Cymbals Eat Guitars

Cymbals Eat Guitars

L'indie-rock mutante

Il progetto musicale ideato da Joseph D’Agostino, from Staten Island, fonde alt-rock, noise e divagazioni assortite. “Lenses Alien” è il loro manifesto, ma “LOSE” e "Pretty Years" hanno confermato la capacità di partorire un indie-rock tanto intricato quanto duttile

di Claudio Lancia

Nascere, crescere e vivere a New York, o nei suoi dintorni, dev’essere proprio una bella sensazione, quella di trovarsi esattamente al centro del mondo, nel luogo dove le cose accadono. E se hai delle buone idee, se hai delle discrete carte da giocare, puoi trovare humus fertile per consentire al tuo progetto di germogliare. Joseph D’Agostino e il compagno di studi Matthew Miller sono di Staten Island, uno dei cinque borough della Grande Mela, e crescono con la fissa per la musica alternativa degli anni 90, cose tipo Pavement, robetta un po’ obliqua. Suonano rispettivamente la chitarra e la batteria, in più Joseph incrocia le varie influenze che ha assimilato per creare spunti propri, che presto condivide e rende reali grazie al contributo di Matt Cohen (chitarra), Neil Berenholz (basso) e Daniel Baer (tastiere), tutti reclutati attraverso annunci postati un po’ ovunque.
Nel 2007 questo diviene il primo nucleo dei Cymbals Eat Guitars, nome mutuato da una vecchia frase di Lou Reed, utilizzata per spiegare il suono dei suoi Velvet Underground. Una line-up destinata a mutare nel tempo, che vedrà la figura di D’Agostino come l’unica presenza fissa. Sarà questa la formazione che darà vita alle prime registrazioni.

Tempo due anni e il gruppo debutta con l’autoprodotto Why There Are Mountains, un’opera che tende a incrociare l’imprendibile shoegaze di “Loveless” con le mini-suite emozionali di “Perfect From Now On” e le cavalcate piene di enfasi di “Funeral”. Tutto ciò risulta evidente nella cristallina “Share” (la quale in una versione primordiale era stata pubblicata in una compilation datata 2008, rappresentando una sorta di battesimo della band), risultato di una formula che miscela cacofonie ambientali e inni per ottoni avvolti da mantelli di chitarre. “And The Hazy Sea” è un lattice ancor più schizofrenico, che ciondola fra sfuriate supersoniche e slanci slowcore. Saranno in molti ad accostare questo lavoro ai Built To Spill (ma i Cymbals barattano l’originaria lamentazione di Doug Martsch con l’isteria collettiva) e ai Modest Mouse (“Cold Spring” ne è un chiaro esercizio di imitazione), ma i ragazzi cercano da subito una strada propria.
“What Dog See”, senza alcuna parte di batteria, è una cantilena sognante avvolta da tocchi dissonanti, coagulati in morbidi soundscape, la quasi espressionista “Like Blood Does” è un poemetto art-rock che, a partire da un recitativo voce-chitarra, imbastisce una personale idea di crescendo, con la chitarra che si doppia in glissando liberi, quindi s’impenna ospitando tamburi tribali e archi storpiati. Il ruolo melodico è investito da “Wind Phoenix”, arricchita da xilofono, variazioni, marcette e timide semi-jam, mentre “The Loving North”, “Some Trees” e “Indiana” sono schizzi pop e noir-wave, basati su tempi fratturati e su una propria elaborazione dell’immaginario shoegaze.
Why There Are Mountains è un’opera prima sfavillante, che si fregia di un nobile uso del rumore, di strati e profluvi di suono, ora materico ora aereo, a seconda dell’occasione. Non sempre coerente, il disco può risultare a volte appesantito da subdoli deja-vu, dove a tratti i musicisti sembrano preferire il fascino teorico, quasi fosse una mappa costruita a tavolino. Tutto si muove consumando, ma soprattutto illudendo, il tempo dell’ascolto. Le sue movenze sono legnose nelle melodie e fluenti nelle cacofonie. Paradosso calzante al punto da giustificarne l’esistenza stessa. Piccoli peccati d’inesperienza che non inficiano il risultato finale, quello di costituire comunque un esordio di tutto rispetto.

Le buone recensioni ottenute sul suolo americano aiutano intanto i Cymbals a mettere in piedi un bel giro di concerti promozionali, con alcune date aperte per The Pains Of Being Pure At Heart e persino per i Flaming Lips.
Ma presto iniziano i primi cambi di formazione: Berenholz e Baer abbandonano la partita, sostituiti rispettivamente da Matthew Whipple al basso e Brian Hamilton alle tastiere. Anche il fido Miller consegna la batteria nelle mani di Andrew Dole, lasciando così D’Agostino (del resto la mente del gruppo) come unico membro originale superstite.

La nuova formazione pubblica verso la fine dell’estate 2011 il secondo atto, Lenses Alien, che catapulterà i Cymbals Eat Guitars sotto le luci della ribalta del palcoscenico indie-rock mondiale. E’ un lavoro denso di carica e nevrosi, che fa dell’imprevedibilità il proprio credo assoluto. Tramuta l’approssimazione Pavement-iana in poetica lirica, giustifica i non-finiti con cui terminano parecchie canzoni (a volte paiono quasi figlie di indecisioni) con un’urgenza emotiva a tratti delirante. Rivivifica il revival anni 90 in una strana luce di allegoria moderna. Scambia le melodie con le deraglianti sarabande dei musicisti e con i verbosi j’accuse del frontman, eletto novello cantore dell’evo contemporaneo. Per molti Lenses Alien è la nuova lingua del classicismo, e poco importa se a rimetterci è la fruibilità, che ne esce malconcia, carenza che non aiuterà la band a raggiungere un pubblico più vasto rispetto a quello occupante la propria nicchia di riferimento. Ma il dado è tratto e il disco viene accolto ovunque con grande entusiasmo dagli addetti ai lavori.
Gli otto minuti di “Rifle Eyesight” sono programmatici dei nuovi Cymbals, un manifesto d’intenti, un vero e proprio epigramma d’irrazionalità: da subito il contrasto fra un piano in forma di post-rock e un forte in forma emo-core monopolizza l’ascolto, che presto si adagia su soundscape granulosi che citano tanto i Pink Floyd interstellari quanto il noise d’annata. Dalla parte opposta “Gary Condit” è ambiguamente contesa fra dilatazioni concertate e quel power-pop distorto tipico del grunge, con tanto di distorsori e delirio sonico finale.
I brani centrali, molto meno ambiziosi, oscillano fra power-pop cubista (“Shore Points”) e irruenze lineari che uragani di sottofondo in distorsione cercano di spodestare (“Keep Me Waiting”). Piccoli poemi emotivi sono “Painclothes”, narrazione sostenuta da accordi shoegaze, il martirio di “Secret Family”, la catena di quiete dissonanze di “The Current” che si consuma in appena due minuti. Pur nel suo apparente caos, Lenses Alien è uno dei più lucidi ritratti musicali della nostra epoca, tanto schizzato quanto figlio di un preciso piano preordinato. Un album dal quale non si può prescindere per giudicare e analizzare in maniera corretta lo stato di salute della scena indipendente degli anni 10, giustamente riconosciuto come il progetto più compiuto e temerario del combo di Staten Island.

Passano tre anni esatti ed ecco arrivare meravigliose conferme dal terzo capitolo in studio, LOSE, un disco che ha come tema portante quello della perdita. I Cymbals Eat Guitars continuano a non sbagliare un colpo, fissando in maniera indelebile su un dischetto cosa può tirar fuori oggi una band in seguito all’individuazione del giusto trade-off fra atteggiamento indie e ricerca della complessità. Forse il risultato è meno impattante rispetto a “Lenses Alien”, ma lì dove sorprendeva l’effetto novità, di una formazione ancora sconosciuta ai più, qui suscita stupore la capacità di confermarsi su livelli eclatanti, puntando su soluzioni meno intricate ma non certo meno suggestive.
LOSE serba al suo interno una lunga serie di validi motivi di interesse, che slegano in maniera definitiva la band da certo immaginario musicale tipico dei due decenni appena trascorsi, per proiettarla con forza nella contemporaneità, cosa che accade sin dall’afflato epico di “Jackson”, il brano che meglio si ricollega al disco precedente, e proprio per questo viene posizionato all’inizio della scaletta. Dal punto di vista testuale, LOSE si presenta come profondamente autobiografico, con D’Agostino che incentra il songwriting su ricordi legati alla (perdita della) giovinezza, a volte anche crudi o malinconici. I ragazzi dimostrano di essere dei credibili sperimentatori, di saper dilatare le atmosfere senza mai diventare tediosi, e al tempo stesso di aver scoperto la ricetta per costruire la perfetta pop song “alternativa”. In tutto ciò la vena experimental-noise è assecondata dalla presenza in cabina di regia di John Agnello, uno che in passato ha saputo amalgamare i suoni di personaggi come Sonic Youth e Dinosaur Jr., mica gente qualunque.
Il disco è idealmente suddivisibile in sezioni, ad esempio la seconda e la terza traccia, rispettivamente “Warning” e “XR”, rappresentano l’area più rabbiosa, dove la prima è un dirompente alt-rock non troppo distante dal post-hardcore di matrice Trail Of Dead, con tanto di falsa chiusura, la seconda un folk-rock incendiario introdotto da armoniche fulminanti. “XR” delinea uno degli slanci più toccanti, nel quale Joseph ricorda l’amico scomparso Benjamin High, a lui molto vicino durante i primi passi del proprio percorso artistico. La più strutturata “Place Names” (arricchita da un closing sonico imperniato su chitarre dissonanti) è il ponte che conduce ai due momenti chiave dell’album, che ne caratterizzano la parte centrale, quella con le tessiture più ardite. Nella cristallina “Child Bride”, gioiellino elettro-acustico che non a caso occupa la posizione di mezzo nella tracklist, D’Agostino ci parla di abusi, mantenendo alto il livello di drammaticità complessivo. Altrettanto fondamentale la lunga “Laramie”, il momento di massima sperimentazione, che si apre con un falsetto alla Prince per poi snodarsi in uno svolgimento ricco di colpi di scena.
La settima e l’ottava traccia, ovverosia la spigliata “Chambers” e la miracolosa “LifeNet”, rappresentano invece l’angolo più catarticamente indie-pop di LOSE, in grado di far respirare qualche  minuto di apparente leggerezza, la quale conferisce una duttilità, ma soprattutto una fruibilità, che mai i Cymbals avevano avuto prima. Nella conclusiva “2 Hip Soul”, calma e disperata al tempo stesso, tutto si smorza sulle note emesse da un soave pianoforte, lo stesso che apriva “Jackson”, e il cerchio magicamente si chiude. E si chiude il sipario su uno dei lavori che probabilmente saranno riconosciuti fra qualche tempo come degni rappresentanti della cultura indie della nostra epoca. Un disco fondamentale per l’annata 2014.

A settembre 2016 ariva Pretty Years, con il quale i Cymbals si aggiudicano ufficialmente la licenza di band cangiante. E non solo per merito dell’evoluzione artistica fin qui intercorsa: il quarto lavoro della formazione di Staten Island sublima in maniera ancor più forte la capacità di assemblare generi e citazioni. Il tono generale dell’album è leggero e orecchiabile, come mai prima d’ora, anche perché l’insospettabile mood (alt-) pop fresco ed energetico (che vuole essere un aperto omaggio agli anni giovanili di ognuno di noi) viene fissato sin dalla doppietta iniziale “Finally” / “Have A Heart”, e ribadito più avanti da episodi quali “Well”. Certo che con un brano pazzesco come “Wish”, in grado di mettere in sequenza nel raggio di qualche decina di secondi fiati irresistibili, un’esagerata e irresistibile parodia del Boss, tappeti sonori mutuati dagli anni 80 ed un ritornello da stadio perfettamente a norma, beh, così vinci sicuro.
Ma mica è finita qua: in “Close” i ragazzi incrociano gli Strokes con i Cure meno introspettivi (facile solo a parole, eh!), in “4th Of July, Philadelphia” portano in scena un apocrifo dei Wilco di mezzo, giusto con un pizzico di fuzz in più, e nell’intensa ballad da manuale “Mall Walking” nel finale citano “Come As You Are” (eh, sì, quando eravamo tutti un pochino più giovani…). Più intrattenitori che in passato, i Cymbals si muovono con proprietà di mezzi e linguaggio da ballad malinconiche come “Dancing Days” e “Shrine” ad una mazzata hardcore-punk del calibro di “Beam”, mettendo al bando quasi completamente complessità e sperimentazione troppo cervellotica.

Traccia dopo traccia, Joseph D’Agostino dimostra di essere bravissimo nel riuscire a far assomigliare la propria creatura a qualcun altro, ma alla fine i Cymbals Eat Guitars tendono sempre più ad essere soprattutto sé stessi. Saper creare una copia di spunti già editi da altri, e rendere il tutto con grandissima personalità resta un piccolo miracolo, un piacevolissimo prodigio.

Contributi di Michele Saran ("Why There Are Mountains", "Lenses Alien")

Cymbals Eat Guitars

Discografia

Why There Are Mountains(Self-produced, 2008)6,5
Lenses Alien(Memphis Industries, 2011)8
LOSE(Barsuk Records, 2014)7,5
Pretty Years (Sinderlyn, 2016)7
Pietra miliare
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