Si può discutere quanto si vuole dell'uscita a sorpresa, della realizzazione segreta in compagnia di pochi fidatissimi collaboratori, del battage promozionale totalmente stravolto rispetto alla prassi in casa Swift, la realtà è che a considerare la traiettoria della
superstar dei record, un disco come “Folklore” era tutt'altro che un'idea peregrina. Per quanto accompagnato da scintillanti produzioni sintetiche, un generale rimodernamento estetico e una più convinta
allure pop, è sempre nel
songwriting che anche la più recente proposta di
Taylor Swift ha basato il suo fondamento: ritornare all'essenza vitale di un percorso che in tanti hanno provato a ripercorrere con ben poco successo (ricordiamo i flop legati alle svolte “country” di
Lady Gaga,
Miley Cyrus e
Justin Timberlake) era insomma una scelta tutt'altro che inattesa, e che la contingenza globale, dettata dalla pandemia in corso e dal distanziamento sociale, ha soltanto accelerato. Ideato e composto nella più totale discrezione, con il contributo di quelli che la stessa autrice ha definito come alcuni dei suoi personali “eroi musicali”, l'album lava via molto del luccichio che aveva contraddistinto le sue ultime tre fatiche e riscopre un
sound pulito, dagli evidenti tratteggi cameristici/folk, che ornano una scrittura finalmente più indiretta, a suo modo quasi corale. Il capolavoro della musicista? Nemmeno lontanamente, ma la strada intrapresa sicuramente è quella giusta.
Più tenue e pastellato, ma permeato da una sottile vena epica, che ben si riflette nel carattere narrativo evidenziato anche dal titolo stesso, il progetto trae forza dalla ristrettezza dell'organico selezionato per la realizzazione (oltre al fido produttore Jack Antonoff e a sparuti contributi del misterioso William Bowery, la maggior parte dei pezzi si è avvalsa della collaborazione di Aaron Dessner dei
National) e consegna una collezione di avvolgente levigatezza, la più compatta e omogenea della sua carriera. Certo, la lunghezza rimane ancora esagerata (una decisa sforbiciata di quattro/cinque brani non avrebbe guastato) e la scrittura rimane spesso e volentieri imprigionata in una verbosità che dà poco respiro alle canzoni, ciò non toglie che per la prima volta siano più i momenti da tenere rispetto a quelli del tutto prescindibili. Come se il decentrarsi rispetto al contenuto dei brani avesse fornito nuova libertà, la penna di Swift si muove più sicura, sfumata, traccia paralleli e collega diverse prospettive (il trittico “Cardigan”-“August”-“Betty” ad alternare i tre punti di vista di uno sbilanciato triangolo amoroso), col fare di un'autrice che ha finalmente agguantato una sensibilità più ampia.
Colto in una lieve bruma autunnale, che l'impianto strumentale (principalmente pianoforte e chitarre, coadiuvati da diffusi interventi di elettronica e da rade orchestrazioni da camera) sottolinea con totale limpidezza, l'album esplora in profondità la ritrovata cornice autoriale di Swift, che adatta i più recenti istinti pop in un florilegio dalle ispirazioni, tanto nel tempo che nello spazio. Se i più umbratili istinti degli ultimi National sono un ovvio riferimento, nondimeno la molla dell'ispirazione scatta dalle più disparate direttrici, che si tratti di ripercorrere a ritroso il grande canzoniere femminile americano (impossibile non rilevare echi della
Tori Amos altezza “
Scarlet's Walk” tra le pieghe di “Cardigan”, come
Carole King nel caloroso abbraccio di “Seven”), oppure di stare più prossima al presente, corteggiando il più irrinunciabile degli eroi indie contemporanei. Nasce così una
ballad col cuore in mano quale “Exile”, costruita su un inesorabile climax e una sfumata
ambience elettronica e un soverchiante accompagnamento d'archi che supporta un
Justin Vernon fin troppo ammansito. Le velate
nuance gotiche di “My Tears Ricochet”, che uniscono una natura melodica più pastorale al
sound carico di tensione del comparto sintetico, i fraseggi malinconici che sottolineano il fragile amore di “August” (in cui emerge la cifra più pura del
songwriting swiftiano), le lievi ascese di tono, perse nel rimpianto e nel dolore, di una “This Is Me Trying” che lascia quasi intravedere possibili ispirazioni
o'connoriane in filigrana: la firma dell'autrice vive di una brillantezza raramente riscontrata in passato.
Sofisticati staccati di archi celebrano l'unione tra due anime, collegandosi ad antichi miti orientali e a evocazioni poetiche (“Invisible String”), sprezzanti chiose denunciano l'industria musicale e il suo imperante sessismo (“Mad Woman”, dotata di uno dei motivi più memorabili della raccolta), commenti d'atmosfera riportano i testi nella più stringente contemporaneità (la crisi dettata dal COVID-19 e i sacrifici degli operatori ospedalieri sono al centro dell'ambience ovattata di “Epiphany”).
Mai la penna della musicista aveva sventagliato una simile duttilità, una versatilità tale da tradursi in un disco ancora dotato di qualche momento prescindibile, ma tutto sommato capace di fornire uno spaccato fedele di una donna e di una autrice, colta nel suo momento di massima intimità. C'è da sperare che per Taylor Swift questo sia soltanto l'avvio di un nuovo percorso, più maturo e consapevole.
05/09/2020