Album numero venti e primo per la personale etichetta Mariqopa, il nuovo disco di Damien Jurado non smentisce la fama di autore poliedrico e prolifico. Ciò nonostante, una riflessione è d'uopo. È, infatti, ormai evidente che dopo la splendida trilogia cosmica, realizzata con l'aiuto del compianto Richard Swift, qualcosa si sia incrinato nel percorso artistico di Jurado. Le raffinatezze messe in campo con "Maraqopa" hanno disorientato in parte il pubblico, avido di stravolgimenti concettuali e stilistici che non appartengono alla natura più profonda del cantautore americano. Il ritorno a un minimalismo folk-pop, consolidato dal crepuscolare "What's New, Tomboy?", ha messo a tacere le nuance più psichedeliche, restituendo l'autore all'affollato scenario cantautorale post-Elliott Smith o alla Kurt Wagner.
Per fortuna, ma anche per merito dell'innato talento, questo non ha affievolito l'intensità delle ultime prove discografiche, una regola alla quale non sfugge nemmeno "The Monster Who Hated Pennsylvania", con l'unica differenza che queste nuove canzoni possiedono un'urgenza che è più tipica di un esordio, che non dell'ennesimo album di un esperto cantautore dalla carriera ultraventennale.
Le dieci tracce mettono ancor più a nudo la poetica di Jurado, non a caso dalla critica sono fioccati paragoni imbarazzanti con il Bruce Springsteen di "Nebraska", assonanza che cattura solo in parte l'anima inquieta di queste nuove canzoni.
Album poco appariscente, "The Monster Who Hated Pennsylvania" è un progetto che raffigura in pieno l'essenza del cantautore americano, abile storyteller di racconti di vita quotidiana e di emarginazione, i cui protagonisti sono tratteggiati con l'abilità di un regista. È senza dubbio la sequenza più intensamente emotiva, sofferta e oscura dai tempi di "The Horizon Just Laughed": la voce di Jurado è rauca e solitaria alla maniera di John Martyn ("Joan"), quasi certamente più cupa e malinconica ("Hiding Ghosts").
Anche il fantasma di Jack Johnson fa capolino nello struggente finale cantato a fil di voce di "Male Customer #1", ma non è l'unico poeta del male che viene evocato in questo breve ma intenso viaggio nelle profondità dell'anima.
L'essenzialità degli arrangiamenti non influisce sull'ecletticità dell'album, la natura honky-tonky di "Helena" è infatti sottolineata semplicemente da un giro di basso e dal suono di uno shaker, ed è sempre il basso l'elemento caratterizzante delle vivaci nuance esotiche di "Tom" e del nostalgico omaggio al pop anni 60 e 70 di "Dawn Pretend".
"The Monster Who Hated Pennsylvania" è il tentativo più convincente dell'autore di uscire dall'aurea mediocritas delle ultime prove, mentre il minimalismo accattivante e poetico di "Minnesota" e il romanticismo accorato di "Jennifer" sono in tal guisa confortanti. Ma è nella drammatica e aspra "Johnny Caravella" che Jurado trova la perfetta sintesi tra potenza armonica e autorevolezza espressiva, con un crescendo folk-noise alla Mark Kozelek/Lou Reed, che da solo vale il biglietto di viaggio.
Sembra quasi che l'autore durante tutto l'album prenda per mano l'ascoltatore con ingannevole dolcezza, per condurlo verso le due pagine più tenebrose e amare ("Johnny Caravella", "Male Customer #1"), nel tentativo forse di svelare che il mostro del titolo non è qualcosa di estraneo a noi stessi, ma è parte di una realtà interiore da conoscere a fondo e con la quale imparare a convivere.
01/07/2021