Ebbene sì, TikTok ha fatto anche cose buone. Tipo far diventare virale una canzone dei Mountain Goats vent’anni dopo la sua uscita. Non una canzone qualunque, ma uno degli anti-inni per eccellenza di John Darnielle e soci: “No Children”, estrema invocazione della coppia di protagonisti più autodistruttiva di sempre, che negli ultimi mesi si è trasformata in una challenge di ballo con tanto di coreografie e gattini d’ordinanza (e conseguente impennata di ascolti su Spotify). Darnielle l’ha presa come sempre con ironia: “Vedrete quando succederà lo stesso con “Noche del Guajolote”!”, ha commentato evocando la sua ode a un tacchino risalente ai primi anni Novanta…
Anche a prescindere dalla gloria più o meno effimera dei social, “No Children” non poteva mancare nella prima collezione ufficiale di registrazioni dal vivo dei Mountain Goats. “Dal vivo” nell’accezione pandemica del termine: i quattro volumi di “The Jordan Lake Sessions”, infatti, nascono da altrettanti livestreaming realizzati dal gruppo nell’agosto del 2020 in uno studio di Pittsboro, North Carolina, senza ovviamente la presenza del pubblico. Manca insomma l’interazione con la platea – dimensione essenziale nelle performance dei Mountain Goats – ma c’è almeno quella tra i membri della band, con il loro continuo scambio di battute: in “No Children”, ad esempio, si mettono a giocare con un’improvvisata introduzione jazzistica (“una cosa quasi alla Jeff Beck”), mentre Darnielle proclama tutto il suo orgoglio per il fatto di avere in repertorio una canzone che può essere cantata fieramente fuori da un tribunale dopo avere ottenuto il divorzio…
Insomma, “The Jordan Lake Sessions” non sarà il live definitivo dei Mountain Goats, ma è comunque un’occasione imperdibile per andare alla scoperta di quello che il gruppo sa offrire oggi sul palco: un suono scintillante e ricco di sfumature, che prende la vena letteraria e la ruvidezza anti-folk delle origini e le sublima in un florilegio di cavalcate alt-rock, elegie pianistiche e jam strumentali.
Subito “The Plague” si mette in connessione con lo spirito del tempo attraverso il suo racconto di furiose pestilenze e di progetti mandati all’aria. L’inizio è solo voce e chitarra, passo svelto, voce nasale: praticamente il marchio di fabbrica dei Mountain Goats. Poi entrano il basso di Peter Hughes, le percussioni di Jon Wurster, il pianoforte di Matt Douglas. E già in “Aulon Raid” la bassa fedeltà di “Songs For Pierre Chuvin” comincia ad acquistare nuove stratificazioni. È il primo estratto dai tre dischi pubblicati dal gruppo tra il 2020 e il 2021: le nuove canzoni non occupano uno spazio preponderante, incastrandosi alla perfezione nel repertorio della band (a partire dai brani che danno il titolo agli altri due capitoli del trittico, “Getting Into Knives” e “Dark In Here”). È soprattutto quando riaffiorano i vecchi brani, però, che la metamorfosi del gruppo diventa palpabile: basta sentire come “Golden Boy” – improbabile gospel sulle ricompense dell’aldilà, dedicato a una marca di arachidi ormai fuori mercato – si veste di tonalità festose, in un crescendo vibrante di energia. Oppure come il sussurro di “Whole Wide World” si apre a una tavolozza di nuove coloriture ad acquerello.
Darnielle è ovviamente il grande mattatore: entra in scena con la mascherina sul volto per una minacciosa “Lovecraft In Brooklyn”, si lancia a pieni polmoni nel chorus di “Sax Rohmer #1”, interpreta con una mimica piena di pathos il peana degli sconfitti di “Spent Gladiator 2”. “Nailed it!”, annuncia compiaciuto dopo avere trascinato tutti nella parafrasi evangelica per ex tossici di “Pigs That Ran Straightaway Into The Water, Triumph Of”. E anche senza la reazione del pubblico a suggellare le classiche chiusure a effetto dei brani più tirati, Darnielle non si risparmia certo quando si tratta di incendiare l’atmosfera con “See America Right”, “Estate Sale Sign” o “Until Olympius Returns”.
All’interno del gruppo, è l’ultimo arrivato Matt Douglas a ritagliarsi un ruolo sempre più centrale, alternandosi con scioltezza tra gli strumenti: al piano elettrico e alle tastiere tratteggia perfetti controcanti intorno alle melodie (dalle suggestioni sciamaniche di “1 Samuel 15:23” alla fragilità scoperta di “Wild Sage”); al sax conferisce carattere agli arrangiamenti, come quando guida il tour de force di “Younger” o dà corpo alle ombre di “In The Craters On The Moon”.
Le parentesi soliste, con Darnielle alla chitarra acustica o al pianoforte, riservano come da copione un assortimento di rarità (su tutte, l’incanto di “Snow Owl”), di sorprese (l’inno sindacale “Solidarity Forever”) e di stramberie (la canzone per bambini “My Little Panda”, scritta per i figli). Quando però torna in scena la band al completo e la batteria di Wurster dà solennemente l’attacco a “Against Pollution”, è l’unità di intenti del quartetto a caricare di intensità e di potenza i versi di Darnielle.
Ovviamente non mancano i cavalli di battaglia, a partire dalla tripla riproposizione di una “This Year” più adatta che mai al tempo pandemico. Non a caso, Darnielle la riprende anche in “Exegetic Chains”, alla fine dei quattro set delle sue sessioni dal confinamento: “Say your prayers to whomever you call out to in the night/ Keep the chains tight/ Make it through this year/ If it kills you outright”. Per il commiato c’è ancora spazio per un’ultima canzone: viene da un disco recente, “In League With Dragons”, e parla di lasciarsi alle spalle i detriti del passato. Darnielle mette da parte la chitarra, fissa lo sguardo nella telecamera e si abbandona agli accordi liturgici dell’organo. È il climax di un predicatore che annuncia nuovi cieli e terra nuova. È l’augurio dei Mountain Goats per quello che ci aspetta dietro l’angolo di un altro anno: “I’m gonna burn it all down today/ And sweep all the ashes away”.
13/12/2021
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