaborazione del suddetto team di produttori ha ingigantito l’attesa dell’esordio, fino a far fantasticare di un album che avrebbe per sempre cambiato l’hip-hop: come raramente accade con l’hype, questa volta l’attesa è stata più che ripagata.
No doubt, we gon' keep it real, true, true.
(da “The Genesis”)
Illmatic (1994) è 40 minuti scarsi di Nuovo Testamento hip-hop, firmati da un diciannovenne. Se i testi degli anni 80 erano diretti, semplici e efficaci, con una sacrosanta voglia di divertire e divertirsi, nel corso di un decennio il genere è stato stravolto dalla necessità di un messaggio anche sociale e politico, dall'esplosione incredibile della complessità delle produzioni e dalla sempre più affinata tecnica dei rapper. In Illmatic tutto questo confluisce: la narrazione delle difficoltà della metropoli statunitense si unisce a un flessuoso amalgama di funk, jazz e soul per offrire a Nasir Jones la possibilità di scatenare la sua poetica del ghetto: una ragnatela di rime semplici, interne e multisillabiche; enjambement che oliano un flow liquido e assonanze a disegnare ritmi articolati. Il suo modo di unire le dense strofe con alcuni accattivanti ritornelli apre la conquista della terra di mezzo fra hardcore-rap e classifiche pop che pochi altri, forse il solo Notorious B.I.G., percorrono in quel periodo e che Nas conquisterà con il secondo, più commerciale, album.
Entriamo nella narrazione con "The Genesis ", che descrive il contesto cittadino dell'album e fornisce una prima diapositiva di Nas, uno di coloro che ha vissuto sin da piccolo di hip-hop. Il manifesto stilistico "N.Y. State Of Mind" racconta la vita di violenza e crimine su di un jazz claustrofobico, che ossessivamente si ripete mentre una lunghissima strofa viene sgranata come un rosario che parla di spaccio e disperazione. È il mood dominante, quello di chi si sente soffocato da un quartiere che non lascia vie di scampo, se non un sogno come la musica. Neanche il funk sognante di "Life's Bitch", più edonista anche nel testo, toglie l'ombra di malinconia e disperazione che attraversa l'album, qui palesata dal dolcissimo assolo di tromba finale.
I never sleep, 'cause sleep is the cousin of death
Beyond the walls of intelligence, life is defined
I think of crime when I'm in a New York State of Mind
(da “N.Y. State Of Mind”)
"The World Is Yours" individua proprio la difficile via d'uscita dal quartiere e le sue miserie, verso la simbolica conquista del mondo: è un raggio di luce che riscalda il cuore, una rasserenante positività che dimostra la complessità dell'hardcore-hip-hop di Nas, per niente appiattito sui cliché della violenza, del braggadoccio e della cupidigia.
La già edita "Halftime" si inserisce perfettamente a metà album, un brano scritto da un adolescente che non sfigura neanche fra gli altri classici in scaletta. "Memory Lane (Sittin' In Da Park)" si avvolge di un trasporto religioso, quando le voci diventano quasi una preghiera gospel. La lettera agli amici in carcere di "One Love" suona, a posteriori, un cliché: è uno sfoggio di autenticità, da vero ragazzo della strada, che gode di una produzione da antologia di Q-Tip, un mago che riorganizza un jazz per vibrafono per farlo suonare come un notturno contrappunto alle affilatissime rime del nostro Jones. "One Time 4 Your Mind" e "It Ain't Hard To Tell" servono come vetrina della tecnica del rapper, mentre "Represent", con il suo coretto old-school, ha tutti i crismi dell'inno hip-hop, a partire dal titolo e la sua assonanza con "rap".
I'm out for presidents to represent me (Say what?)
I'm out for presidents to represent me (Say what?)
I'm out for dead presidents to represent me
(da “The World Is Yours”)
Dopo aver esordito al #12 della Billboard 200, l'album fatica a consolidare il suo successo commerciale. I singoli non sono il trionfo che sarebbe lecito aspettarsi, così solo nel 1996 arriva il disco d'oro: nel 2001 si aggiunge il platino per il primo milione di copie, bissato nel 2019, a testimonianza di come Illmatic sia diventato un long-seller da manuale. D'altronde, i critici musicali hip-hop lo identificano da subito come una pietra miliare, un capolavoro destinato a diventare imprescindibile. A tal proposito, il ricordo di quanto avvenuto nella redazione di "The Source" può restituirci un'istantanea di quei primi ascolti: "Sono circa le 21. Arrivo in ufficio e raccolgo tutti i capi nella sala conferenze. Ricordo chi c'era: [Matty C], [Chris Wilder], [Schott 'Free' Jacobs]. Ognuno annuisce con la testa, gli occhi spalancati, la bocca aperta, è il paradiso dell’hip-hop. Avevamo un sistema audio piuttosto schifoso, ma non importava, io suono il nastro e dagli altoparlanti esce una musica magica. Quando arrivano le note funky/ inquietanti/potenti dello xilofono di 'One Love', ricordo che [Jacobs] si è letteralmente disteso sul pavimento... Non riesce a capacitarsi di quanto sia bello. Nessuno di noi può. È la migliore roba che abbiamo sentito nelle nostre vite... Internamente, iniziamo a discutere su come gestiremo questo disco. Dico subito che deve ottenere un 5” (traduzione nostra). All'epoca la regola del voto più alto, garantito solo ai classici, rendeva impossibile premiare con 5 anche gli album con tutti i crismi dell'instant-classic: fu evitato anche per "The Chronic" di Dr. Dre, ma fu accordato per Illmatic, suscitando stupore fra gli appassionati e avviando quella diceria che vorrebbe l'esordio di Nas come un album sopravvalutato.
Delle mille recensioni e mille analisi possibili, di cui sono affollate le riviste dell'epoca, i libri sull'hip-hop e persino molti volumi più generalisti (compreso il celebre "1001 Albums You Must Hear Before You Die" della Universe Publishing), vale la pena di citare una retrospettiva del 2002 su "Prefix Mag" firmata da Matthew Gasteier: "If every other hip-hop record were destroyed, the entire genre could be reconstructed from this one album" (se ogni altro disco hip-hop fosse distrutto, l'intero genere potrebbe essere ricostruito partendo da questo album).
Il secondo album è un tentativo di usare il talento cristallino per diventare famoso non solo fra gli appassionati, ma presso il grande pubblico. L'obiettivo è raggiungere i risultati commerciali del "Doggystyle" (1993) di Snoop Dogg, che aveva venduto un milione di copie in pochi giorni. Per farlo bisogna puntare sulla quantità, la semplicità e sul giusto manager, stravolgendo il metodo di lavoro per attaccare il mercato in modo mirato ed efficace: via l'essenziale scaletta di 10 brani per 40 minuti, pochi ospiti e nessun filler dell'esordio per un blocco di 14 brani in 56 minuti trainato da un singolo da radio come "If I Ruled The World (Imagine That)", con l'allora celebre Lauryn Hill dei Fugees; via l'estraneità alle etichette di moda del momento per un'adesione a tratti assai decisa agli stilemi del gangsta-rap e del mafioso-rap, un po' come fatto dal collega Notorious B.I.G. per il secondo album; via il team di soli produttori sofisticati simpatizzanti del jazz-rap, allargato a nomi di grande successo come Trackmasters e a un veterano di enorme successo come Dr.Dre; cambio di manager, con l'arrivo dell'ambizioso Steve "The Commissioner" Stoute.
Il Nas verace, esaltante dell'esordio diventa un rapper che cita Pablo Escobar come un modello, elenca marchi famosi e fondamentalmente si vanta del proprio pedigree da criminale dei bassifondi. Pubblicato nel 1996, It Was Written rimane comunque l'album di un fuoriclasse, solo che ha sostituito l'urgenza del raccontarsi e raccontare con la musica con la necessità di sostenere uno stile di vita da esaltato e volgare gangsta-rapper. "The Message", vorrebbe ricollegarsi a Grandmaster Flash, ma la successiva "Street Dreams", con i colpi di pistola e il ritornello ripreso da "Sweet Dreams" degli Eurythmics, getta la maschera: è Nas che segue la scia degli altri successi del periodo, somigliando più al primo Jay-Z che ai maestri della golden age.
Il ritorno di Dj Premier per "I Gave You Power" è l'occasione per un altro show di tecnica per Nas, mentre "Nas Is Coming" registra la collaborazione con Dr. Dre, il dio del g-funk.
Per rendere l'idea della sfacciata grandeur che si avverte durante l'ascolto, Nas si fa affiancare anche dal suo gruppo, i The Firm, in "Affirmative Action": sono lo stesso Nas, AZ, Foxy Brown e Cormega e dureranno il tempo di un solo, deludente, album. "Black Girl Lost" (featuring Joel "JoJo" Hailey) vira verso un più morbido pop-rap sensuale prima che "Suspect", col fruscío dei vinili, ricordi a tutti che si tratta pur sempre dell'autore di Illmatic, con spettacolari accelerazioni del flow e strofe-fiume.
Pur aderendo a uno stile già ben delineato, "Live Nigga Rap" (featuring Mobb Deep) è comunque uno dei classici del genere, un freestyle a due voci da antologia. Infine, la già citata "If I Ruled The World", l'unico momento che potrebbe aggiungersi alla scaletta dell'esordio senza soffrire confronti: una sfumatura nostalgica e malinconica; un sensazionale controllo del ritmo e della metrica; la splendida voce di Lauryn Hill e la produzione scintillante di Trackmasters.
Life, I wonder
Will it take me under?
I don't know
(dall’introduzione di “If I Ruled The World”)
Accolto dalla critica con quell’entusiasmo che spesso segue più l’artista che l’opera, il disco offre l’occasione per parlare del rapper anche a coloro che in qualche modo avevano trascurato l’esordio. Un blando “effetto alone”, che porta il seguito di Illmatic a ricevere molta attenzione e brillare, almeno in parte, di luce riflessa. Con la prospettiva che si può avere ascoltando i due album qualche lustro dopo, It Was Written sembra il fratello minore dell’esordio, un lavoro meno conciso e affinato, che ha come protagonista lo stesso rapper fuoriclasse. I risultati commerciali sono, almeno quelli, assai migliori del primo album: diventa doppio platino, vendendo più di due milioni di copie, nel giro di pochi mesi. Il modesto calo creativo e l’esplosivo successo di vendite porta molti ascoltatori e musicofili a rinforzare una narrazione tanto stereotipata quanto semplicistica e un po’ infamante, che vorrebbe Nas come un rapper che ha venduto tutto se stesso al mercato, perdendo qualsiasi spessore come portavoce del nuovo hip-hop. È un appiattimento della dinamica che anima la prima parte della carriera del nostro Jones, che certo non ripete il miracolo dell’esordio ma che continua a ispirare la scena hip-hop, scrivendo, se non album, singoli brani da antologia. Soprattutto, come vedremo, è ingenerosa dei tentativi del rapper di continuare a evolversi, con difficoltà che porteranno a una crisi, questa davvero profonda, nel giro di pochi anni.
Nel 1997 i già citati Firm esordiscono con “The Album”, ottenendo risultati commerciali notevoli, ma sopravvivono il tempo di una stagione: un progetto troppo instabile, tenuto insieme solo dall’ambizione di Dr. Dre e Nas, all’epoca sulla cresta dell’onda. In seguito al successo, pur temporaneo, del supergruppo, e in scia all’entusiasmante risultato di vendite del secondo lavoro, Nas si mette al lavoro su un doppio album che sia il suo "All Eyez On Me" o il suo "Life After Death". Dovrebbe chiamarsi "I Am... The Autobiography" ma disgraziatamente non vedrà mai la luce: nel 1998 una versione pirata dell'album arriva su internet, attraverso uno dei leak più chiacchierati dell’hip-hop. Per risolvere la situazione si opta per due pubblicazioni separate nel 1999: prima I Am… e poi Nastradamus.
Il primo album contiene l'inno hardcore "Hate Me Now", con Sean "Puff Daddy" Combs, ma è in generale un lavoro incoerente, che rievoca la malinconia degli esordi in "Small World" e “Nas Is Like”, ma anche uno stile assai più ruffiano in momenti come la filastrocca "I Want To Talk To You" e "You Won't See Me Tonight", un r'n'b latineggiante che potrebbe uscire da un album di Jennifer Lopez.
C'è spazio anche per momenti di ammiccante g-funk come "Dr. Knockboot" e “Money Is My Bitch”, rinnovando l’occhiolino alla West Coast. Così diviso fra gli esordi stradaioli e le hit del successo, si delinea un lavoro che è pieno di compromessi, animato dall’abilità di rapper di Nas (ascoltate “Big Things”) e tenuto insieme dalle produzioni eccezionali firmate dai sempre presenti Dj Premier e L.E.S., ora affiancati dai più commerciali Trackmasters e Timbaland.
Most critically acclaimed Pulitzer Prize winner
Best storyteller, thug narrator, my style's greater
Model dater, big threat to a lot of you haters
Commentators ringside try watchin' my paper
Almost a decade, quite impressive
(da “Hate Me Now”)
Dopo aver debuttato direttamente al numero uno della Billboard 200, vendendo 470 mila copie nella prima settimana, I Am… ottiene nel tempo il doppio disco di platino. Il seguito Nastradamus, a comporre un atipico doppio album, sembra però mostrare una flessione dell’ispirazione e anche dell’interesse del pubblico. Vende, infatti, la metà delle copie nella prima settimana rispetto al predecessore, a testimonianza del minore entusiasmo del mercato, ma raggiunge comunque il disco di platino, a quota un milione di copie. Nonostante la title track sia uno dei brani più divertenti della carriera, c’è poco che possa stare vicino ai brani migliori del passato, nonostante “You Owe Me” abbia raggiunto il numero 59 della Billboard Hot 100.
La fine del millennio coincide con la fine del periodo gangsta-rap per Nas, che rischia di inimicarsi velocemente gli appassionati in una fase confusionaria della sua parabola artistica. Per tornare in carreggiata, il rapper riparla della vita di strada e delle diapositive del ghetto come ha fatto nell’esordio, scegliendo per il quinto album il titolo Stillmatic (2001, un portmanteau fra “still”, cioè “ancora”, e Illmatic). Per rinfocolare l’animo dei fan, promuove anche una faida con Jay-Z con “Ether”, rispondendo alla “Takeover” (2001) di quest’ultimo. Il pubblico reagisce bene, e l’album torna a superare la quota dei due milioni di copie vendute, registrando un considerevole “rimbalzo” rispetto alla traiettoria discendente segnata da Nastradamus.
Ritornato allo storytelling dei primi tempi, Nas replica in parte la magia del capolavoro con cui ha iniziato la propria carriera, anche se l’impatto del lavoro sulla scena è assai più modesto e il contesto assai cambiato: non solo sono già stati pubblicati gioielli sperimentali come l’omonimo dei “Deltron 3030” (2000) e “The Cold Vein” (2001) dei Cannibal Ox, tutto sommato affini a target differenti, ma nuove leve si sono fatte largo sulla scena, e parliamo di giganti apprezzati anche dal mainstream come Eminem (“The Marshall Mathers Lp” è del 2000) e Jay-Z (“Reasonable Doubt” del 1996 ma anche “The Blueprint”, del 2001), del duo southern-hip-hop degli OutKast (gli eccezionali “Aquemini”, del 1998, e “Stankonia”, del 2000, sono già storia) e di fuoriclasse della rima come Aesop Rock (“Float” e “Labor Days” sono di quel biennio e temono pochi confronti) e MF Doom (“Operation: Doomsday” del 1999).
Fra il 1994 e il 2001 l’hip-hop è esploso in un ventaglio di stili assai diversi, portati nel frattempo ad alti livelli creativi: in altri termini, non basta più essere un mostro della metrica, un prodigio del ritmo e un giovane ragazzo del ghetto con un passato difficile per distinguersi in una scena tanto affollata, viva e rigogliosa. Detto questo, Stillmatic è davvero un ritorno alle origini, soprattutto alla clamorosa destrezza nelle rime che anima la già citata "Ether", la movimentata "Got Ur Self A…" (buona per i fan de "I Soprano"), l'aggressiva "One Mic" o l'esplosiva "Rule". Numeri che rimangono d'esempio per tutti gli aspiranti rapper, ma che non riescono a indicare la via futura al genere.
I've been fucked over, left for dead, dissed and forgotten
Luck ran out, they hoped that I'd be gone, stiff and rotten
Y'all just piss on me, shit on me, spit on my grave
Talk about me, laugh behind my back, but in my face
Y'all some well-wishers, friendly-acting, envy-hiding snakes
With your hands out for my money, man, how much can I take?
(da “Ether”)
Comprensibile, quindi, che The Source assegni anche a Stillmatic l’agognato massimo punteggio di cinque microfoni, seguendo una linea editoriale che poco ha premiato la scena del nuovo millennio. Visto con vent’anni di storia dell’hip-hop successiva, facilmente consultabile e ripercorribile, però, si tratta di un tardo esempio di cosa avrebbe potuto essere la carriera di Nas se non avesse voluto avvicinarsi dal mondo gangsta-rap e mafioso-rap.
Pochi mesi prima una compilation aveva avvicinato Nasir Jones ad altri rapper del Queens, quali Mobb Deep, Nature, Nashawn, Littles, Bravehearts e Cormega, ma sfoggiando anche comparsate di miti della golden age come Roxanne Shanté, MC Shan e Marley Marl. Il titolo della raccolta, "Nas & Ill Will Records Presents QB's Finest" (2000), cerca di riconnettere il rapper alle case popolari del quartiere di New York, Queensbridge (abbreviato “QB”).
Nel tentativo di ricomporre la propria rap-persona in modo definitivo, arriva anche la compilation The Lost Tapes (2002), etichettata nelle note come “No cameos. No hype. No bullsh*t". È l’opposto dello stile esaltato, spettacolare, bombastico e chiassoso di Jay-Z. Ferma l’orologio dopo il minuto 43, dividendo la scaletta in 11 brani e quindi dimostrandosi essenziale anche nella struttura. Ci sono brani che si confondono bene con quelli di Illmatic e Stillmatic, come "No Idea's Original", un altro sfoggio di tecnica del rapper ma anche una splendida produzione hardcore-jazz, firmata da The Alchemist, o la più malinconica “Drunk By Myself”.
Quando arriva il sesto album, God’s Son (2002), è l’anno in cui Eminem cerca di cucire lo strappo fra Nas e Jay-Z inserendo entrambi nella sua lista dei più grandi rapper di tutti i tempi: in “‘Till I Collapse” cita infatti “Reggie [Redman], Jay-Z, 2Pac and Biggie, André from OutKast, Jada, Kurupt, Nas, and then me”. È un lavoro che continua la faida con Jay-Z (“Last Real Nigga Alive”), ma che è condizionato anche dalla morte recente della madre del rapper (la commovente “Dance”). Ben piazzato sulla Billboard 200, ottiene il platino e conferma un ritorno all’ispirazione, qui aiutata da un eterogeneo team di produttori, fra cui il suddetto Eminem e Salaam Remi, e da qualche partecipazione di lusso, dalla regina della black music Alicia Keys nella sofferta “Warrior Song” alla futura moglie Kelis nel funk-pop-rap di “Hey Nas”, fino a un duetto postumo con 2Pac. È un Nasir Jones più riflessivo, maturo e introspettivo, finalmente tornato al controllo della propria carriera. Si concede persino un campionamento di “Per Elisa” di Beethoven in “I Can”, rinnovando l’esperimento di Xzibit con “Paparazzi”, e rappa su una chitarra acustica in “Thugz Mansion (N.Y.)”.
Il periodo positivo prosegue con Street’s Disciple (2004), un doppio album assai contenuto, che in meno di 90 minuti racchiude i frutti del nuovo corso. A livello commerciale, è un trionfo: arriva al milione di copie in sole due settimane. Questa volta Salaam Remi domina la produzione, intervenendo in ben 11 brani. Spesso un puro lavoro hardcore-hip-hop senza molte concessioni contiene le strofe da infarto dell'ossessiva "Nazareth Savage" e molte trovate vintage negli arrangiamenti (per esempio, si ascoltino "Disciple" e “You Know My Style”).
C’è anche una stravaganza come la presenza di Scarlett, la versione “femminile” di Nas creata alterando la voce del rapper. Poche ospitate, ma quelle di Ludacris e Busta Rhymes aggiungono spessore all’opera e ammiccano a una nuova generazione di ascoltatori. Toccante il tributo a Rakim di “U.B.R. (Unauthorized Biography Of Rakim)”, il rapper che più da vicino ha ispirato Nas.
Nell’ottobre del 2005 si riappacifica con Jay-Z e viene messo sotto contratto dalla Def Jam di quest’ultimo, per una coppia di album: un accordo da circa 3 milioni di dollari, non esattamente svantaggioso. L’ottavo album, Hip Hop Is Dead (2006), ricuce la divisione fra East Coast e West Coast, mettendo insieme la scena di fine millennio in un’opera che vorrebbe fare il punto sul genere a fine decennio. Gli ospiti vanno dall’ex-moglie Kelis, al genio massimalista di Kanye West, passando per l’ormai amico Jay-Z, il pop-rapper will.i.am, l’ex-prodigio di Dr. Dre ovvero Snoop Dogg, fra gli altri. A ben guardare, manca completamente la scena del Sud, tenuta fuori dai giochi e, secondo alcuni, bersagliata nell’album: il southern-hip-hop ha portato alla fine del genere, secondo una semplificazione che poi si è ripetuta un po’ ovunque con la diffusione della trap. Fatto sta che a fine decennio si respira aria di cambiamento e anche di stanchezza, una coesistenza di fattori tipica della fine di un’epoca.
Sarà proprio Kanye West con “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” (2010) a segnare il confine, con un lavoro epocale e ambizioso. Nel giro di pochi anni i nuovi rapper supereranno, nel consensus critico e nei risultati commerciali, i più esperti artisti che avevano esordito nei Novanta. Il debutto di Danny Brown arriverà nel 2010, quello di Kendrick Lamar è del 2011, i Death Grips si aggiungeranno nel 2012 e così via.
L’hip-hop non è morto, ma è in corso un avvicendamento generazionale, al quale poche vecchie volpi sopravviveranno. Commentando il titolo, Nas ha dichiarato su Mtv.com: "Quando dico che l'hip-hop è morto, fondamentalmente l'America è morta. Non c'è voce politica. La musica è morta... Il nostro modo di pensare è morto, il nostro commercio è morto. Tutto in questa società è stato fatto. [...] Se non cambiamo, scompariremo come Roma. Penso che l'hip-hop possa aiutare a ricostruire l'America". Anche per il suo titolo provocatorio, oltre agli ospiti d’eccezione, l’album fa discutere e raggiunge anche il platino negli Stati Uniti. Le canzoni, invece, sono diligenti esempi di hip-hop come “Money Over Bullshit” e “Carry On Tradition”, con “Hip Hop Is Dead” che scomoda persino gli Iron Butterfly. Un po’ di originalità arriva in “Who Killed It?”, con la sua pomposa musica thriller, e nella soffusa “Still Dreaming”.
Il nono album, senza titolo ma conosciuto come Nas (2008), ravviva l’attenzione con tematiche sociali, incendiando gli animi sin dalla scelta del titolo, che avrebbe potuto essere “Nigger”. Sembra il tentativo di riguadagnare attenzione, con le provocazioni, in un momento difficile della propria carriera. È un disco dai suoni classici, che certamente rinnova la convinzione che Nas sia un mago del flow, come lo fa anche l'ennesimo album di Jay-Z o Eminem, ma non sarà uno di questi brani a essere ricordato nella sua lunga carriera e le uscite politiche, come "Black President", reggono male la prova del tempo. Il singolo "Hero", bombastico e affollato di vocalizzi femminili, è il suo trascurabile contributo al pop-rap di fine decennio.
Distant Relatives (2010) lo vede collaborare con Damian Marley, in una fusione di hip-hop e reggae. Un lavoro divertente ed eterogeneo, che i due autori utilizzano per raccogliere soldi a scopo umanitario, al fine di costruire scuole in Africa. In buona parte, lo spasso è assistere alla spola fra i due titolari, magari allargata anche a ospiti assai diversi fra loro. In "My Generation" arrivano i rinforzi di Joss Stone e Lil' Wayne, per un quartetto assai atipico e probabilmente irripetibile. Un lavoro interlocutorio, che risponde al nuovo spessore sociale e politico della musica di Nas, prima che Life Is Good (2012) segni il vero e proprio ritorno solista dopo ben quattro anni. Album numero undici, scritto in seguito al divorzio con Kelis, è affine alla malinconia e alla riflessività di God’s Son (2002) e ritorna, anche nei suoni, al boom-bap e alla golden age. A proposito dei temi dominanti nell’album, Nas ha dichiarato a Billboard: “Questo album parla di vita, amore e denaro. Parla del fatto che il matrimonio è costoso. [...] Rappresenta i momenti più belli, drammatici e pesanti della mia vita” (traduzione nostra).
Arrivato ormai alla quarantina, Nas racconta la sua crisi di mezza età da par suo, dopo quattro anni di allontanamento dalle scene, facendosi aiutare anche da ospiti di spessore, da Mary J. Blige a Amy Winehouse, da Large Professor a Rick Ross. Si fa pessimista, persino cupo in "World's An Addiction", ma più spesso è semplicemente e nostalgicamente intento a guardarsi alle spalle e raccontarsi. Sembra l’ideale chiusura della carriera, ma è solo un’impressione.
Dopo ben sei anni, nel 2018, arriva Nasir, sin dal titolo un album che vorrebbe essere il più personale. Prodotto da un Kanye West inarrestabile, che lo inserisce in una serie di cinque pubblicazioni a cadenza settimanale, consta di soli 26 minuti di materiale per appena 7 brani totali. A differenza di Illmatic, l’essenzialità non paga granché, e nel poco materiale presente si incontrano anche riempitivi e momenti minori, come succede al coevo “ye”, proprio di West, che condivide il formato miniaturizzato. Inoltre, la brevità questa volta si accoppia a una pomposità al limite della parodia ("Not For Radio") o un'iperattività che sfocia nel confusionario (la martellante "Cops Shot The Kid").
Per la prima volta la critica lo boccia sonoramente: nel frattempo, come scrivevamo poco sopra, è nata una nuova generazione di artisti hip-hop che rendono obsoleta, o semplicemente misera, un’opera come questa. Nell’anno di “Ta13oo” di Denzel Curry e “Astroworld” di Travis Scott, ma anche del “Daytona” di Pusha-T, che fa parte della stessa serie di pubblicazioni di Nasir, il confronto è decisamente svantaggioso per il ragazzo prodigio di Queensbridge. Nel 2019 arrivano altri inediti per completisti, raccolti su The Lost Tapes 2. È una compilation dispersiva e incoerente, ma fra i suoi limiti risplende ancora il talento di un tempo, quello che una volta, 25 anni prima, ha cambiato il corso della musica hip-hop.
Quando torna con un album in studio, King's Disease (2020), sceglie la forma per lui più congeniale: circa quaranta minuti, una dozzina di brani e tanti anni Novanta nelle produzioni di Hit-Boy. A muovere i pezzi c’è la sua abilità di incastrare rime e concetti, in un puzzle di giochi di parole e collegamenti inaspettati, che da sempre è la sua forza. Aiutano anche le numerose ospitate: Anderson .Paak, A$AP Ferg, Big Sean, Dr. Dre, Brucie B, Charlie Wilson, Don Toliver, Fivio Foreign e Lil Durk. Per l’occasione, in “Full Circle” si riuniscono anche gli evanescenti The Firm, il supergruppo formato nei Novanta da Foxy Brown, Az e Cormega insieme allo stesso Nas. Certamente, sono lontani i tempi dei racconti di quartiere, le narrazioni realistiche delle dinamiche di strada e anche i tentativi di rifondare l’hip-hop. Questa volta Nas fa semplicemente quello che riesce meglio ai grandi rapper, racconta la realtà dal suo punto di vista, unendo personale e collettivo. Scivola quando cerca di svecchiarsi fino a snaturarsi, come in “27 Summers” e “Til The War Is Won”, ma in generale riesce a mettere insieme il suo album migliore da Life Is Good (2012) e inverte la parabola discendente pericolosamente intrapresa con Nasir.
Un anno dopo torna per il suo tredicesimo album, King's Disease II, insieme a un gruppo di amici, alcuni di grande caratura. Il protagonista è comunque sempre il suo modo naturale di rappare e raccontare, un’attitudine allo storytelling che ha pochi paragoni nel genere. In questi quindici brani il titolare del capolavoro Illmatic sembra dover semplicemente confermare che sta invecchiando molto bene.
A rubare la scena ci sono due brani collaborativi: “EPMD 2”, con gli EPMD ed Eminem è l’occasione più unica che rara di assistere a un supergruppo delle meraviglie dietro al microfono; “Nobody”, con il ritorno dell’usignolo-rapper Lauryn Hill, 25 anni dopo il gioiello “If I Ruled The World (Imagine That)”, riesce a scrivere una versione disillusa di quel brano sognante.
Produce soprattutto Hit-Boy, che questa volta fluttua fra soluzioni contemporanee e sofisticate costruzioni sonore nostalgiche. Il re potrà essere un po’ vecchio e un po’ malato, ma è pur sempre il re.
Il momento è talmente positivo che arriva anche un regalo di Natale, il breve Magic (2021): è uno show da fuoriclasse, con brani come "Meet Joe Black" che entrano in una sua ideale antologia hardcore e nuove riflessioni mature, come "Ugly". La sinergia con Hit-Boy è più unica che rara.
Dopo quasi un anno arriva anche King’s Disease III. Nessuna ospitata al microfono, con le produzioni che continuano a spaziare tra elementi contemporanei e dolci nostalgie novantiane. Protagonista assoluto il rap di Nas, lanciato verso i cinquant'anni ma ancora estremamente fluido, forte di tre decenni di esperienza sul campo e di una ritrovata urgenza comunicativa.
I 16 brani più bonus track totalizzano 57 minuti che tra sprazzi jazz-rap e sample da chipmunk-soul, saltellanti figure pianistiche e archi drammatici, scratch da vecchia scuola e mitragliate di hi-hat da trap restituiscono un Nas che suona attuale senza rinnegare il proprio passato.È la chiusura di una trilogia che suona come una rinascita, affinata capitolo dopo capitolo.
A colpire è l'imbarazzante naturalezza sul beat, un mix di abilità e musicalità che chiama applausi a scena aperta, come quelli di "Ghetto Reporter", e fa muovere gloriosamente il culo a tempo su "Legit", o ancora inchioda i timpani nell'hardcore-hip-hop di "Thun". Nas può giocare al campionato di Future e superarlo ("30") per poi rinfrescare gli inni di quartiere di qualche decennio fa ("Hood2Hood"): non si è fermato e non si fermerà, come afferma in "Recession Proof" ("New makes, new models/ I won't let 'em stop me").
Forse il tema dominante non è sempre messo a fuoco o portato avanti con la stessa ispirazione ma nel corso dei tre capitoli emerge un rapper rivitalizzato, dal quale era lecito anche aspettarsi molto di meno, viste le condizioni in cui versano le carriere di tanti suoi colleghi, anche più giovani.
Il più breve Magic 2 (2023), di nuovo con Hit-Boy alla produzione, serve soprattutto a certificare questa seconda giovinezza del rapper, in un formato meno ambizioso. Più che l’agilità al microfono, che è mostrana sin dall’iniziale “Abracadabra”, questo nuovo e breve album si ricorda per una collaborazione inaspettatamente riuscita con 50 Cent, cioè un ponte tra due modi diversi di intendere il racconto della strada, emersi in due periodi diversi della lunga storia dell’hip-hop. Ma è quando ritrova un beat ossessivo come quello di “Motion”, tra rintocchi funebri e archi drammatici, che Nas stupisce per l’abilità nel cambiare delivery e flow, dimostrandosi dinamico e duttile anche alla soglia dei cinquant’anni. Chiaramente non ha più nulla da dimostrare, e Magic 2 si aggiunge alla florida creatività dimostrata negli ultimi anni senza stravolgere nulla nei presupposti e nei risultati.
A completare il filotto in collaborazione con Hit-Boy arriva anche Magic 3, sempre nel 2023, che festeggia anche il cinquantesimo del rapper. I 15 nuovi brani, con Lil Wayne come unico ospite in “Never Die”, rinnovano la formula ormai conosolidata di questa seconda giovinezza di Nas, in equilibrio tra classicità e contemporaneo. “Fever” lucida quell’abilità di volare di verso in verso, con naturalezza, rievocando lo spirito novantiano con un campionamento di Illmatic: un portale spazio-temporale unisce due epoche diverse, ritrovatesi nel timbro educato di questo gigante dell’hip-hop. È una partenza a suo modo simbolica, la chiusura di un cerchio che introduce momenti più moderni e brani anfibi, che citano i Novanta ma rileggendoli in modo creativo.
Lungo la scaletta Nas racconta la ritrovata creatività, guarda al passato con la saggezza di un cinquantenne (“Sitting With My Thougts”), irradia good vibes (“I Love This Feeling”), ritorna a raccontare storie di dolorosa quotidianità (“Based On True Events Pt. 2”) e indovina un brano degno dei suoi migliori come “No Tears”: una marcetta immersa in cori angelici e synth paradisiaci funge da sfondo per rileggere la violenza e commemorare i cari defunti. Arrivati a fine scaletta, “1-800-Nas&Hit” si prende il tempo per celebrare questo sestetto di album in collaborazione, chiudendo una esalogia che ha pochi paragoni nella storia dell’hip-hop.
Nel 2018 Nielsen diffonde la notizia che il macrogenere r'n'b/hip-hop è il più ascoltato al mondo. Ha sorpassato il rock, che ha dominato negli anni precedenti, e sembra destinato a continuare a raccogliere la preferenza del grande pubblico anche negli anni Venti. Per capire meglio la nuova colonna sonora del mondo, è imprescindibile ripercorrere la storia dei protagonisti, tra i quali sicuramente merita di comparire il nostro Nasir Bin Olu Dara Jones.
Illmatic(Columbia, 1994) | ||
It Was Written(Columbia, 1996) | ||
I Am(Columbia, 1999) | ||
Nastradamus(Columbia, 1999) | ||
Stillmatic(Columbia, 2001) | ||
God's Son(Columbia, 2002) | ||
The Lost Tapes(raccolta, Columbia, 2002) | ||
Street's Disciple(Columbia, 2004) | ||
Hip Hop Is Dead(Def Jam, 2006) | ||
Nas(Def Jam, 2008) | ||
Distant Relatives(con Damian Marley, Universal Republic / Def Jam, 2010) | ||
Life Is Good(Def Jam, 2012) | ||
Nasir(Def Jam, 2018) | ||
The Lost Tapes 2(raccolta, Def Jam, 2019) | ||
King's Disease(Mass Appeal, 2020) | ||
King's Disease II(Mass Appeal, 2021) | ||
Magic (mini-album, Mass Appeal, 2021) | ||
King's Disease III(Mass Appeal, 2022) | ||
Magic 2 (Mass Appeal, 2023) | ||
Magic 3 (Mass Appeal, 2023) |
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