Stravagante e intrigante, l'album che consolida lo status di Jeremy Tuplin come raffinato e acuto autore è nello stesso il più ambiguo e ambizioso del musicista inglese. Immagine di copertina e titolo, "Orville's Discotheque", per un attimo disorientano, celando abilmente la profonda natura concettuale del progetto. Ancora una volta Tuplin tiene fede alla scelta di offrire a ogni suo disco un'autonomia stilistica e creativa, infrangendo un ultimo tabù, ovvero quello dell'elettronica e della disco music.
I ritmi ossessivi e lo sfarfallio dei sintetizzatori hanno da sempre sedotto le migliori penne della musica rock e folk (da Leonard Cohen a Neil Young, per intenderci), e il momento di confrontarsi con la seduzione tecnologica è arrivato anche per il cantautore del Somerset. Tutto sommato, Tuplin è una figura atipica di songwriter, incline a quella trasversalità e destrezza che David Bowie ha sperimentato senza sosta. Più che un pretesto è un vero incipit creativo quello che ha spinto Tuplin nell'orgia sonora delle discoteche: "Orville's Discotheque" è ispirato al mito di Orfeo ed Euridice, tragedia greca che il musicista, con l'aiuto della sua Sad And Lonely Disco Band, disloca nella modernità e nel riflusso dance-psichedelico contemporaneo.
Nel singolo che ne ha anticipato l'uscita, "Why'd You Go and Look At Me Like That" è racchiuso il confronto semantico e spirituale del disco, il duello etico tra accusa e perdono dà voce a sentimenti e racconti che sono sia autobiografici quanto immaginari. Con la chitarra dietro le quinte e un più intenso pathos interpretativo, Tuplin sfodera un corpo sonoro policromo: le 14 tracce non rinnegano le ambizioni space-folk di "I Dreamt I Was An Astronaut" né rinunciano all'allegoria evocata dai personaggi e dallo svogliato disincanto di "Pink Mirror".
Il brano più ballabile del lotto, "Dancing (On Your Own)", sottolinea già dal titolo l'interesse di Tuplin per il lato oscuro e introverso del mondo delle discoteche: da un versante, l'autore pone una domanda per nulla retorica nel brano d'apertura "It's A Real World???", chiamando in soccorso il bagliore delle luci stroboscopiche e dei neon, in converso racchiude l'ingannevole romanticismo nelle futili note di "Idiot Love", mettendo definitivamente a nudo la metafora del mito di Orfeo ed Euridice come esempio di una ciclicità che lega passato e presente.
Come tutti gli album che ostentano frivolezza per raccontare di tematiche profonde, anche "Orville's Discotheque" svela pian piano una potente trama sonora e finemente poetica. L'evocativo e lontano graffio chitarristico e l'incisivo cantato recitato di "A Dancer Must Die", l'incisivo groove in chiave rock-folktronica di "Wonderful Time", il surreale romanticismo di "Devil Dances" e l'eccellente soul-glam di "L.O.V.E." sono perle di scrittura cantautorale e pop.
"Orville's Discotheque" è l'ennesima prova di stile e personalità di Tuplin, un album che forse faticherà non poco a conquistare l'ascoltatore in virtù di un'eccentricità che non sempre guadagna il giusto riconoscimento.
Annunciato come un concept-album dance, "Orville's Discotheque" è una ventata di freschezza per il panorama indie-pop contemporaneo. Un disco che mette in fila la poetica glam di "Ziggy Stardust", la provocazione concettuale di "Aladdin Sane" e il brio di "Young Americans" con una vitalità che nessun emulo di Bowie è mai riuscito a esprimere con tanta personalità e gusto. Una prova di maturità che stuzzica con intelligenza.
27/05/2023