Scricchiola il dibattito su quali siano i pilastri identitari del fantomatico "Occidente giudaico-cristiano" tanto caro alle estreme destre, ma su un punto si può concordare: in questa (piccola) porzione di mappamondo chi delira deve essere esorcizzato (e poco cambia se a somministrare la cura sia un prete o uno psichiatra). Nelle altrettanto labili "culture sciamaniche", per tutta risposta, si privilegia la pratica adorcistica: la possessione è sintomo di santità e va non solo assecondata, ma portata alle estreme conseguenze, magari con l'ausilio di un sottofondo ipnotico quanto basta. Stati di trance che, alla bisogna, possono farsi strumento di resistenza anticoloniale (si pensi ai rituali hauka immortalati nel capolavoro di Jean Rouch "Les Maîtres Fous") o rimedi terapeutici.
Rientra in quest'ultima categoria la cerimonia n'döep praticata dai lébous del Senegal, caratterizzata, tra le altre cose, dall'alto tasso di partecipazione femminile. Da questa misteriosa usanza prende spunto il collettivo Ndox Èlectrique, settetto in cui si agitano, oltre alla chitarra e al basso della premiata ditta François Cambuzat-Gianna Greco, anche due voci e ben tre percussionisti. Sono loro a dettar legge in queste dieci, scurissime macumbe, che a tratti ricordano le danze voodoo catturate da Maya Deren durante il suo leggendario soggiorno haitiano.
Se le pelli dei tamburi scandiscono il ritmo all'insegna di un robusto tribalismo industriale, sono le contorsioni della chitarra a virare la tinta di ogni brano, trapiantando su quelle sabbie mobili innesti di Robert Fripp o Glenn Branca, Jimi Hendrix o Greg Ginn, Josh Homme o Duane Denison, Paris, Texas" o "Dead Man". Tese e spiritate, le due cantanti apportano il tocco finale con i loro scalmanati lamenti, oscillando tra il tono profetico di un griot e l'intensità di Skip James.
Ed è così che ogni atto del rito assume una specifica fisionomia musicale, scivolando dal noise lancinante di "Lëk Ndau Mba" al lisergico desert-rock di "Ngor Diouf Ya Demon", dalle rasoiate blueseggianti di "He Yay Naliné" al doom infernale di "Sango Mara Riré", con la sfocata field recording di "Yaré Rirewé Bakora Ndoye" a garantire la correttezza etnografica della performance.
Pensati soprattutto per la resa dal vivo, ideale per esaltarne le virtù curative, i 43 minuti di "Tëdd Ak Mame Coumba Lamba Ak Mame Coumba Mbangnon" non sfigurano nemmeno su disco. Non resta che ascoltarli, cercandovi dentro quel principio catartico che è la ragion d'essere di esperienze simili: che non arrechi un po' di ristoro anche a noi?
27/11/2023