Sam Fender

Sam Fender

Musica ipersonica dal Far East inglese

Cresciuto in una famiglia di musicisti e iniziato al rock sin da bambino, Sam Fender traspone le musicalità d’oltreoceano in uno stile proprio, raccontando i sogni, la disperazione e la rabbia della provincia inglese. Con un repertorio ibrido, in cui l'intimismo convive con la grandeur dello stadium rock di springsteeniana memoria

di Fabio Ferrara

Un inizio di carriera d'altri tempi, quello di Sam Fender, che per far conoscere la sua musica, piuttosto che social e strutture promozionali moderne, ha preferito la buona vecchia gavetta. Un tour continuo e insistente. Prima limitato al solo, natìo Regno Unito, poi privo di confini; prima ospitato da vecchi pub, e accolto da una ristretta cerchi di fan, poi salutato da venue e folle via via più grandi.
Owen Davies, il suo futuro manager, lo scoprì in un pub mentre si esibiva con la sua chitarra acustica a North Shields, una cittadina di “bevute e di pesca” del Nord Est inglese. Era lì dove aveva trascorso fino ad allora tutta la vita. Si era barcamenato fra tanti piccoli lavoretti, aveva provato anche a fare il barista, proprio nel locale da cui ebbe inizio la sua carriera professionistica. Nonostante la giovane età, aveva vissuto delle esperienze forti nella sua adolescenza: problematiche legate alla separazione dei suoi genitori, la perdita del lavoro della madre per via di problemi di salute, una gravissima malattia all’età di 20 anni. Ed è proprio questo il microcosmo che farà da sfondo ai testi delle sue canzoni: amori embrionali, episodi di bullismo, il suicidio di un amico, la sua rabbia, i suoi silenzi, sua madre che piange per una domanda respinta dal Dipartimento del Lavoro e delle Pensioni.

Ma se i ricordi sono tutti legati alla città sulle sponde del Tyne, la grandeur dello stadium rock di Sam Fender è puntata tutta sulla grande America di Bruce Springsteen. È al Boss e a tutti i suoi eredi d’oltreoceano che rivolge la sua sconfinata ammirazione, grazie anche a suo fratello maggiore Liam che lo inizia alla musica e al rock. Ed è proprio all'interno del gruppo di supporto al fratello che comincia a esibirsi in piccoli locali, affiancato sul palco da alcuni compagni di scuola con cui aveva formato una band.
Dopo qualche anno dall’incontro con Davies,nel 2017, Fender decide di lanciare il suo primo singolo “Play God” che ottiene un discreto riscontro e che viene anche incluso nella tracklist del celebre gioco di calcio “Fifa 19”. Ma sarà l’anno dopo, con il suo primo Ep Dead Boys, che il suo nome comincerà a circolare con più insistenza nel panorama musicale britannico. La title track è una canzone molto ben costruita con una intro soft e una seconda metà più forte, sostenuta dal ritmo deciso della batteria e dal suono fluido delle chitarre elettriche, che ben si integrano con la voce di Fender, intento a ripetere ossessivamente il ritornello. Il brano – delicata riflessione su un tema difficile come il suicidio giovanile- sarà anche nominato per il prestigioso premio Ivor Novello per il testo. Una segnalazione particolare merita anche l’altro singolo dell’Ep “That Sound”, in cui Sam mette il piede sull’acceleratore in un tripudio di chitarre distorte, trascinato da un riff che resta scolpito nella memoria.
Chiude il disco “Leave Fast”, una tenera ballata in cui il cantante gorgheggia con uno stile che strizza l'occhio al sempiterno Jeff Buckley.

Non giunge dunque come un fulmine a ciel sereno, l’anno successivo, lo strepitoso successo del suo primo album Hypersonic Missiles, disco d’oro in madrepatria, con tanto di nomination ai Brit Award del 2020 come “Best New Artist”. In questo album, Fender ripropone le sue canzoni di maggior successo dei due anni precedenti più altre tracce inedite che ancora una volta rivolgono lo sguardo alla grande tradizione musicale americana. Di nuovo Springsteen, nella title track, sospinta da chitarre tonanti e dalla sua voce profonda fino a sfociare in maestosi assoli di sassofono.
L'heartland-rock "The Borders", che presenta un chitarrismo liquido come quello dei War On Drugs ma privo della loro forza onirica, manifesta l'interesse di Fender anche per produzioni più moderne. "Will We Talk?", ad esempio, ha un lavoro di riffing arzillo e sincopato, come se gli Strokes si mettessero di punto in bianco a fare cover di Tom Petty.
Tra i testi più impegnati, va sicuramente segnalata la tagliente filastrocca di protesta "White Privilege". Qualche problema lo si riscontra nella gestione del minutaggio, appesantito sia da alcuni lenti poco riusciti ("Two People", "Leave Fast", "Use") che da alcuni pezzi potenti e orecchiabili, ma inutilmente enfatici, invero un pelino tronfi (la sua prima hit "Play God").
Malgrado qualche sbavatura, il debutto mostra il talento e la personalità di Sam Fender, per il quale sembra finalmente giunto il momento di godersi il meritato successo. Dopo aver introdotto il concerto di Hyde Park di Bob Dylan e Neil Young, Sam appronta un fitto calendario per iniziare il suo tour più importante, esibendosi nelle più importanti arene inglesi nella Primavera del 2020. Il tour sarebbe dovuto concludersi a Newcastle, la capitale della sua contea, per raccogliere tutti i suoi fedelissimi della prima ora. Purtroppo, però, la pandemia di Covid costringerà gli organizzatori a cancellare tutte le date.

Sam, tuttavia, non si perde d’animo e torna a North Shields, dove tutto era iniziato, per continuare a fare quello che gli riesce meglio: scrivere canzoni. Ne registra ben 60, selezionandone poi 11 per inserirle in quello che diventerà il suo nuovo album Seventeen Going Under.
A rendere ancora più succosa l’attesa, il lancio della title track in heavy rotation in molte radio: una canzone eccellente sotto tutti i punti di vista, che rievoca la sua difficile adolescenza. Il cantante di North Shields non struttura il racconto dei suoi 17 anni in forma classica, ma lo rielabora per immagini, assemblando ricordi fondamentali. Musicalmente la canzone è costruita come un dialogo costante fra una parte di chitarra, che tradisce la mai celata stima che il cantautore inglese nutre verso i War on Drugs e un controtempo in batteria che si innesta dopo circa un minuto. Impreziosito da una melodia orecchiabile e attraente, il brano otterrà un ottimo riscontro commerciale, nonostante un testo decisamente cupo e malinconico.
Non altrettanto convincente sarà il secondo singolo “Aye”, concepito come una sorta di inno che mette insieme un po’ di tutto, dalla crocifissione di Gesù allo scandalo Epstein, fino all’uccisione di John Lennon. Nonostante le ambizioni, il pezzo resta inchiodato a terra, in assenza di un refrain o di arrangiamenti originali. Sembra, in generale, che Fender dia il meglio di sé quando deve guardarsi dentro, scavare nei complicati rapporti interpersonali, piuttosto che quando prova a rivolgere lo sguardo altrove, cimentandosi in commentari sociali. I delicati equilibri familiari, in particolare, vengono affrontati con uno sguardo sempre sensibile e lucido: nella delicata ballad “Spit Of you”, si rivolge direttamente al padre, raccontando le affinità tra i loro caratteri e le loro difficoltà di comunicazione, fino a sconfinare nell'immagine drammatica della funzione funebre in cui Sam bacia il corpo della madre: “Un giorno, quella sarà la tua fronte che sto baciando”.
È a se stesso che parla invece in un’altra ballata dell’album, “Mantra”, in cui, in una sorta di seduta di autoanalisi, prova a darsi degli imperativi per crescere, per uscire dai cicli in cui si sente bloccato e per riempire finalmente i suoi vuoti interiori che si porta dietro sin da bambino. A impreziosire questa canzone sono ancora una volta gli arrangiamenti, con la sezione fiati che irrompe a metà del brano e accompagna fino alla fine la melodia della chitarra.
Peccato che non sempre la freschezza e l’originalità dei suoi testi sia accompagnata da una ricercatezza musicale e da una voglia di sperimentare. Non ci sono canzoni brutte, in questo album, ma Fender tende spesso ad adagiarsi su un ritmo e una struttura ripetitivi. Eppure bastano a volte piccoli accorgimenti per alzare la qualità dei brani. Ne è un esempio l'altro singolo “Get You Down", il cui inizio sembra catapultarci in un album dei Killers, fino a quando il contrasto fra il sassofono e la chitarra ci riporta a una dimensione del tutto nuova, suggellando uno degli episodi più riusciti dell’album.
Neanche questa volta, mancano i rimandi al suo primo amore, Bruce Springsteen, che Fender omaggia sfacciatamente nella conclusiva “The Dying Light”: una ballata al pianoforte che inizia sommessamente con Sam che canta di derelitti e randagi, giganti della commedia, eroi squattrinati (“This town is a world of waifs and strays/ Comedy giants, penniless heroes”) e prende man mano sicurezza, sostenuto da un’orchestra che per atmosfera richiama la E street band.

Esiste anche una versione deluxe di questo album con cinque bonus track. In “Good Company” Fender, accompagnato solo da una chitarra acustica, mette in mostra le sue doti vocali. Nelle altre il confronto con il Boss è ancora più evidente. È questo forse ancora il limite che il cantautore britannico deve superare per imporsi definitivamente. Di certo, Fender non lascia mai che le sue influenze si riducano a mere imitazioni, cercando di forgiare, disco dopo disco, un suo stile personale; i riferimenti e le citazioni, però, sono sempre troppo evidenti e rischiano di farlo apparire perdente nel confronto con gli originali, per carisma e innovazione. Ma se saprà affinare ulteriormente il suo indubbio talento, il songwriter di North Shields potrà ritagliarsi un posto tra gli autori più interessanti della sua generazione.

Contributi di Michele Corrado (“Hypersonic Missiles”)