Nas

Illmatic

1994 (Columbia)
east coast hip-hop, hardcore hip-hop

The city never sleeps, full of villians and creeps
That's where I learned to do my hustle had to scuffle with freaks
(da "N.Y. State Of Mind")

L'attesa

Nasir bin Olu Dara Jones inizia a farsi chiamare Nasty Nas nel 1989, a sedici anni. Questo nomignolo diventerà una delle poche alternative conosciute dalla maggior parte degli ascoltatori oltre al suo più celebre e semplice stage name, Nas. Appena tre lettere ma destinate a rappresentare uno stravolgimento dell’hip-hop.
Se Rakim ha trasformato l’arte di fare rap, introducendo in modo massiccio le rime interne e multisillabiche oltre a rinnovare l’idea stessa di testo hip-hop, da qualcosa di più grezzo e improvvisato a un meccanismo ad orologeria ricercato in ogni sua sillaba, allora Nas ne è il suo erede. Eppure per questo talentuoso ragazzo dei projects di Queensbridge, che abbandona presto la scuola e soffre il divorzio dei genitori in piena adolescenza, è faticoso trovare un contratto discografico. Le sue prime registrazioni passano di mano in mano prima di arrivare a Faith Newman della Sony, che è il primo a riconoscerne le potenzialità. Da lì, il produttore esecutivo Mc Serch mette Nas in contatto con i vari producer, tra i quali spicca il leggendario Dj Premier, con il quale nasce un’intesa perfetta.

L’attesa dell’esordio elettrizza la scena dell’epoca, perché Nas è ancora giovane ma il primo album, quello che sta scrivendo, si preannuncia come qualcosa che lascerà il segno. Già il titolo rinuncia all’umiltà, descrivendo il progetto come qualcosa di estremo e definitivo: “Illmatic”, da intendersi come estremamente “ill”, da tradurre grosso modo come “malato”, “malsano” ma anche “forte” e “definitivo”. Di fatto, nome dell’artista e titolo raccontano molto poco, si limitano a suggerire che qualcosa di incredibile e inaudito ci aspetta, senza però fornire granché di più all’ascoltatore e acquirente ignaro.
Qualcosa di più lo dice la
cover art. Sulla leggendaria copertina di “Illmatic”, la faccia del giovane Nasir bin Olu Dara Jones e le strade di New York, entrambe debitamente sfocate e sfumate d’arancione, si sovrappongono, creando un legame indissolubile. Non è possibile dire quale delle due fotografie sia quella più a fuoco, al punto da creare una giustapposizione simbolica, un’immagine con vita propria destinata a eternarsi nella storia dell’hip-hop fino alla fine dei tempi. Nas è New York ma anche New York è Nas. Un’immagine che rappresenta perfettamente quello che ascolteremo nel disco: la storia di un giovane uomo si consuma nella Grande Mela e non può prescinderne. Le strade di Queensbridge sono ben più di uno scenario nelle liriche elastiche di Nasir Jones, sono anzi tanto protagoniste quanto chi le percorre. L’uomo si fa d’asfalto e cemento, il suo respiro è gas di scarico, la sua voce la sintesi di una way of life che unisce il sogno e l’incubo, prosegue il giorno nella notte senza continuità, mischia amaramente dolcezza e tragedia, innocenza e violenza.

Quando il 19 aprile 1994 “Illmatic” arriva nei negozi, cambia qualcosa e divide la storia dell’hip-hop in un prima e un dopo, costringendo qualsiasi grande rapper dei decenni a venire a posizionarsi rispetto a questo album, fosse anche solo per essere contrapposizione. I più scettici potrebbero affermare che “Illmatic”, da album di New York, abbia avuto un impatto circoscritto alla East Coast, mentre la West Coast segue un percorso parallelo, ma “Illmatic” ha la forza di reinventare l’hip-hop nel luogo in cui è nato, ed è quindi un atto di rifondazione che, alla lunga, avrà modo di influenzare anche la scena californiana e, in generale, l’idea stessa di cosa possa e non possa essere un album hip-hop.

Le canzoni

Straight out the fuckin' dungeons of rap
Where fake niggas don't make it back
(dall’introduzione di “N.Y. State Of Mind”)

Entrare  in “Illmatic” è come sbarcare a New York senza passare per il JFK, il La Guardia o il Newark. Si piomba nel ghetto. Ce lo racconta un diciannovenne che, mimetizzato da sempre tra spacciatori e junkie, di primavere sembra averne vissute un pacco in più. Le parole di Nas disegnano gli incroci, le insegne sgangherate e le luci che squarciano la notte, con il supporto essenziale delle basi del già citato Dj Premier ma anche di Large Professor, L.E.S., Q-Tip e i beat di Pete Rock. Una all star crew di produttori impegnati in quegli anni a codificare il suono della East Coast, a scrivere il presente e immaginare il futuro dell’hip-hop, che però per dipingere gli sfondi di “Illmatic” mescolarono i loro battiti plastici ai bassi più gommosi possibile e all’inestimabile eredità jazz cittadina, un mondo che Nas conosceva sin dall’infanzia, visto che il padre Olu Dara era un musicista blues e jazz del Mississippi. Una tavolozza estesa e duttile, utilizzata però per comporre dei fondali coerenti, omogenei ma vibranti.

In un contesto così cupo, ci vuole la mentalità giusta, prona al sotterfugio e sempre allerta. Il disco, e con questo la carriera di Nas, non può che cominciare proprio all’insegna di questa attitudine, con una prima canzone vera e propria intitolata “N.Y. State Of Mind”. Cambi di tempo, mutazioni liquide di flow, switch repentini di io narrante, chiasmi, allitterazioni, rime: tempo quattro strofe e il giovane Nasir ha messo in chiaro le insidiosità della giungla di cemento che gli ha dato i natali e il suo peso specifico, lo stesso della storia. Intorno DJ Premier taglia, cuce e reitera fino all’ossessione schegge jazz estrapolate da "Mind Rain" di Joe Chambers e "Flight Time" di Donald Byrd. La chiusura della prima strofa si staglia come una delle più severe sintesi della New York dell’epoca, quando alle taglienti descrizioni del degrado metropolitano Nas decide di aggiungere quattro versi degni di un epitaffio, la sintesi di una vita di tensione e angoscia:

It drops deep as it does in my breath
I never sleep, 'cause sleep is the cousin of death
Beyond the walls of intelligence, life is defined
I think of crime when I'm in a New York State of Mind

Tutto quanto promesso nella roboante intro “The Genesis”, un ghetto talk sferzante poggiato su beat squadrati ha già preso forma, in cinque minuti destinati a diventare leggenda e pietra di paragone. Ma è soltanto l’inizio.

Life's a bitch and then you die, that's why we get high
'Cause you never know when you're gonna go

Non li canta Nas i versi sopra riportati, quelli che sono probabilmente i più famosi di “Illmatic”, bensì AZ, ossia il titolare del featuring più fortunato della storia dell’hip-hop. Il suo flow elastico e cantilenante è perfetto per cristallizzare il senso della canzone. Un brano  nel quale il Nas diciannovenne è contento di essere sopravvissuto all’infanzia difficile, ai furti commessi ai danni dei turisti, a tutto il crack spacciato. È sicuramente anche un brano dall’attitudine gangsta, dove però non c’è esaltazione del passato criminoso, bensì una sorta di autoanalisi da parte di chi ha saputo rientrare sui binari giusti: è musica di strada, altezza marciapiede, germogliata sotto i ponti e nella metropolitana, il sotterraneo dell’hip-hop, il “dungeon of rap”.

When I was young at this I used to do my thing hard
Robbin' foreigners, take they wallets, they jewels and rip they green cards
Dipped to the projects, flashin' my quick cash
And got my first piece of ass, smokin' blunts with hash
Now it's all about cash in abundance
Niggas I used to run with is rich or doin' years in the hundreds
I switched my motto; instead of sayin', "Fuck tomorrow!"
That buck that bought a bottle could've struck the lotto
Once I stood on the block, loose cracks produce stacks
I cooked up and cut small pieces to get my loot back
Time is illmatic, keep static like wool fabric
Pack a 4-matic to crack your whole cabbage

Il passato e l’infanzia di Nasir ritornano anche qui. Nelle note di cornetta fatte librare da Olu Dara, papà di Nas, tra i sample di L.E.S., su richiesta dello stesso rapper, che avrebbe chiesto al padre una sequenza di note che gli ricordassero la sua infanzia.
Alla stregua dei due brani che la precedono, anche “The World Is Yours” viene spesso indicata tra le migliori canzoni hip-hop di sempre. Anche in questo caso, se la concorrenza non fosse quella che è, l’assunto potrebbe essere dato con facilità per giusto. Certamente ci troviamo di fronte al vertice politico del disco, dove la condizione dei neri d’America nella società è al centro dei versi di Nas.

Dwellin' in the Rotten Apple, you get tackled
Or caught by the devil's lasso, shit is a hassle

Il giro di piano felpato, il beat storto di Pete Rock, una fase centrale segnata dal turntablism sfrenato e il ritornello intonato come un dialogo interiore ne fanno però anche uno degli episodi più melodicamente chiari e musicalmente arditi della collezione.

A metà del guado troviamo l’incalzante “Halftime”, il primo singolo in assoluto di Nas, che difatti si presenta qui con il vecchio moniker Nasty Nas. Basso e beat sono pastosi ma arrembanti, incalzano in un groove uptempo che fa da trampolino ad alcuni tra i versi più affilati del disco. Nas rimugina ancora una volta sulla vita di quartiere, mescolando immagini nostalgiche ad altre decisamente meno rassicuranti.

It's like that, you know it's like that
I got it hemmed, now you never get the mic back
When I attack, there ain't a army that could strike back
So I react, never calmly on a hype track
I set it off with my own rhyme
‘Cause I'm as ill as a convict who kills for phone time
I max like cassettes, I flex like sex
In your stereo sets, Nas'll catch wreck
I used to hustle, now all I do is relax and strive
When I was young, I was a fan of The Jackson 5
I drop jewels, wear jewels, hope to never run it
With more kicks than a baby in a mother's stomach

"Memory Lane (Sittin' In Da Park)" è un esercizio di eleganza, sublimato quando le voci richeggiano una preghiera gospel grazie al sample di “We're In Love” di Reuben Wilson. Si contrappone alla più dolente “One Love” (feat. Q-Tip), una raccolta di pensieri per gli amici incarcerati sopra un notturno jazz-rap per vibrafono che campiona gli Heath Brothers di “Smilin' Billy Suite Part II”.

Dear Born, you'll be out soon, stay strong
Out in New York the same shit is goin' on
The crackheads stalkin', loudmouths is talkin'
Hold, check out the story yesterday when I was walkin'
That nigga you shot last year tried to appear
Like he hurtin' somethin'
Word to mother, I heard him frontin'
And he be pumpin' on your block
Your man gave him your Glock
And now they run together — what up, son? Whatever

La più lenta “One Time 4 Your Mind” permette a Nas dei virtuosismi lirici ancora oggi sbalorditivi.

What up, niggas? How y'all? It's Nasty, the villain
I'm still writin' rhymes, but besides that, I'm chillin'
I'm tryin' to get this money, God — you know the hard times, kid
Shit, cold, be starvin' make you wanna do crimes, kid
But I'ma lamp ‘cause a crime couldn't beat a rhyme
Niggas catchin' 3-to-9's, Muslims yellin' "Free the mind!"
And I'm from Queensbridge, been to many places
As a kid, when I would say that outta town, niggas chased us
But now I know the time, got a older mind, plus control a 9
Fine, see, now I represent mine

Questi brani portano alla doppietta di chiusura, formata dall’inno “Represent”, diventato poi nel suo coretto old school un classico di tanti party hip-hop e con il suo curioso sample d’altri tempi di “Thief Of Baghdad” di Lee Erwin, e “It Ain’t Hard To Tell”, il singolo trainante dell’album, costruito su un campionamento di “Human Nature” di Michael Jackson reso possibile solo dalla casa discografica. Quest’ultimo brano, protagonista anche di un celebre remix, chiude l’album con un’ennesima dichiarazione di superiorità nelle lyrics:

My poetry's deep, I never fell
Nas' raps should be locked in a cell; it ain't hard to tell

L'eredità

Alla fine del 1994 “Illmatic” raggiunse soltanto la dodicesima posizione della classifica di Billboard, conquistando il disco d’oro solo due anni dopo. Nel 2001 avrebbe totalizzato però quota un milione di copie vendute, che poi avrebbe raddoppiato nel 2019. Questo dato statistico aiuta a comprendere l’importanza e la portata storica dell’esordio di Nas.
L’arrivo sulla scena di “Illmatic” fu invero scioccante. Se da una parte la critica lo acclamò, dall’altra la scena e i giovani, o perlomeno gran parte di questi, lo accolsero con le pinze. Era in effetti un oggetto strano. Certamente radicato nella cultura della East Coast e nella sua inclinazione artsy, basti guardare i produttori coinvolti (a partire da Q-Tip, con i suoi A Tribe Called Quest un vero alfiere della cultura newyorkese), ma anche decisamente aperto a contaminazioni. Lo si può certamente considerare un disco di hardcore-hip-hop, sottocorrente che contribuirà a rilanciare nella sua area geografica, ma anche in una certa misura affine all’estetica gangsta, sebbene in maniera auto-analitica e lontana dai cliché che iniziavano ad affliggere il g-funk. È dunque un album che esce in piena faida tra le due coste, ma che però rimane stilisticamente piuttosto trasversale e apprezzato su entrambe le sponde per la sua capacità di rinnovare l’idea stessa di cosa potesse essere un album hip-hop, della profondità a cui potesse ambire il racconto in musica.

Tutte queste caratteristiche, così come l’incredibile propensione narrativa e introspettiva, che ne fanno un’opera per alcuni versi d’intensità e profondità cantautorali, lo rendono un precursore di tantissimo rap a venire, dell’hardcore-hip-hop quanto dell’abstract più sperimentale, nonché un contributo non trascurabile per le declinazioni jazz-rap. Difficile leggere le carriere di altri giganti del rap degli anni Novanta, dai coevi Notorious B.I.G. ai Mobb Depp ai di poco successivi Jay-Z e Busta Rhymes, per arrivare al pop-rapper trasversale per eccellenza Eminem, senza passare dal confronto e dai rimandi, dalle vicinanze e dalle differenze, con “Illmatic”. Persino uno dei più famosi esponenti del rap californiano, Tupac Shakur, sembra aver reagito con grande entusiasmo ai primi ascolti. Tra gli ammiratori conclamati però troviamo anche insospettabili, come la pianista e popstar Alicia Keys, i giganti del rap sudista Clipse o il compianto emo-rapper Mac Miller, che lo campionerà in “Nikes On My Feet”.
“Illmatic” è stato non solo un riferimento ma spesso un vero e proprio modello a cui rifarsi, come accaduto con “Be” (2015) di Common. Per dirla con Richard Watson del Guardian, “Illmatic” è diventato un totem, “un lavoro che guardava nella storia del passato e indicava il suo futuro”. Di più, perché anche letterati e accademici lo hanno analizzato ed esplorato, alla ricerca dei motivi profondi della sua magia estetica, della sua potenza comunicativa. Il suo segreto è che c’è “qualcosa di complesso che riguarda la sua semplicità, qualcosa di elusivo che sentivamo di voler esplorare”, per citare l’esperto di hip-hop Sohail Daulatzai. Ogni ascolto è una nuova scoperta, ogni rima porta ad altre rime, altri brani, altri pensieri, altre considerazioni.
 
L'incremento delle vendite di “Illmatic” nel corso degli anni rispecchia esattamente la crescita della sua fama di pietra miliare del genere, di quanto col passare del tempo sia diventato un punto di riferimento inamovibile. Come dice il critico musicale Jeff Weiss, è diventato il gold-standard dell’hip-hop, un corrispettivo di quello che “Highway 61 Revisited” di Bob Dylan  è per i baby boomer.
Non è un caso che la stampa americana specializzata sia sempre alla ricerca del fantomatico nuovo “Illmatic”. Un titolo che fu affibbiato, ad esempio, all’esordio di Kendrick Lamar, e non senza remore dell’intestatario, dichiaratamente onorato, ma anche preoccupato di non poter reggere il confronto con uno dei punti più alti della storia del’hip-hop. Neanche Nas riuscirà a replicarsi a quel livello e, forse, non era neanche necessario farlo. La lunga carriera successiva lo ha condotto altrove, anche in una direzione che lo allontanasse dal peso di un’aspettativa impossibile, dalla richiesta di ripetere un capolavoro che ha pochi paragoni nell’intera storia cinquantennale del genere. Nel 2020, però, il Re è tornato più in forma che mai, forte di un quarto di secolo dall’esordio, reso inattaccabile dalla prova del tempo: si è posizionato sul trono dell’hip-hop al quale verosimilmente può ambire a inanellare una serie di album più moderni ma anche ancorati a quelle strade da cui tutto è partito. Visto dal vivo nel 2023, per un raro passaggio in Italia, è un cinquantenne con un viso che ricorda ancora quello dell’iconica copertina di “Illmatic” e che, quando parte “N.Y. State Of Mind”, riesce ancora a replicare il miracolo.

14/04/2024

Tracklist

  1. The Genesis
  2. N.Y. State of Mind
  3. Life's a Bitch feat. AZ
  4. The World Is Yours
  5. Halftime
  6. Memory Lane (Sittin' in da Park)
  7. One Love
  8. One Time 4 Your Mind
  9. Represent
  10. It Ain't Hard to Tell


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