Dal 1996 al 2001 erano conosciuti come Godzilla, e viene da chiedersi se avrebbero avuto lo stesso successo senza cambiare nome: il passaggio dal cartoonesco monicker al più ricercato Gojira è in fondo la rappresentazione plastica dell'evoluzione che ha sempre caratterizzato la band. Hipster-metal, dice qualcuno, a volte anche con disprezzo. Non che la musica dei Gojira, attraverso tutti i cambiamenti, sia mai scesa sotto la soglia di violenza e aggressività indice del metal estremo. È vero però che una serie di elementi - l'ambizione dei testi, l'alto tasso di mutazione tra un disco e l'altro, una certa coolness complessiva - hanno contribuito ad allargare la popolarità della band al di fuori della cerchia di appassionati.
Gojira è il nome originale giapponese del mostro (kaiju) che, a partire dal film di Ishirō Honda del '54, devasta Tokyo in una fortunata serie cinematografica. Tralasciando i remake americani, questa conosce una straordinaria recente rivitalizzazione con "Shin Gojira" del 2016. Il nome scelto dai quattro non è casuale: il mostro del film di Honda è il prodotto delle radiazioni nucleari e rappresenta l'angoscia del Giappone reduce dai bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki. Diventa così il simbolo del potere distruttivo dell'uomo nei confronti di se stesso e del pianeta. Infatti i temi affrontati dalla band, oltre all'introspezione e al conflitto interiore tipici del metal, spaziano innanzitutto verso l'ecologia, ma anche la politica e lo spiritualismo.
I Gojira nascono nel '96 a Bayonne, Francia, dall'iniziativa dei fratelli Joe e Mario Duplantier, voce e chitarra il primo, batteria il secondo. Completano la formazione, rimasta invariata dagli esordi a oggi, Christian Andreu alla seconda chitarra e Jean-Michel Labadie al basso. A livello tecnico i quattro sono strumentisti eccezionali: in particolare Mario Duplantier è un fuoriclasse alle pelli, sempre in lizza per i primi posti nelle classifiche dei migliori batteristi rock e metal. Ma anche dal punto di vista chitarristico la musica dei Gojira impatta in modo inusuale: l'integrazione sistematica nei riff e negli accompagnamenti di tecniche solitamente usate negli assoli o come "effetti speciali" - tapping, pick-scrape e simili - è diventata il loro marchio di fabbrica.
La complessità della musica dei Gojira ha portato a classificarli come technical death-metal: ma si tratta di quel versante technical che predilige i puzzle a livello ritmico rispetto a funambolismi armonici e virtuosismi solisti. Dunque, poca o nessuna affinità con il metal tinto di jazz-fusion di Atheist e Cynic - l'armonia che piace ai Gojira in molti casi è pura e semplice dissonanza. La loro tecnica si esprime invece in un groove-metal fratturato, disparo, spaccaossa. L'orecchio è rivolto ai Meshuggah, come si sente nel largo uso dell'accoppiata cassa-chitarra. L'attenzione ai ritmi è da collegare alle tematiche della band, non urbane ma naturalistiche, ancestrali. I groove intricati sono la naturale evoluzione del tribalismo, spesso anche evocato direttamente da introduzioni e intermezzi strumentali a base di percussioni etniche. All'ascoltatore arrivano così anche i Sepultura di Roots, e la connessione con la storica band brasiliana è personale: Joe Duplantier suona il basso su Inflikted, l'album di debutto del 2008 dei Cavalera Conspiracy, progetto dei fratelli Cavalera successivo allo scioglimento dei Sepultura.
Ma andiamo con ordine. Nel 2001 esce l'album di debutto dei Gojira, Terra Incognita. Giunge a compimento di cinque anni passati a registrare demo fatte in casa e suonare nei locali, anche supportando nomi notevoli come Cannibal Corpse e Immortal. Scritto da Joe Duplantier mentre vive in un capanno nel bosco con la ragazza, senza acqua corrente né elettricità, Terra Incognita è essenzialmente death-metal che guarda ai classici - Death, Morbid Angel - con un'attitudine groovy e vagamente tribale, ma che difficilmente lascia intuire la possibilità del salto effettuato con i dischi successivi. È infatti un lavoro acerbo, i difetti maggiori la prolissità e la difficoltà nell'indicare una direzione originale. Più di un'ora di musica per 14 tracce tra le quali è difficile indicarne alcune più significative di altre. Sono però già rintracciabili alcuni ingredienti che rimarranno costanti nella ricetta del gruppo, come l'uso di tecniche chitarristiche (tapping e pinch harmonics) integrate nei riff - in "Clone", "Space Time" - e un'inquietante weirdness che sporadicamente si inframmezza alla furia death-metal - "Satan Is A Lawyer", "On The B.O.T.A.", quest'ultima ispirata dai tarocchi.
In Terra Incognita si iniziano a conoscere i Gojira anche a livello tematico: lontano da argomenti horror-gore e truculenti, ma anche non riducibile al metal "politico" di protesta, il gruppo si orienta verso una forte spiritualità. Fondamentale è il rapporto con la natura, come nell'eraclitea "Fire Is Everything" o in "Love" e "In The Forest", evidentemente ispirate dal "passaggio al bosco" di Duplantier. C'è poi il superomismo sofferente e individualista in "Deliverance" e "Rise". La componente spirituale trova concreta espressione, oltre che nei testi, anche in brevi spunti cantati con voce pulita, come in "Clone" e "Deliverance", che hanno il sapore di litania. Questi passaggi a tratti quasi liturgici troveranno sempre più spazio nell'evoluzione della band, per diventare parte della sua cifra stilistica. Infine, e non è poco, Terra Incognita serve da vetrina per mostrare la potenza di fuoco dei Gojira: i quattro sono una vera macchina da guerra e anche se la tecnica strumentale non è ancora finalizzata in un songwriting efficace, serve lo stesso a sfogare una violenza e un'energia fuori dal comune. Il growl di Duplantier non è profondo né particolarmente tecnico, ma tagliente ed espressivo. Il fratello Mario si palesa subito batterista eccezionale e potenziale motore per l'evoluzione verso architetture sonore più complesse.
Terra Incognita viene auto-prodotto e distribuito in Francia attraverso una piccola casa indipendente, la Boycott Records. Nel 2003 arriva il successore, The Link, seguendo lo stesso percorso. The Link segna una svolta rispetto all'esordio: senza indietreggiare di un colpo quanto a ferocia, la scrittura dei brani si fa più variegata, libera e interessante. La produzione asciutta, essenziale, e il minutaggio contenuto segnalano un lavoro fatto in grande concentrazione e chiarezza di idee. Ora i Gojira possono sul serio presentarsi come la grande novità del metal europeo e non solo. Qua e là le ritmiche vengono rallentate, altrove accelerate all'inverosimile, sempre sotto la spinta muscolare e precisissima della batteria di Mario Duplantier. Ma sono i rallentamenti ad attirare di più l'attenzione: se infatti blast beat e ritmiche serrate sono già state dispiegate in tutta la loro potenza nell'esordio, la comparsa di riff groove-thrash più cadenzati, marziali, in aria di Pantera, contribuisce a diversificare il songwriting e esplorare nuove possibilità di pesantezza.
L'omonima "The Link" introduce con percussioni e vocalizzi gutturali da rito voodoo che confermano la vocazione selvatica dei francesi, per poi aprirsi in una furia death-metal alternata a riff sulfurei. "Death Of Me" esplicita il nuovo corso della band, una marcia pestona che il growl di Duplantier declina in una sorta di brutale crossover/rap à-la Phil Anselmo. A inframmezzare, esplosioni epilettiche a base di doppio pedale e chitarre al seguito. Un pezzo lungo e complesso che segnala l'ambizione dei Gojira. "Connected" è l'ennesimo stacchetto evocativo di giungla infestata da cannibali. "Remembrance" è un altro pezzo architettonicamente impegnativo che parte brutale, lascia intravedere un raggio di luce nell'apertura centrale e si conclude con una tipica coda basata su ritmi fratturati di cassa e chitarra all'unisono.
Il crossover moderno e marziale viene ripreso in "Indians", insieme ad accenni melodici di chitarra e improvvise accelerazioni. Una sorta di relativa tregua prima di "Embrace The World" e "Inward Movement", feroce la prima, opprimente la seconda. I momenti più scuri dell'album. La chiusura è affidata all'assalto semi-grind di "Wisdom Comes" e alle divagazioni strumentali di "Over The Flows" e "Dawn".
Il conseguente tour tra 2003 e 2004 e l'affermazione della popolarità dei Gojira come micidiale band live li porta alla pubblicazione di un Dvd, The Link Alive, registrato durante una data sold-out a Bordeaux. Anche questo auto-prodotto e auto-distribuito. Ma il successo ottenuto nei circuiti underground francesi convince la band a fare un decisivo passo in avanti e firmare con la Listenable Records. L'approdo a un'etichetta, seppure indipendente, garantisce alla band la possibilità di redistribuire album e Dvd e soprattutto maggiore ossigeno economico e temporale per lavorare al seguito di The Link, che arriva a settembre 2005.
From Mars To Sirius è uno dei dischi metal più celebrati degli anni Duemila e che più ha contribuito a definire le caratteristiche del genere presso il grande pubblico, al di fuori della cerchia degli appassionati. A partire dalla copertina: sempre più spesso l'artwork metal si fa ricercato, prescindendo dai cliché di oscurità e orrore tradizionalmente associati al genere. Le balene volanti dei Gojira vanno di pari passo con la netta evoluzione musicale rispetto agli esordi, che rende From Mars To Sirius un quasi-capolavoro. L'ingrediente della svolta è il prog. Categoria spesso abusata, per cui si tende a chiamare prog-metal pressoché qualsiasi cosa includa tempi dispari ed evasioni rispetto alla forma canzone. Il che significa un sacco di cose, nel metal. Ma nel caso del terzo album dei francesi si può parlare di prog a proposito. Non nella declinazione power-neoclassica, ma in quella evoluzione del post-metal dei Neurosis incarnata per esempio dai Mastodon. I brani si fanno più lunghi e articolati, ma spunta anche molta melodia e le eccezioni rispetto al metal più brutale non sono più divagazioni erratiche, ma consapevoli integrazioni all'album nella sua interezza. Al contempo la violenza e la ferocia si fanno più concentrate, intense. Varietà e coerenza. Pesantezza e distensione.
From Mars To Sirius è anche il disco che più di tutti caratterizza l'immaginario dei Gojira nel suo complesso: a partire dalle balene in copertina, massimo simbolo ecologico, ma anche per le ambientazioni che spaziano dal fantasy post-apocalittico al fantascientifico, vivificate da una sensibilità inaspettata, in realtà tipica di molto metal "post-tutto". Una sorta di mitologia postmoderna popolata da unicorni e dragoni (e balene volanti) che fa da sfondo al concept. Perché in piena tradizione prog, di questo si tratta: un concept-album basato su un viaggio intergalattico, con lo scopo di ridare vita a un pianeta morente. Angoscia da fine del mondo sublimata in fantascienza ecologista. Vuoi per il retroterra narrativo, vuoi per la maturazione tecnica e compositiva, l'ora di musica che è From Mars To Sirius scorre senza cali di ispirazione. Ma l'organicità del concept permette di riconoscere dei capitoli ben strutturati.
Il primo è composto dal terzetto "Ocean Planet"-"Backbone"-"From the Sky", pezzi solidissimi e relativamente brevi rispetto al resto dell'album, che catapultano l'ascoltatore nel vivo della narrazione. Incedere ora marziale, ora frenetico. Il growl tagliente ma sempre intelligibile di Joe. Chitarre che alternano groove tritaossa a fischi alieni. La batteria esplosiva di Mario: sono Gojira ispirati e in stato di grazia. Il sound è compatto e d'impatto, non stravolto rispetto agli esordi, ma significativamente migliorato.
Dopo l'intermezzo di "Unicorn", si apre il cuore progressivo e magmatico dell'album, introdotto da "Where Dragons Dwell": un riff granitico e atmosferico al tempo stesso, una lunga introduzione a un pezzo che, senza ripetersi mai, sfuma gradualmente nella coda. "The Heaviest Matter Of The Universe" resta per metà fedele al titolo che porta, per poi mutare di pelle con un riff progressivo e la voce che si ripulisce e si fa melodica. Un percorso evolutivo che porta a "Flying Whales", brano manifesto del disco e di questi Gojira mutati. Una intro atmosferica che guarda ai Neurosis filtrati attraverso Mastodon e Baroness: arpeggi di chitarra essenziali e stranianti su un secco rullante. Arriva come una mazzata il riff più arrogante e prepotente registrato dai nostri, molto più in aria di Pantera che non death-metal. Ma prima della fine dei sette minuti, il pezzo cambia più e più volte, tra la ripresa dell'intro e feroci accelerazioni. Una violenza che trova sfogo nella successiva "In The Wilderness", un vero tritacarne. Al contrario di "World To Come", l'episodio più particolare nel viaggio di From Mars To Sirius: un rock-metal con chitarre quasi settantiane e voci ripulite. Atmosfera oscura e ipnotica, voglia di spaziare lasciando impresso il marchio Gojira.
Si arriva così all'ultimo capitolo dell'album, formato dalla doppietta "From Mars", soffusa, sussurrata, e "To Sirius", potente ripresa death-metal spaccaossa. La chiusura è affidata a un altro brano manifesto, "Global Warming", in cui il tema ecologista viene sorretto da una litania progressive-metal a base di tapping alieno.
L'album è un grande successo di critica e vende molto bene in Francia, complice il contratto firmato con la Listenable Records. Un'intensa stagione di tour e concerti, sia da headliner di successo che da supporti a nomi prestigiosi, per la prima volta anche fuori dal territorio nazionale, fa sì che i Gojira firmino con l'americana Prosthetic Records per la distribuzione oltre oceano. Iniziano a comparire i primi entusiastici articoli su testate anglofone come Kerrang! e il successo è tale da avviare un periodo di tour che si conclude solo alla fine del 2007.
Intorno a questa data inizia la composizione del quarto album, che vede la luce a ottobre 2008, distribuito in Europa dalla Listenable e in America dalla Prosthetic. Dare seguito a un successo come quello appena realizzato è un'impresa. The Way of All Flesh ci riesce in modo inaspettato. È infatti l'album più lungo dei Gojira, il più oscuro per i temi e il più pesante per la musica. Non a caso, è considerato il vero capolavoro da molti tra i fan più oltranzisti. Senza la freschezza e l'agilità del suo predecessore, però è questo l'album della maturità stilistica della band.
The Way Of All Flesh non ha un concept narrativo, ma a modo suo è tematicamente centrato: sulla morte. Affrontata da un punto di vista filosofico, mistico e spirituale. Dopotutto non c'è ecologia al di fuori di un pensiero della connessione, del "link", tra l'individuo e il suo ambiente. Connessione che prende la forma del circolo tra la vita e la morte: come nell'apertura affidata a "Oroborus", il mitico serpente che si morde la coda, simbolo dell'infinito. Che infatti riparte dal tapping alieno delle chitarre che avevano chiuso "Global Warming". Il pezzo naviga verso lidi progressivi, prima di esplodere con furia death-metal. Ma mostra anche come la melodia abbia assunto un suo peso nella ricetta e ne faccia parte in modo stabile. Un instant classic nel catalogo della band, insieme alla successiva "Toxic Garbage Island", con il suo riff math-rock in salsa Meshuggah. La weirdness strumentale prende totalmente il sopravvento in "A Sight To Behold", oscura e inquietante.
Il cuore dell'album è occupato dai pezzi più pesanti, veri e propri macigni scagliati contro l'ascoltatore che trovano il picco in "Adoration For None", scritta e cantata in collaborazione con Randy Blythe dei Lamb Of God, la band considerata massima espressione della New Wave of American Heavy Metal: un generico cappello sotto al quale sono stati collocati artisti molto diversi. I Lamb Of God, dal canto loro, sono campioni del groove-metal e la sponsorizzazione dell'istrionico frontman a favore dei Gojira è stata determinante per la popolarità della band oltre oceano. La presenza di Blythe dà occasione ai nostri per comporre uno degli episodi più sanguinari della loro discografia. Una vetta altissima, subito oscurata da un'altra: "The Art Of Dying" è la rappresentazione plastica dello stile Gojira. Un riff mono-nota, astratto di per sé, reso concreto da batteria e percussioni, che imbastiscono un ritmo dalla complessità matematica estrema. Quasi dieci minuti nei quali l'"arte di morire" si rivela anche un manifesto lirico della band, un esercizio spirituale di oltrepassamento del velo di Maya. La spiritualità buddista è fonte di ispirazione dei nostri in modo analogo ad altro prog-metal, come quello dei Cynic.
La tensione non accenna a diminuire con "Esoteric Surgery", altro assalto sonoro disperato e disperante. A livello tematico, ritorna l'unità mente-corpo da ricercare in un "codice segreto" inscritto in tutte le cose. "Vacuity" è una marcia forzata a base di martellate chitarristiche. Ma i Gojira sono in grado di insistere ancora per altri due pezzi, "Wolf Down The Earth" e "The Way Of All Flesh", senza alcun tipo di compromesso. Come detto, l'album più lungo e nero della band. Probabilmente una diversa distribuzione interna alla tracklist sarebbe stata di giovamento. In ogni caso, The Way Of All Flesh porta con sé le vette espressive e tecniche di una band che si lancia ora in un periodo di tour forsennato, aprendo per gruppi ben affermati come gli In Flames, fino ai giganti Metallica, e partecipando a importanti festival europei. Nel 2011 la svolta di mercato: scade il contratto con la Prosthetic e i Gojira firmano con la rinomata Roadrunner (una divisione della Warner), etichetta egemone nel settore hard-rock e metal.
Fanno appena in tempo a pubblicare un cd-Dvd live, The Flesh Alive, 2012, con l'indipendente Mascot Label. A giugno dello stesso anno esce L'Enfant Sauvage, quinto album in studio. Personale, introspettivo, ma significativamente diverso per scelte compositive, tonali e melodiche, è una sorta di gemello buono del precedente The Way Of All Flesh. Per certi versi, ancora più intimo e personale: a partire dal titolo in francese, che riprende il film di François Truffaut del 1970. "Il ragazzo selvaggio" è la storia vera di Victor dell'Aveyron, un giovane che a inizio Ottocento fu ritrovato nei boschi del Massiccio centrale in Francia, selvatico e incapace di parlare, che non si adattò mai alla civiltà. Il richiamo agli episodi di estraniamento naturalistico del giovane Joe Duplantier è forte, insieme a quello alla sua contemporanea esperienza come padre. Ma da un punto di vista stilistico, questo lavoro introspettivo si appoggia su un'apertura e una varietà che guarda più al prog di From Mars To Sirius che all'oltranzismo sonico. Il tutto filtrato da un sound più ricco, robusto, effettato al punto giusto.
"Explosia" inizia come da titolo, assalto frontale metallico in pieno stile Gojira, per poi diluirsi in una coda strumentale che suona come dichiarazione d'intenti. In realtà, nella prima metà del disco si concentrano gli episodi più sintetici e diretti, tra cui spicca lo squarcio melodico di "L'Enfant Sauvage", che in qualche modo anticipa una formula che diventerà standard per i successivi lavori della band. "The Axe" e "Liquid Fire" sono cavalcate epiche dirette e corali, più guerresche che non oscure o disperate. Ma è a partire dalla strumentale "The Wild Healer", un episodio allucinato di synth fantascientifici, che si apre il cuore progressivo dell'album. "Planned Obsolescence", "Mouth Of Kala", "Pain Is A Master": concentrati tra i cinque e i sei minuti che ibridano l'astrazione math e groove dei Meshuggah con soluzioni tonali inedite per i nostri, con un orecchio rivolto al progressive di "Crack The Skye" dei Mastodon. Qua e là tornano litanie ipnotiche in salsa psych-metal e in "Planned Obsolescence" persino una chiusura ambient.
"Gift Of Guilt" è invece la ripresa e la sintesi di molti ingredienti tipici dei Gojira, dal tapping al collasso del suono delle chitarre attraverso tecniche come bending e armonici. Una ripresa a livello tematico del dilemma posto dal "ragazzo selvaggio", senza passato, senza eredità e senza il "dono della colpa". "Born In Winter" è un altro episodio atipico che in un tempo breve condensa una struttura post-metal, dal sussurro iniziale, attraverso l'esplosione elettrica, fino alla ripresa circolare, sottolineata dal continuum degli arpeggi di chitarra. Il finale è affidato all'epica "The Fall", accorata, coinvolgente, in cui la voce di Joe Duplantier passa dal growl più profondo di cui è capace, attraverso il ringhio che più gli appartiene, fino all'apertura pulita e melodica.
L'Enfant Sauvage è un album particolare nel percorso dei Gojira, in cui i sentimenti e da esprimere si fanno più variegati, meno monocromi e la musica segue di conseguenza. Potrebbe sembrare un disco di passaggio, soprattutto tenendo conto del successivo Magma, ma sarebbe un errore. È invece una potente sintesi di molti aspetti diversi che ormai convivono nell'anima della band.
Dopo il terzo cd/Dvd live nel 2014, Les Enfants Sauvages, nel 2016 è la volta del sesto disco in studio. Magma è il più melodico dei loro album e prosegue il percorso che porta dai punitivi assalti degli esordi verso gli intermezzi pacati e atmosferici degli album successivi. Quello che era un elemento laterale della loro proposta musicale è adesso diventato protagonista: un cuore melodico e progressivo, che prevale qui sulle epilessi meccaniche, le esplosioni epiche, gli assalti spaccaossa. La mutazione è evidente sin da "Shooting Star", adagiata su linee vocali che si moltiplicano fra il liturgico e lo psichedelico. Il singolo "Stranded", a passo contenuto, rivela la struttura di una canzone rock, cantata con l'energia del death-metal: sembra di ascoltare il corrispettivo di quanto fecero i Metallica col thrash-metal nel loro album omonimo. "Pray" è forse la sintesi migliore, coro di monaci e groove-metal assassino che si alternano in una composizione intarsiata di ritmi sbilenchi e preziosismi prog-metal. "Low Lands" relega lo sfoggio di potenza alla seconda metà, senza peraltro raggiungere mai l'intensità di un tempo.
Non mancano, comunque, momenti di devastante violenza, semplicemente stemperati da aperture melodiche e persino orecchiabili, dove l'energia distruttiva è irretita da spunti compositivi che appartengono alla tradizione prog-metal. Un ottimo esempio è "Silvera", uno dei momenti più alti dell'opera, con l'anima dilaniata fra slanci emotivi, chitarre che si immolano in riff epici e il suono corazzato e opprimente che fu protagonista dei primi album. La corsa a perdifiato di "The Cell" esplode in una melodia maestosa, come farebbero i più recenti Baroness, la band che affiora più spesso alla mente durante l'ascolto dell'album insieme ai Mastodon di "The Hunter".
Ispirato dalla dolorosa perdita della madre dei fratelli Duplantier, Magma ha il pregio di essere meno dispersivo delle opere precedenti e di molto altro metal progressivo. L'ispirazione tragica rende l'album emotivamente coinvolgente, mentre gli spunti compositivi più complessi permettono anche un ascolto più cerebrale. I limiti risiedono nella mancanza di innovazioni sostanziali, in un canto melodico che scade spesso nel monotono, nell'assenza di quell'ambizione che ha reso From Mars To Sirius un vertice che la formazione ancora non riesce a eguagliare.
I Gojira tornano con il settimo album Fortitude nel 2021. L'attesa è stata alimentata dal fatto che il precedente Magma (2016) è stato un album di svolta: brani più lineari, spesso aderenti alla struttura classica della canzone rock, forte presenza di voci pulite. Insomma, avevano fatto con il death-metal degli esordi un'operazione analoga a quella dei Metallica con il thrash nel black album. Dunque si tratta di sentire se questo Fortitude è analogo a quello che fu Load.
Disco meno fresco e immediato del precedente, che aveva le sue maggiori qualità nella compattezza e nell'ispirazione uniformemente distribuita sui vari brani, Fortitude ricade in una certa dispersività. Da una parte c'è il tentativo di tornare alle asperità del metal più estremo, coniugandole alla vena melodica, con risultati altalenanti: in particolare, i ritornelli delle varie "Born For One Thing", "New Found", "Into The Storm" rischiano di suonare intercambiabili gli uni con gli altri senza troppa difficoltà. Ciò non toglie che svolgano la giusta funzione di "aprire" i brani e iniettare una buona dose di epicità.
Ci sono poi episodi in cui il nuovo corso viene abbracciato con più spontaneità e coerenza: "Hold On" è introdotta da una progressione di cori drammatici che sfocia in una sequenza di riff e armonie di chitarra molto classici (oltre all'immancabile tapping alieno, marchio di fabbrica dei nostri). "Another World" è l'esempio tipico di un'abilità unica dei Gojira: saper trasformare un esercizio chitarristico da manuale in un vero riff e costruirci un brano efficace intorno. A livello tematico, poi, torna il topos già al centro di From Mars To Sirius (2005) dell'epopea spaziale per sfuggire al collasso ambientale del pianeta.
Ecologia e politica: i temi caldi della band, che in "Amazonia" tornano verso le latitudini tropicali del groove-tribal-metal, altro ingrediente fondamentale della ricetta dei nostri. Al brano è collegata anche un'iniziativa di beneficenza a favore degli indigeni. Per arrivare poi alla doppietta "Fortitude"-"The Chant", l'episodio più atipico e spiazzante: per cantare l'oppressione nei confronti del Tibet, imbastiscono un potente psych-blues-metal. Le percussioni, i cori, le scelte tonali: tutto contribuisce a stabilire un impensabile ponte tra i templi dell'Himalaya e il voodoo della Louisiana, in aria di Zeal and Ardor. C'è persino un assolo di chitarra che trasuda elettroni. Nessuna svolta commerciale: questi sono Gojira ispirati e sinceri. Una nuova mutazione.
In definitiva, non si può dire che la band abbia di nuovo alzato la sbarra (come invece fa Randy Blythe dei Lamb Of God, da sempre fanatico promotore dei colleghi francesi). I livelli di From Mars To Sirius restano ancora lontani, e probabilmente sono destinati a rimanere tali. Ma i Gojira hanno esplorato ancora nuovi sentieri, lo hanno fatto con energia e convinzione; quello che Fortitude paga in termini di dispersione, lo recupera stimolando una ricerca attenta tra le pieghe dei brani.
Contributi di Antonio Silvestri ("Magma")