Uomo dalle mille risorse e dalle infinite sorprese, Sam Lee, non tanto per l’annunciato libro di prossima pubblicazione sugli usignoli, quanto per il passato da teenager appassionato di Michael Jackson. Un'adorazione che ben presto lasciò posto a quella per Joni Mitchell, e per il suo passato da ballerino di burlesque.
Fu comunque l’incontro con Stanley Robinson a introdurre definitivamente il musicista nel raffinato mondo della musica tradizionale, un vero e proprio tsunami emotivo che ha trasformato Lee in un antropologo del suono e del canto, rafforzando il legame con la natura che aveva sempre coltivato, anche a discapito dei rapporti sociali.
Con il terzo disco, “Old Wow”, l’artista amplia il fronte emotivo della sua ricerca, non solo affidando a Bernard Butler la produzione, ma aprendo le porte anche a lievi inflessioni jazz e rock, nonché a una produzione più variegata. Per la bella copertina del disco, Sam si è rivolto ad Alex Merry, già autore di altre opere per gruppi folk come i Belshazzar's Feast e i Trembling Bells, la cui delicata policromia anticipa il tono più crepuscolare e poetico delle dieci tracce.
Per la prima volta una chitarra entra nella struttura degli arrangiamenti, ma la flessibilità di “Old Wow” si manifesta anche nelle scelte di Lee, a partire dall’incantevole rielaborazione di un vecchio spiritual americano, “Lay This Body Down”, il cui passo greve è sorretto da un ritmo incalzante, una solenne sezione fiati in stile New Orleans e un coro di eccellenti performer (Cosmo Sheldrake, Mara Carlyle e Rowan Sawday).
Non è un caso che ad aprire l’album sia una rilettura del primo brano raccolto da Cecil Sharp, artefice della riscoperta della musica folk in Inghilterra: “The Garden Of England (Seeds Of Love”) è infatti una perfetta introduzione per questo affascinante viaggio nella memoria.
La splendida voce baritonale di Lee è perfettamente a suo agio in questa più ricca veste sonora: sfiora toni da crooner in “Sweet Sixteen”, volteggia tra le increspature del lacerante romanticismo di “Turtle Dove” e tiene a bada le molteplici sfumature di “Soul Cake” che si snoda tra citazioni di canti popolari ("Green Grow The Rushes-O"), duetti tra piano e percussioni, frammenti di un brano dei Watersons (“Souling Song”), per poi sposare sacro e profano (folk e soul) prima di affidare il finale a dissonanze e dissolvenze strumentali.
E’ vero che in questa occasione il musicista ha rinunciato alle audaci sperimentazioni dell’esordio, ma “Old Wow” è l’album della rivelazione, della comunicazione, dell’interazione con altri musicisti.
L’apporto di James Keay, Josh Green, Alice Zawadzki, Misha Mullow-Abbado, Yusef Narçin e Larry Stott offre a Lee nuove prospettive, perfettamente sintetizzate nell’inatteso duetto con Liz Fraser, “The Moon Shines Bright”, un brano che mette insieme un vecchio canto gitano con un brano folk (“Wild Mountain Thyme”) e che le due voci trasformano in una delle preghiere laiche più belle degli ultimi tempi.
“Old Wow” è il canto della meraviglia, quella che sboccia di fronte alla potente bellezza del creato; che sia l’epico dolore di “Spencer The Rover”, il tocco del piano di Caoimhín Ó Raghallaigh nella già citata “Sweet Sixteen”, la silente psichedelia di “Worthy Wood” o l’intensa e algida rilettura della già citata “Wild Mountain Thyme” che Lee ribattezza “Balnafanen”, quasi a volerne sottolinearne la autorevolezza poetica ed evocativa, poco importa: ogni piccolo fraseggio di queste dieci canzoni è incantevole.
(27/04/2020)