La storia dei Pulp è contrassegnata da un grosso equivoco. Per la band di Sheffield il successo ha rappresentato più un incidente di percorso che un punto d'arrivo. In questa visione quasi bohémienne, l'identità artistica di Jarvis Cocker e soci appare ben più forte di quanto possa sembrare, non sorprende dunque che il ritorno in scena dopo 24 anni di silenzio catalizzi l'attenzione mediatica al pari di una band emergente.
Attenti pertanto ad attribuire il fascino di "More" a un semplice effetto nostalgia: queste nuove undici canzoni sono più simili a quelle fioriture ventennali osservabili in alcune varietà di glicine, peonie, betulle, alberi di pino o di platano, un evento naturale che non solo suscita emozione e incanto, ma che assume anche un ruolo funzionale alla prosecuzione della specie, della vita e dell'arte.
L'ottavo disco dei Pulp è un progetto curato e nutrito con amore e dedizione. Questo è evidente nei sempre acuti testi, frutto di una vita spesa in nome della grazia dell'arte narrativa: "Questa volta ci riuscirò", canta Jarvis in "Spike Island", per poi chiedere a sé stesso in "Grown Ups" un ultimo guizzo di gioventù e di fecondità emotiva: "Sbrigati perché con il sesso, il tempo sta per scadere".
Anche il florilegio di romanticismo di "Tina" non ha nulla di convenzionale, ennesimo perfetto racconto di sentimenti in attesa di una risposta, un chamber-pop che rimanda al voluto suicidio commerciale di "We Love Life", album sontuoso e musicalmente ambizioso, dove il re del romanticismo noir, Scott Walker, agiva non solo come produttore ma come novello Virgilio, pronto a sostenere Jarvis/Dante nell'attraversare l'inferno delle disillusioni post-britpop, senza però raggiungere le vette di "13" dei Blur.
Musicalmente, "More" è un ricco campionario di quello che i Pulp hanno sempre saputo fare al meglio. Ancora una volta è lo stretto legame tra contenuti lirici e musicali l'arma vincente del gruppo inglese. Già dalle prime note del singolo "Spike Island" si avverte un'esuberanza creativa dove glam, disco, pop e rock convivono con un'eleganza quasi sartoriale, un condensato di fantasia e realismo che mette a nudo l'intero progetto: "Sono nato per esibirmi, è una vocazione, esisto per fare questo".
"More" è un album lussuoso, ma mai lezioso. Un gioiellino pop come "Got To Have Love" conferma l'abilità dei Pulp nel conciliare felicità e rassegnazione con il giusto tasso di drammaturgia e consapevolezza, quella stessa consapevolezza che agita le movenze più soul di "Background Noise", una sapiente riflessione sull'inevitabile evanescenza dei sentimenti: "Con il passare degli anni, l'amore si trasforma in un rumore di sottofondo, come questo ronzio nelle mie orecchie, come il ronzio di un frigorifero, te ne accorgi solo quando scompare".
Con un abile colpo di scena teatrale e musicale, i Pulp sono tornati a essere un gruppo, con un leader, ma un gruppo al cento per cento (non si tratta di una reunion infruttifera come quella del 2011). Tutto è rimasto piacevolmente immutato: il respiro/sospiro degli archi, lo sfavillare di tastiere e chitarre messe a lucido, i tempi ritmici perfetti per una serata disco e finanche le cascate di note di violino, che non fanno rimpiangere l'assenza di Russell Senior.
Non è comunque un album prevedibile, "More". L'elegante piano ballad a tempo di valzer di "Farmers Market" è atipica, quasi cantautorale, un contraltare narrativo alla celebre "Common People", mentre la dolente "The Hymn Of The North" riesce nella difficile impresa di realizzare il sogno mancato di "We Love Life", ovvero mettere in luce il forte legame con la poetica di Scott Walker.
I gioiellini tipicamente Pulp non mancano ovviamente, oltre alle già citate "Spike Island" e "Got To Have Love", ci sono le sensuali e pungenti intuizioni di "Slow Jam", le felpate eppur incendiarie sonorità glam-funk-disco dell'irresistibile "My Sex", e il romanticismo non consunto della bella, sì semplicemente bella, "Partial Eclipse".
L'ultima traccia del disco non solo è stata composta insieme a Richard Hawley, ma si avvale anche della presenza di ben cinque membri della famiglia Eno, Brian incluso, ai quali spetta il ruolo di coro laico in un contesto musicale minimale, dove la voce in primo piano, il suono aspro del violino e un flebile corpo armonico si fondono per un finale da brivido. Ed è alquanto rivelatore il fatto che l'ultimo brano di "More" si intitoli "A Sunset" (un tramonto), quasi una risposta a quella "Sunrise" (l'alba) che chiudeva le ostilità di "We Love Life".
Se l'intenzione dei Pulp era dimostrarci che l'ultimo capitolo della loro storia non è stato ancora scritto, bisogna constatare che ci sono riusciti alla perfezione e che possono contare su un terzo gioiellino di famiglia da consegnare ai posteri.
08/06/2025