Piaccia o meno, il divisivo “Rituals” del 2015 fu un disco coraggioso, con il quale gli Other Lives di Jesse Tabish disorientarono il loro pubblico. Proprio quando questo, grazie al successo racimolato quattro anni prima con “Tamer Animals” e al supporto offerto al tour nordamericano dei Radiohead, cominciava a farsi cospicuo, invece di battere il ferro ancora caldo, la band sacrificò ritornelli e strutture lineari e propose ai nuovi adepti un lungo fluire di suite smaterializzate, luoghi dell’anima, deserti interiori, umori oscuri e rarefatti. Quasi un’ora di musica, non proprio easy-listening e certamente distante dall’indie-rock da camera dei dischi precedenti, che divise i fan tra entusiasti e delusi. I secondi un pelo più numerosi dei primi.
A cinque anni da quell’oggetto misterioso, la band ritorna sui propri passi con un quarto disco più affine agli intenti iniziali: “For Their Love”. Dove però l’indie-rock della band vede l’approccio da camera dei primi dischi rigonfiarsi, ricercare toni epici ricorrendo ad arrangiamenti dalla grandeur cinematografica. Al solito Morricone, citato un po’ ovunque (“Lost Day”, “Who’s Gonna Love Us”, ma soprattutto il western di “We Wait”), si aggiungono Ry Cooder (“Sideways”) e addirittura Danny Elfman, il cui tocco viene in mente durante le atmosfere incantate di “Dead Language” e i cori fanciulleschi di “Nites Out”.
Come di consueto, il registro di Jesse Tabish è molto enfatico, sia nei momenti più raccolti e zoppicanti (“Sideways”), cantati come fosse l’ombroso crooner di una bettola jazz in un film noir, che in quelli epici e solenni (“Cops”, che carica com’è a tratti risulta stucchevole, e “Lost Day”). Sempre preciso e ricco, sovente barocco, l’apporto della band dona profondità e dettagli alle canzoni, salvandole in corner quando la scrittura del frontman risulta particolarmente appannata.
Nessuna di queste dieci tracce, fortemente influenzate dall’inquietudine politica di questi tempi, riesce a eguagliare l’intensità del songwriting polveroso di “Tamer Animals”, e l’approccio epico-cinematografico scelto per arrangiare la maggioranza dei brani può risultare ridondante, fallendo dove l’astrattismo di “Rituals” centrava il bersaglio emozionando gli ascoltatori più aperti. Rimangono un notevole lavoro sugli arrangiamenti da fini mestieranti e qualche canzone interessante per rinfrescare le setlist della formazione.
30/04/2020