Erano quattordici anni che i Sandwell District non pronunciavano verbo. Un lungo silenzio attraversato da fratture, tra attriti interni e la prematura scomparsa, nel 2024, di Silent Servant, alias di Juan Mendez, una delle menti dietro il moniker, stroncato da un'overdose accidentale di fentanyl. Nessun presagio lasciava intendere un ritorno: quella dei Sandwell District era divenuta un'entità sacrale quanto remota, la cui eco aveva trasportato molti ascoltatori oltre l'idea di dance music come escapismo, rivelandone invece le sfumature più alienate e oppressive, in un percorso affine a quello che avrebbero potuto intraprendere Joy Division e Bauhaus, se avessero declinato la loro estetica attraverso la pulsazione del quattro-quarti.
A dare forma all'entità-collettivo, la crème-de-la-crème techno: Regis, Function, Silent Servant e Female; nomi attivi fin dai Novanta e artefici di espedienti club sospesi tra la minimal-industrial e quel vertiginoso ibrido noto come Birmingham-sound, un oscuro sottobosco germogliato dalla fusione tra il post-punk e l'Ebm, in un resoconto dance-oriented trasfigurato secondo la brutalità della macchina-uomo e dell'hardware-automa.
L'esistenza dei Sandwell District ha plasmato l'identità minimal come oggi la intendiamo, attraverso un'eredità di appena due lavori: "Feed-Forward" (2010) e il successivo "Sandwell District" (2011). Due opere che, con un pugno di texture asfissianti e malinconiche, hanno ridefinito i confini del clubbing, trasformandolo in un idioma introspettivo, un lamento cibernetico manifestato da un'insonnia meccanica.
"End Beginnings" è il capitolo inaspettato, il crocevia tra la fine (la scomparsa di Silent Servant) e una nuova origine (la riconciliazione tra Regis e Function, separati da anni di dissapori). L'album è un omaggio all'amico. Lo si intuisce già dalla cover-art, ripresa da un lavoro di Mendez. Il ritorno prende forma in un rito elettronico segnato da tormenti futuristici e da una cassa dritta affilata e monastica. Ma se nei lavori precedenti dominava una cupezza febbrile, qui il tribalismo abissale si snoda in droni raggelanti e contaminazioni eterogenee, dagli accenti breakbeat immersi in esistenzialismi electro ("Citrinitas Acid"), dove una voce angosciata si intreccia a un synth granitico, fino ai lunghi fraseggi ipnotici e agli inevitabili squarci di intimità, scanditi da onde di accordi sospese tra la tensione ritmica del fuoco rituale ("Will You Be Safe?").
Il viaggio si dipana tra banger decostruiti in un brutalismo acid ("Hidden") e scenari downtempo che sfumano in suggestioni primordiali; qui, armonie metafisiche si fondono con il brulichio cosmico di ansie e ossessioni ("Last Travelled"). Non mancano le reminiscenze delle glorie passate: "Self-Initiate" sembra quasi una trasfigurazione di "Immolare (Function Version)" (l'opener del secondo album, per intenderci), salvo poi precipitare in un incubo suburbano su scala extraterrestre, mentre il beat di "Restless" pare uscito direttamente dal catalogo Downwards o Mille Plateaux.
Se il rigore ascetico di "Feed-Forward" ha ridefinito l'estetica minimal-techno, qui il suono si frantuma in un mosaico di echi e deviazioni, il frutto dolente di due artisti che hanno perso un compagno ma hanno trovato nuova linfa in inedite sinergie. "End Beginnings" è infatti un'opera a dodici mani, con la presenza di collaboratori che ampliano lo spettro sonoro: Rrose, Mønic, Rivet e Sarah Wreath. Sei voci, ognuna con una propria traiettoria, che concorrono a dipingere un affresco di tensioni e ardore da dancefloor.
È un lavoro che intreccia l'energia notturna con le inquietudini più sovrannaturali e sotterranee. Lo dimostra la chiusura, affidata a "The Silent Servant": un warm-up sospeso tra vapori di distorsioni cosmiche e sequenze di accordi cinematici. Il cerchio si chiude: l'ultimo saluto all'amico fraterno, in un atto di memoria e gratitudine. Profondo, tagliente e religioso, "End Beginnings" è così l'elaborazione di un lutto e un nuovo inizio.
01/04/2025