Inganno semantico, quello attuato da “Trip”, spacciato per un progetto di cover, dunque album potenzialmente incidentale nella vasta produzione di Kurt Wagner e soci, ma al contrario coinvolgente come una salutare sbornia. E’ in verità dai tempi di “Flotus” che i Lambchop inviano segnali discontinui sulla loro identità artistica, quasi come se volessero invalidare l’opinione corrente di pubblico e critica: non stupisce, infatti, la svolta elettronica delle ultime due opere.
I ritmi glitch e la voce filtrata di Kurt non hanno però depistato i più fedeli e accorti seguaci della band americana, speranzosi che il caratteristico misto di soul e country prima o poi avrebbe ripreso il meritato posto nell’economia sonora dei Lambchop. “Trip” è in fondo tutto questo, ovvero il ripristino di atmosfere e melodie più corali, che allontanano la sensazione che il progetto fosse diventato ormai solo un’esternazione solista di Wagner sotto mentite spoglie.
Sei cover, sei canzoni scelte dai vari componenti, con Kurt spettatore e poi infine artefice della scelta di “Weather Blues”, brano scritto da James Mc New degli Yo La Tengo, una ballata malinconica e struggente che il musicista forse custodiva nel cassetto dai tempi di “What Another Man Spills” (album che conteneva un altro brano di Mc New “It’s Not Alright”). Chiusura peraltro perfetta per un disco dai tratti audaci ma non necessariamente innovativi; anzi, è la familiarità stilistica l’elemento che prevale in “Trip”, a partire da “Reservations” dei Wilco, brano scelto da Matthew McCaughan per aprire l’album, e che dopo una rilettura abbastanza fedele sorretta dal piano e dalla voce si incunea in un cupo ambient-noise finemente simile a quel minimalismo orchestrale e jazz di “Mr M”, che purtroppo la band sviluppò in sede live per poi lasciare di nuovo spazio alla contaminazione elettronica.
L’anima soul dei Lambchop trova piena esternazione nella scelta di Andy Stack, un’elegante rilettura di “Golden Lady” di Stevie Wonder, che rende onore al termine cover, conciliando groove di synth e slide guitar con la voce filtrata di Kurt per dar corpo e vita a un’aliena sensualità. Ancora soul nella scelta di Tony Crow, che ripiega su una giocosa “Love Is Here And Now You're Gone” di Holland-Dozier-Holland, una versione a tratti stridente eppure funzionale al percorso artistico della band, caratterizzata da un lieve distacco emotivo nella voce e nelle soluzioni strumentali.
“Trip” è anche il disco dell’amicizia ritrovata: le canzoni scivolano come se fossero la colonna sonora di una serata tra amici trascorsa intorno al fuoco, ricordando i primi amori country-western ("Where Grass Won't Grow" di George Jones, scelta dal sapiente Paul Niehaus) e sfortunate band garage-rock-psych scomparse dopo un solo singolo ufficiale, come i Mirrors di “Shirley”, indicata da Mark Swanson.
Difficile immaginare l’ultimo album dei Lambchop inserito in una qualsiasi lista di fine anno, il fuorviante messaggio di album di cover version forse terrà lontano molti vecchi estimatori della band, peccato perché in “Trip” ci sono segnali di una rinascita e di una ritrovata passione per la musica che non possono essere ignorati e che a breve potrebbero anche regalarci ulteriori sorprese.
18/11/2020