Impossibile non ricordare il loro esordio, nel 2010, con il disco "Happiness" e soprattutto quel brano, "Wonderful Life", che aveva riscosso consensi anche nel mainstream. Qualcosa si è poi perso per strada. Già con "Exile" (2013) la raffinatezza decadente aveva iniziato a fare posto a trame sonore sempre più dozzinali, spesso vicine agli ultimi Muse.
Con "Faith", Theo Hutchcraft e Adam Anderson ci riprovano e, sebbene la volontà di creare qualcosa di interessante sia tangibile, il disco è un centrifugato di convenzioni compositive e tiepide incursioni in quell'elettronica che necessiterebbe di tensione, voluttà, catarsi e perversione, qua del tutto assenti. La narrazione è perennemente spoglia e opaca, troppo ordinaria sia per il mondo pop che per quello elettro.
Imperversano le ballate ("All I Have To Give", "Redemption", "Darkest Hour", "Liar"), strutturate in maniera semplicistica, e brani incentrati su malattie mentali come la depressione, di cui Anderson ha sofferto, che però non scalfiscono e anzi quasi infastidiscono per la compostezza patinata con cui queste tematiche vengono affrontate. Basti ascoltare, a tal proposito, "Voices", che musicalmente si muove tra electrocountry e stilemi post "The 2nd Law". "Numb" vorrebbe arrivare in territorio Ebm, ma si limita a osservarlo da lontano, come fosse una copia sbiadita dei primi esperimenti di IAMX.
Tra gli episodi migliori, indubbiamente "Fractured", finemente prodotto, in cui si riesce finalmente a trovare un campo sinergico tra le due anime degli Hurts, le convulsioni industrial di "Suffer" e soprattutto "White Horses", che bussa alla porta della synthwave un po' in ritardo ma che, col suo carattere nostalgico e l'eleganza che finalmente si anima di turbamento, si staglia per bellezza su tutti gli altri.
Una manciata di canzoni non basta però a promuovere un album che avrebbe dovuto e voluto dare molto più di così.
11/09/2020