Non è proprio stato un bel 2024 per Justin Timberlake. Non che un uomo con tale agio economico e influenza su Hollywood abbia troppo di cui preoccuparsi, ma quando un anno fa Britney Spears ha pubblicato la propria autobiografia, "The Woman In Me", i dettagli sulla loro relazione sentimentale hanno dipinto un quadro inclemente. Sono solo speculazioni fino a prova contraria, certo, ma nell'occhio dell'opinione pubblica, il Divo di Memphis non è più il ragazzo d'oro d'un tempo, il panorama post-#MeToo ha innescato un inarrestabile arco discendente, al quale, nel suo caso specifico, si riaggiunge ogni santo febbraio anche la storia del Super Bowl con Janet Jackson. Nel giugno di quest'anno, invece, nel mezzo del nuovo tour mondiale, è stato arrestato per guida in stato di ebbrezza, un fattaccio che l'ha sbattuto sui tabloid di tutto il mondo, con tanto foto segnaletica diventata subito meme.
Su questo grava lo scarso successo di "Everything I Thought It Was", sesto album di studio in una carriera fino a questo momento impeccabilmente gestita. Con oltre vent'anni d'attività solista già alle spalle, lo stesso Timberlake non sta più inseguendo l'ultima novità con la fame d'un tempo, preferisce adeguarsi al ruolo di legacy act accanto a colleghi quali Usher, Ludacris e Alicia Keys. Tuttavia, anche scontando le vendite, l'ascolto di "Everything I Thought It Was" lascia basiti: possibile questo interminabile pataccone incolore provenga dalle stesse fucine d'oro di "FutureSex/LoveSound"?
Lungo ben diciotto tracce, il nuovo album si dipana in un eterno midtempo r&b con anemici sprazzi post-disco, senza offrire memorabili spunti melodici né temi di particolare interesse, vista la volontà dell'autore d'insistere sul proprio ruolo di padre e marito senza cavarne le dovute sottigliezze (davvero sconcertante il testo di "Love & War"). Grossa parte del lavoro sembra quindi composta da riciclaggi di brani meglio eseguiti in passato; "Imagination" arriva col santino di Michael Jackson sul leggìo, "Drown" e "Flame" richiamano stancamente "Man Of The Woods", il blues etilico di "Sanctified" prova a rincorrere l'energia della "20/20 - 2 of 2". Imperdonabili le banali soluzioni trap di "What Lovers Do" e l'ammorbante "Memphis", ma fa specie sopprattutto "Technicolor", lungo brano strutturato come una suite che si risolve in un giro a vuoto - sembra uscito dal piattissimo "Changes" di Bieber. Manca, insomma, quell'ambiziosa magniloquenza elettro-orchestrale che aveva salvato la faraonica "20/20" un decennio fa - adesso, semmai, c'è la sottile ballata "Alone".
Anche sui momenti ballabili, siano essi in scia di Pharrell, Daft Punk o Jamiroquai ("Fu**kin' Up The Disco", "No Angels", "Infinity Sex", o una "My Favorite Drug" lanciata contro l'innominabile "Blurred Lines"), il risultato è incredibilmente un-sexy - il colmo, per un tipo come lui.
Rimane in piedi giusto il bel singolo di lancio "Selfish", costruito e condotto con cura per la melodia e quell'anima dolciastra ma lievemente complicata che Timberlake ha sempre posseduto. Ma quando l'autore chiama i rimanenti *Nsync a fare da coristi su "Paradise", quel poco di magia si dissipa in un istante, il brano è davvero orripilante. Ed è un peccato perché, indipendentemente da vicende private e pubbliche opinioni, Justin Timberlake è stato un autore pop d'incredibile successo e influenza, capace d'infilare qua e là momenti talmente memorabili da rimanere in piedi contro ogni intemperia - lo stesso pubblico afroamericano, notoriamente scettico di fronte al suo irritante faccino biondo, non tiene certo il piede fermo quando il dj fa partire "Cry Me A River" o "SexyBack". Ma oggi un album come "Everything I Thought It Was" non arriverà manco a fine anno. Che strazio.
28/11/2024