Un coltello come spada di Damocle per metaforizzare le abiure imposte dal capitalismo e da una società ipersonica. E un inferno di alloro preso in prestito dai sentieri degli Appalachi meridionali, a intendere sensorialmente un labirinto da cui è arduo uscire senza prima aver fatto i conti con la propria lucidità, e nel quale molte persone restano bloccate per troppo tempo. È il contesto figurato da cui nasce "Laurel Hell", sesto disco di Mitski. Un immaginario tanto conciso quanto evasivo.
Percezioni ed esperienze mutano quindi in ispirazione. C'è poi anche qualcosa di ben diverso. Come esplorare le zone grigie, senza fare e farsi sconti. Mostrarsi pronta a fronteggiare il proprio dolore, anche nei lati più foschi. Analizzare ogni dettaglio di relazioni passate e presenti, per riscoprire un più profondo senso di umanità.
Certo, l'autrice nippo-statunitense non è nuova a questi temi, ma con "Laurel Hell" tocca forse il suo apice lirico, nel modo in cui il suo gusto per la narrazione centra finalmente la compattezza e l'agilità che dischi come "Puberty 2" e "Bury Me At Makeout Creek" avevano mostrato in tralice.
Sola di fronte ai propri sentimenti, tra dubbi e un lancinante bisogno di chiarezza, la musicista si muove e scrive in piena consapevolezza, con una snella collezione di brani che si insinua nel nuovo cantautorato wave statunitense (Japanese Breakfast e Sharon Van Etten l'hanno già anticipata su questa strada) senza perdere di vista lo sguardo ellittico, il tocco difforme che un "Be The Cowboy" aveva corroborato.
Wave, insomma: synth e drum-machine non potrebbero palesarlo meglio, nella loro essenzialità, capace comunque di farsi oscura meditazione, di trasmettere un'alienazione senza sbocco. L'impronta gotica di "Working For The Knife" gioca in tal senso un ruolo chiave. Poche note al piano che sembrano trascinarsi in un abisso appena sfiorato con le dita. Una ballata epica, eppure sfuggente. Come una goccia di magma che scivola via, sognando di raggiungere in fretta il centro della Terra.
È un gioco di specchi in cui si rivela anche una straziante essenza ballabile, un po' Michael Sembello, un po' Kim Carnes, come ad esempio nella schiacciasassi "The Only Heartbreaker" scritta con Dan Wilson, la cui grazia guitar-pop retta su una tensione indicibile meriterebbe di scalare ogni classifica di questo pianeta.
"Love Me More" segue la medesima scia, rincarando la dose di piacere e aumentando con grazia il voltaggio. E cosa dire del refrain killer di "Stay Soft", con tanto di passo esotico da contrasto all'umore generale?
C'è però anche tanto altro, in questo fuoco che si dimena per espandersi: è facile rintracciare echi di una "Venus In Furs" nell'attacco di "Heat Lightning". Ma è un rapido miraggio, prima che note sottili al pianoforte supportino l'abbandono tematico di base. E dove "There's Nothing Left For You" coglie una rarefatta teatralità, in cui la scrittura finalmente riesce a fare tesoro della propria obliquità, "I Guess" si spinge ancora oltre, scioglie ogni remora in fraseggi che hanno quasi dell'ambient, un istante prima di balzare ancora una volta nel vuoto, in quel burrone astratto da attraversare ad occhi aperti e con animo libero.
Laddove in precedenza l'aumento delle variabili portava a un'evidente assenza di baricentro, il fare leva sul cuore lirico, sulla ricerca di perdono e amore tra fascinazione e smarrimento, permette a ogni brano di legarsi ai vicini, di colpire con tutta la precisione necessaria. Cruda? Non necessariamente, ma Mitski ha ben chiaro di fronte a sé che è dal cadere di faccia sul proprio dolore, dal trattarsi con onestà, che si aprono nuovi universi. Al suo sesto album, il giro di vite è finalmente completo.
01/02/2022