A partire dall’esordio “An Excellent Servant But A Terrible Master”, i Pyrrhon si sono imposti con forza nel vasto calderone death-metal, approfondendone il lato più dissonante e sperimentale nelle trame dilatate e astratte di “Mother Of Virtues”, un disco che ad alcuni apparve come un salto di qualità enorme rispetto al suo predecessore, mentre ad altri andò giù con qualche difficoltà. In quel secondo disco, la chitarra di Dylan DiLella s'impose, con le sue labirintiche serpentine, come il “vero centro propulsore” del loro sound, come scrivevo a suo tempo sempre su queste pagine. Nei successivi "What Passes For Survival" e "Abscess Time", usciti tra il 2017 e il 2020, la cerebralità delle loro partiture non fu invece sempre supportata da un’adeguata creatività. L’approccio a “Exhaust”, dunque, è avvenuta dalle mie parti con molta cautela, ma alla fine i quattro newyorkesi hanno avuto la meglio.
Annunciato il giorno stesso della sua pubblicazione (6 settembre) e prodotto dal solito Colin Marston (che, nel rendere più arioso il sound della band, non ne ha per nulla smussato l’abrasiva e geometrica virulenza), “Exhaust” è figlio del senso di disorientamento che ha colpito la band durante e dopo la pandemia da Covid-19 e a cui la stessa ha cercato di porre rimedio ritirandosi, nel maggio del 2023, in una baita persa tra le campagne della Pennsylvania, portandosi dietro anche “qualche brutto film” e una manciata di funghetti allucinogeni. Il tutto si è tradotto in un’inedita esperienza creativa, consentendo ai Pyrrhon di ritrovare, giorno dopo giorno, non solo l’equilibrio perduto, ma anche l’intensità sonora dei loro momenti migliori, assolutamente necessaria per esplorare il macro-tema del “burnout perpetuo”, quello in cui l’umanità tutta sembra ormai essere irrimediabilmente piombata.
“Exhaust” apre con l’assalto dissonante e meccanico di “Not Goint To Mars”, figlio sia dei solchi dei Gorguts di “Obscura” che del noise-rock catastrofico della Amphetamine Reptile, pur non nascondendo di avere nel proprio cuore pulsante – cosa che, del resto, vale un po' per tutta la musica dei Pyrrhon – l’inesorabile martellamento ritmico dei Big Black e il monito liberante del free-jazz. Mentre gli strumenti triturano senza pietà tutto questo ben di Dio, Doug Moore si lancia in una feroce invettiva contro “il falso pioniere” Elon Musk, la cui abitudine di “masturbarsi” su di una “visione infantile” lo ha recentemente portato a sognare di costruire, quanto prima, una città su Marte, ignorando che “Marte sta arrivando qui”.
Spastica e irrefrenabile, “First As Tragedy, Then As Farce” si spinge in territori deathgrind, non perdendo mai di vista l’orrore che ci circonda e ricordandoci, con Marx, che se “la prima volta è una tragedia”, “la seconda è una farsa”.
In “The Greatest City On Earth”, caratterizzata da un continuum sonoro in cui fuochi di sbarramento, precipizi psichici degni di “Willpower” dei Today Is The Day e defaticamenti mathcore si alternano a generare il senso di un caos razionalmente cesellato, il traffico di New York diventa, per dirla con le parole di Moore, “una sineddoche di molte delle cose più negative del paese in cui viviamo”, ma anche “del modo in cui la nostra società è strutturata in termini di dipendenza dall'infrastruttura automobilistica”.
Dopo la relativamente più “orecchiabile” (lo so: questo aggettivo accostato alla musica dei Pyrrhon fa venire i brividi!) “Strange Pains”, è di scena l’incubo di “Out Of Gas”, innervata intorno a una figura di basso degna dei primissimi lavori degli Swans e sostenuta dal batterismo panoramico di Steve Schwegler. La tensione accumulata nella prima parte del brano divampa, dopo il terzo minuto, in un climax tumultuoso che Steve Austin avrebbe apprezzato senza riserve. Nel testo, si narra di un viaggio in auto che procede senza meta, almeno fino a quando sia l’auto che la psiche del pilota prendono a collassare senza posa. In fatto di delirio psicotico, il momento clou del disco è però “Last Gasp”, sludgy ed estenuata nel suo trasfigurare una storia d’amore finita nel peggiore dei modi: “My purpose served, your conscience clear/ There’s nothing left to extract here/ As trash, my passing gasp is mirth/ I hope you got your money’s worth”.
In “Luck Of The Draw”, la cui prima parte è caratterizzata da stop and go così fulminei da suonare quasi impercettibili, l’uso della melodia come contraltare escapista di una musica che, di base, non mira a fare prigionieri, fa venire in mente i mai fin troppo lodati e tutto sommato ancora molto sottovalutati Flourishing di “The Sum of All Fossils”, mentre “Concrete Charlie” prende il titolo dal soprannome di Chuck Bednarik, uno dei grandi del football americano, che in tarda età manifestò i sintomi della encefalopatia traumatica cronica. “Si tratta di una storia di football, ma più che altro di come un sistema più ampio lo abbia usato e scartato”, dichiara Moore. “Fa parte dell'esperienza americana. Questi titani dello sport e queste persone che la cultura americana ha reso celebri, alla fine della loro vita vengono trasformati in pacciame. Il football è un microcosmo della vita americana, e noi lodiamo questi uomini che raggiungono risultati straordinari ma che, fondamentalmente, vengono sfruttati”.
All'altezza dell'ultima curva, se “Stress Fractures” riesce a dare la sensazione di una mente al limite della sopportazione, facendo leva su di un'estenuante progressione che inietta dosi di Dillinger Escape Plan in una bestia tech-death, “Hell Medicine” affronta invece il tema dell’alcolismo, inteso come rimedio (fasullo) contro i mali della società capitalistica.
Reeling and retching
Sick in the sink
Whose ass do I gotta kiss
Around here to cop a drink?
Fuck you, tryna to cut me off
Oh, I’ve had enough?
Is that what you think?
Listen: if I wanna kill myself slow
That’s my God-given right
What moron would miss this hell?
What’s the cure for a dead-end life?
Now give me my goddamn medicine
Fill up my cup
It’s quitting time again for me
So bottoms up
31/10/2024