Tomberlin

I don't know who needs to hear this...

2022 (Saddle Creek)
songwriter, indie-folk

Dalle canzoni suonate in cameretta e caricate su Bandcamp alla firma con un’etichetta di rispetto, in questo caso la Saddle Creek di Mike Mogis dei Bright Eyes e Justin Oberst, fratello del fondatore della band protagonista della scena indie di Omaha appena citata e di numerosi altri progetti, Conor: Sarah Beth Tomberlin è uno dei validi talenti scoperti grazie alla piattaforma americana, un’artista che in sordina sta bruciando le tappe una dopo l’altra. Il buon successo dell’asciutto e grezzo “At Weddings” nel 2018 le aveva permesso di passare l’anno seguente quasi interamente in giro per l’America, metter piede sul suolo europeo per una manciata di date, fino allo stop forzato causa Covid, l’Ep “pandemico” “Projections” e il recente sophomore, il cui tour promozionale la porterà ad aprire i concerti di Angel Olsen e delle gemelli canadesi Tegan and Sara quest’autunno.

 

La principale evoluzione riscontrabile in “I don’t know who needs to hear this...” riguarda l’ampliamento dei confini sonori: oltre alla figura di Phil Weinrobe (Adrianne Lenker, Indigo Sparke, Buck Meek) in veste di produttore e strumentista, l’album vanta una vera e propria orchestra composta da nomi d’eccezione (uno su tutti, il jazzista Doug Wieselman) tra fiati, archi e percussioni, rispetto al debut, nel quale erano presenti solo voce, chitarra acustica e un piano elettrico Wurlitzer. Le influenze in materia di sound viaggiano dall’essenziale PJ Harvey di “White Chalk” e dagli ex-compagni di etichetta Big Thief a reminiscenze del più solenne John Cale, da fugaci accenni country a un pizzico di elettronica vintage, fino alle colonne sonore jazz di fine anni Sessanta di Piero Piccioni (tra gli ascolti favoriti dalla cantante su Spotify), affiancandosi via via alla corrente cantautorale di Phoebe Bridgers, Fenne Lily, Snail Mail e socie, ma in chiave più seriosa e meno movimentata.

A fare gli onori di casa sono le note imponenti del clarinetto basso di “easy”, dove l’artista americana tenta di prendersi cura di qualcuno, trascurando se stessa, proseguendo con una lettera al padre, pastore battista, scandita sui riverberi leggeri di “born again runner”, e i ritmi lievi della placida e armonica “tap”, punto focale del disco dalla vena country, dove la voce della cantautrice si fonde con piano e violoncello. La lunga intro semi-silenziosa di “memory”, caratterizzata dal tappeto sintetico tessuto da Juno 60 e Moon Rogue vecchio stampo, funge da anticamera per “unsaid”, nel cui testo spunta un riferimento all’amica Lucy Dacus, per poi lasciare spazio alla faticosa rinascita espressa in “sunstruck”.

Un trittico interessante è quello composto dal sax di “collect caller”, che riprende da lontano una vena sperimentale à-la Caroline, il crescendo di “stoned”, che entra in territorio bridgersiano, così come la chitarra stridente della gemma oscura “happy accident”. Si apprestano a chiudere il cerchio la breve e scarna “possessed” e l’intreccio di voci di Tomberlin e Felix Walworth in “idkwntht”.
Avrebbe potuto meritare qualche minima variazione sul tema un po’ più audace, ma in fondo quello che conta davvero all’interno del disco sono i sentimenti offerti ed espressi dalla parola di Sarah, stabili punti cardine dell’intera opera, sostenuti da arrangiamenti raffinati e calibrati al millimetro, e da liriche in crescita rispetto agli esordi. Un diario orchestrale che tutti avremmo bisogno di ascoltare almeno una volta.

23/08/2022

Tracklist

  1. easy
  2. born again runner
  3. tap
  4. memory
  5. unsaid
  6. sunstruck
  7. collect caller
  8. stoned
  9. happy accident
  10. possessed
  11. idkwntht






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