Oddio, da dove cominciare? Leggete il titolo, intanto: “Trout Mask Replica Replica”. Quello che abbiamo dinanzi – io, in verità, al momento ce l’ho nelle orecchie – è proprio la “replica” del capolavoro di Captain Beefheart, ma non si tratta della classica rilettura di un caposaldo della storia del rock, tutt’altro! David Minnick - compositore, percussionista e pianista di formazione classica di Detroit, con trascorsi nel campo della musica ska e altre esperienze in solitaria o come membro di diverse band - ha infatti rifatto da cima a fondo il disco della “maschera di trota” (che in realtà, come si evince dalla copertina ideata e realizzata da Cal Schenkel, è una carpa, insomma una sorta di “replica” della trota), utilizzando soltanto la sua voce, dunque offrendocene una versione “a cappella”, direbbero i più bravi. Ha impiegato circa sei anni e lo ha fatto dopo aver messo mano ad altri dischi sghembi, obliqui, idiosincratici o quello che volete, roba tipo “Sing To God” (1996) dei Cardiacs e “Commercial Album” (1980) dei Residents, mentre all'inizio si era fatto le ossa con la musica dei Negativland, il che è come dire di aver cominciato con una vera e propria terapia d’urto.
Il risultato, per tornare alla "replica" di “Trout Mask Replica”, è qualcosa di incredibile, soprattutto se si pensa a quanto sia complessa la struttura dei brani originali che il Capitano Cuordibue e la sua Banda Magica scolpirono (eh, sì: questo è il verbo giusto!) a cavallo tra il 1968 e il 1969, chiusi in una vecchia casa a due piani dalle parti di Woodland Hills, lì sulle colline che si stagliano sullo sfondo di Los Angeles, dopo che Frank Zappa aveva deciso di dare libertà artistica al suo vecchio amico, tradito, così sembra, dal produttore Bob Krasnow, il quale aveva pensato bene di riversare del “Bromo-Seltzer psichedelico” sulle tracce di “Strictly Personal” (1968), finendo per rovinarlo e fu "come se qualche bambino si fosse appropriato della Monna Lisa", ebbe a dire il Capitano. E, insomma: inutile che vi racconti ancora come nacquero i brani di quel disco leggendario (se siete veri appassionati, dovreste conoscere a memoria la storiella).
Vi parlerò, invece, come è giusto che sia, della genialata di Mr. Minnick, che qui si è assolutamente superato, affrontando la sfida di un disco che, dopo i suoi primi lavori, gli era apparso come il “passo più logico sulla scala dell'impossibilità”, e la cui rilettura così originale – che non si è avvalsa, precisiamolo, delle potenzialità dell’Intelligenza Artificiale - non poteva partire dal presupposto di una “parafrasi”, quanto piuttosto dalla volontà – ci ha raccontato lo stesso Minnick nella lunga intervista che troverete sempre su queste pagine – di “ricreare ciò che c'era realmente, compresi i cambi di tempo intenzionali e non, le ‘note sbagliate’, i rumori extra, le sezioni in cui gli strumenti o le voci non sono sincronizzati tra loro e qualsiasi altra cosa fosse udibile”, e questo perché tali “elementi ‘incontrollati’ costituiscono l'anima dell'album”.
Attraverso un procedimento studiato nei minimi dettagli (vi rimando ancora all’intervista di cui sopra), Minnick ha così trasformato ogni tessera sonora di “Trout Mask Replica” in un suo doppelgänger vocale e ciò potrebbe essere interessante da discutere, perché Beefheart (che non era un musicista nel senso classico della parola, ma innanzitutto un pittore, per il quale note e ritmi null’altro erano che colori da piegare a rivelare il proprio mondo e che, come ebbe a dire una volta Gary Lucas, tendeva a lanciare metaforicamente in aria un mazzo di carte, salvo lasciare poi ai suoi musicisti l’incombenza di scattare un’istantanea sonora di quel momento)... Beefheart, dunque, spesso utilizzava proprio la voce per trasformare, ad esempio, un certo riff di chitarra che gli ronzava in testa in una serie di sillabe o, ancora, un pattern di batteria in una formula onomatopeica (esemplare, a tal proposito, il P-K-Ro-P beat attorno a cui fu costruito il saltellante shuffle in 4/4 d’impronta funk-jazz di “Ant Man Bee”).
Ma Beefheart era anche l’artista capace di scrivere un testo come quello di "Neon Meate Dream Of A Octafish", in cui attraverso una vertiginosa inventio, con significanti e significati che si specchiano vicendevolmente, si celebrano le travolgenti sensazioni dell’amplesso, di rimando mostrando che linguaggio e natura sono, in fondo, la stessa cosa e che, nella sua ultima essenza, la parola è "poietica", insomma creatrice di mondi (non è un caso che quest’ultimo, insieme a “Hair Pie Bake 1" e "When Big Joan Sets Up", sia stato uno dei brani che più ha messo in difficoltà Minnick, che comunque è sempre riuscito a fare centro).
Avendo pianificato di procedere "dall’esterno verso l’interno", per garantire “un suono più coerente in tutto l'album”, l'unico responsabile del progetto The 180 Gs ha in prima battuta lavorato su “Frownland” e “Veteran's Day Poppy”, l’Alfa e l’Omega di un disco che è anche una profonda analisi del ruolo dell’artista nella società contemporanea, come si evince da un attento esame delle lyrics dello stesso Beefheart. Poco alla volta, il cerchio è andato chiudendosi e quello che abbiamo finalmente tra le mani, pardon… nelle orecchie, è un gioiellino di reinvenzione sonora che, nel suo essere oltremodo straniante e finanche divertente da ascoltare, si impone come una delle esperienze sonore più affascinanti e singolari di questo 2024.
29/09/2024