Prolifico lo è sempre stato, Shabaka Hutchings: eccolo registrare a pieni polmoni con i primi Melt Yourself Down e nel percussivo organico dei Sons Of Kemet e The Comet Is Coming, poi alla guida dei suoi Ancestors, e nuovamente in supporto a una moltitudine di nomi che si muovono sia dentro che fuori le cerchia della vibrante scena nu-jazz & dintorni. Tuttavia, un quesito aleggiava nell’aria da tempo, almeno tra gli ascoltatori più curiosi: tolti colleghi, orpelli e tutti quei giornalisti che l’hanno eletto a nuovo paladino del jazz britannico, chi è l’uomo nascosto dietro al marchio Shabaka Hutchings?
Rilasciato appositamente sotto al solo nome di battesimo, “Afrikan Culture” offre almeno una plausibile risposta a tale domanda, e lo fa tramite un passo laterale che confonderà gli avventori della prim’ora, ma che si mostra altresì capace di aprire nuovi orizzonti percettivi localizzati al di fuori della dimensione terrena. Meditativa, onirica, maestosamente pacata e totalmente beatless: la mezz’ora scarsa di musica qui contenuta mostra il lato più intimo e trasognato del proprio autore, espandendo ulteriormente il concetto di spiritualità nel jazz con otto nuovi fiotti di verde linfa vitale.
Se seguite Shabaka sui canali social, avrete sicuramente notato tutti quei piccoli video nei quali ama improvvisare a tema libero con svariati strumenti a fiato nei luoghi e agli orari più insoliti – eccolo mentre passeggia per strada, poi appoggiato contro un muro, in aperta campagna o dentro l’affollata metropolitana londinese, con buona pace del resto dei pendolari. Il cuore di “Afrikan Culture” è proprio qui, a cavallo tra libertà espressiva e un inquisitorio sguardo rivolto verso l’interno. Tolta la presenza del fido Dilip Harris in fase di missaggio, infatti, Shabaka compone e suona tutto da solo: clarinetto, flauto e sintetizzatore vengono sovvrapposti con un curioso carillion, il dolcissimo pizzicare della kora, le spire metalliche della mbira e il fluttuare di uno shakuhachi, antico flauto di bamboo appartenente alla cultura giapponese.
Dalle misteriose spire di “Black Meditation” passando per il sinuoso e strisciante “Call It A European Paradox”, gli intenti personali e politici di Shabaka si dipanano su lente trame orizzontali, con gli strumenti che a turno striano linee nel cielo, poi s’intrecciano formando curiosi panorami da film – vedasi “The Dimension Of Sublte Awareness” su tutte. La veste interamente strumentale lascia all’ascoltatore la possibilità di tracciare un proprio percorso, sia esso teso alla meditazione o in cerca di confronti culturali e dinamiche sociali. Il veganesimo rastafariano di “Ital Is Vital” immagina la piazza di un mercato che pullula di spezie, mentre per “Explore Inner Space”, il brano più lungo e articolato del disco, Shabaka impiega in sottofondo un limpido pulviscolo di progressive electronics che richiama il lavoro della collega Nala Sinephro.
Corpo e mente sono tutt’uno, l’Africa è un luogo in parte ancora immaginario ma sempre ricco di suggestioni. Perso tra le vibrazioni divine che emanano da ogni tipo di tasto e ancia che tocca, Shabaka ci accompagna per mano in un nuovo, inedito viaggio dell’anima. Spiazzante per alcuni, forse, eppure sempre pertinente con una visione stranamente originale.
24/05/2022