Il nostro personale manuale di preparazione alla catastrofe, nell'ultimo anno, lo abbiamo immaginato più o meno tutti quanti. I Mountain Goats, invece, ce l'avevano già pronto. Portato a termine appena in tempo, prima che arrivasse una pandemia a cambiare radicalmente il nostro modo di vedere le cose.
Avevamo lasciato l'anno scorso John Darnielle e soci alle prese con "Getting Into Knives", l'album registrato ai primi di marzo negli studi di Sam Phillips a Memphis. Quello che non sapevamo ancora è che i Mountain Goats non si erano fermati lì. La settimana successiva avevano lasciato il Tennessee per l'Alabama, con un'altra raccolta di nuove canzoni al seguito. Destinazione, stavolta, i FAME Studios di Muscle Shoals, quelli leggendari di Aretha Franklin, Percy Sledge ("When A Man Loves A Woman") e tantissimi altri. L'idea era di registrare un secondo album e di presentarlo a sorpresa la prima sera del tour di "Getting Into Knives". Ma quello che è successo dei nostri progetti nel 2020 lo sappiamo tutti fin troppo bene...
"Il ricordo di quei giorni ha una forza gravitazionale tutta sua", racconta Darnielle. "Rinchiusi in studio mentre il mondo al di là di quelle porte iniziava a contorcersi, proprio prima della grande immobilità... Questo album è stato registrato mentre sorgeva quella minacciosa quiete, e credo che si senta". L'atmosfera si fa più intima e chiaroscurale rispetto al disco precedente, la luminosità lascia spazio alle zone d'ombra. Ed è lì che i brani crescono e prendono forma. Alla produzione c'è ancora Matt Ross-Spang, ma al gruppo si aggiungono stavolta due ospiti d'eccezione: Spooner Oldham alle tastiere e Will McFarlane alla chitarra, vere e proprie istituzioni degli studi FAME.
Dicevamo del senso di catastrofe incombente che permea il disco: beh, basta prendere la title track per capire subito di che cosa si tratta. Mentre una chitarra dai riverberi morriconiani insinua un clima da spaghetti western, il protagonista si prepara alla resa dei conti nella penombra del suo nascondiglio, raccogliendo le munizioni per fronteggiare l'assalto del nemico. L'oscurità del titolo è quella dell'attesa che precede l'esplosione: "It's dark as a coal mine filling up with gas/ I stand ready for the blast".
Ci sono presagi sinistri lungo tutti i brani di "Dark In Here": "12 canzoni da cantare in grotte, bunker, trincee e spazi segreti sotto le assi del pavimento", recita il sottotitolo dell'album. Darnielle dà il tempo, Jon Wurster fa scalpitare la batteria, il basso di Peter Hughes scandisce martellante la carica. E "The Destruction Of The Kola Superdeep Borehole Tower" ci porta direttamente tra le vestigia degli anni Settanta, quando i sovietici decisero di perforare la crosta terrestre fino a una profondità mai raggiunta prima: il pozzo super-profondo di Kola, appunto, annunciato ancora oggi dai resti di una torre squadrata all'orizzonte, non lontano dalle coste del mare di Barents. La leggenda metropolitana dice che nel pozzo sarebbe stato calato un microfono. Laggiù, nelle viscere della terra, avrebbe catturato un suono: l'eco di grida umane, le grida delle anime dei dannati. "Crack through the crust, fall to your knees and praise the Lord", proclama Darnielle con la sua foga da predicatore. "Listen for the voices calling out from down below".
A volte tutto è già consumato e restano soltanto le macerie: sul battito cupo di "Before I Got There", a dominare è il rimpianto di essere arrivati troppo tardi, mentre i resti di un altare distrutto richiamano alla memoria l'epopea degli ultimi pagani raccontata dai Mountain Goats in "Songs For Pierre Chuvin". A volte, invece, il flagello sembra l'unica catarsi possibile: le fragranze Wilco di "Mobile" (ricami di chitarra, passo soffice e contorni di piano) riscrivono le pagine bibliche del Libro di Giona, il profeta recalcitrante chiamato ad annunciare la distruzione di Ninive (o forse quella di Mobile, Alabama). Gli abitanti capirono subito l'antifona e si convertirono in tutta fretta pur di essere risparmiati. Il protagonista del brano, invece, sfida il vento della tempesta in arrivo, invocando il castigo dal suo balcone: "Why do you hold back your fury?/ Don't hold back your fury". Perché la parte più difficile è sempre quella in cui ci tocca perdonare noi stessi.
In termini vinilici, la scaletta di "Dark In Here" regala un primo lato senza mai un calo, dal folk scattante di "Parisian Enclave" alle tonalità jazzistiche di "Lizard Suit" (ennesimo attestato del sogno dei Mountain Goats recenti di trasformarsi in una jam band). La seconda parte dell'album allenta invece la tensione, nonostante un paio di titoli tra i più immaginifici del lotto: "The Slow Parts On Death Metal Albums" (facile pensare a Jeff e Cyrus, i due vecchi amici della miglior band death metal di sempre a Denton, che alzano il volume scambiandosi uno sguardo d'intesa) e "Arguing With The Ghost Of Peter Laughner About His Coney Island Baby Review", fluttuante dedica all'indimenticabile David Berman (l'unico e il solo che potrebbe mettersi a discutere nell'aldilà della stroncatura di un album di Lou Reed...).
Quello che ci aspetta dall'altra parte, ecco la premonizione di cui abbiamo più paura. Forse è la luce dell'empireo, forse è quella un po' meno rassicurante delle bolge infernali. Con la leggerezza di una melodia dell'anteguerra e l'accompagnamento svagato del piano elettrico di Matt Douglas, il ritornello "Let Me Bathe In Demonic Light" affronta il destino sorridendo: "And there, there I'll be/ And who, who's coming with me?/ To show me my one true face/ When I arrive at my preordained place". Quando vedremo finalmente il nostro vero volto, tutte le preoccupazioni che adesso ci opprimono non conteranno più nulla. Non avremo più niente da perdere, potremo andare dritti verso il posto preparato per noi. Qualunque esso sia. Meglio ancora se cantando a piena voce una canzone dei Mountain Goats.
28/06/2021