Giovanni Sparano

Barezzi: genesi di un festival

Si è conclusa da poco la diciassettesima edizione del Barezzi Festival, che ha portato sui palchi dei teatri di Parma e provincia Blonde RedheadOkkervil RiverMicah P. HinsonJesus And Mary Chain e molti altri. Nel corso della kermesse, OndaRock ha raggiunto il fondatore, Giovanni Sparano, per parlare della sua genesi e di quel “seme” decisivo che fu Franco Battiato, del contesto culturale che la circonda e di alcuni dettagli organizzativi.

giovannisparanoCiao Giovanni, ti conosciamo come fondatore del Barezzi Festival, realtà ormai radicata in Emilia, più precisamente tra Parma e provincia, sei di origini campane, e nasci come oste e gestore di un bistrot a Eboli. Cosa ti ha portato a Parma e in seguito a ideare una kermesse musicale?
Mi avvicinai al mondo del teatro per caso, leggendo un annuncio, e da lì iniziai a fare la comparsa in modo semi-professionale, appassionandomi al mondo dell’opera e in particolare a Giuseppe Verdi. Quando nel 2005 aprii il Gran Caffè dei Marchesi a Parma, c'era l'esigenza di fare musica e ci inventammo un concorso intitolato ad Antonio Barezzi, mecenate di Verdi, nel quale davamo l'opportunità ai partecipanti di eseguire una cover del compositore e portare anche due pezzi inediti. All'epoca non c'erano i social media, solo Myspace, e fu bellissimo, perché comunque arrivarono un sacco di demo fisiche.
Le selezioni si svolsero al bar, con una giuria composta da Bernardo Lanzetti, ex-Pfm, Alessandro Nidi, che aveva arrangiato “A casa di Ida Rubinstein” di Giuni Russo, delle figure abbastanza professionali. I gruppi provenivano da tutta Italia, parteciparono anche i Famelica, il progetto di DimartinoLorenzo Kruger dei Nobraino, e tanti altri artisti molto validi. Come cover si poteva trovare “Addio, del passato” da “La traviata”, oltre alle più “pop”, come possono essere “Libiamo ne' lieti calici” eccetera. In vista della finale, chiedemmo al sindaco di Busseto di mettere a disposizione il palco e il service, e io e Laura Fantastico, la mia compagna, versammo di tasca nostra mille euro per il primo premio, che fu vinto dai Django's Fingers. Quindi preselezioni al bar e finale proprio sotto il monumento di Verdi. Quella serata fu fondamentale, perché vedendo Busseto, la piazza e il teatro, pensai di fare il festival, cioè unire al concorso un contenitore legato a personaggi trasversali che si erano confrontati con la musica colta.

Cosa ti colpì della figura di Antonio Barezzi in quanto mecenate, oltre a quella di Giuseppe Verdi?
Mi colpì tantissimo questa figura per via di un esempio che credo sia emblematico: quando Verdi divenne maggiorenne, fu mandato a Milano per studiare al conservatorio, fallì e venne bocciato. Ritornato a Busseto, Barezzi continuò a credere in lui, lo aiutò a prendere una borsa di studio, raccomandandolo a Giulio Ricordi, e lo rispedì a Milano, dove divenne il compositore d'opera più celebre ed eseguito al mondo. Questa cosa mi ha scioccato, perché senza questo personaggio non avremmo avuto Giuseppe Verdi così come lo conosciamo oggi.
Nei primi anni del festival lavoravo molto sulla storia di quest'uomo, mi piaceva raccontare di questa persona che si era spesa per Verdi come se fosse un secondo padre, ed era completamente fuori dagli schemi: studiava, sapeva suonare una decina di strumenti da autodidatta, e non era nemmeno un musicista, ma un'autorità. A quell’epoca a Busseto c'erano due fazioni, una progressista, capitanata da lui, e quella ecclesiastica. Verdi quindi era anche preso un po’ in giro per questo motivo, poteva essere considerato un “punk” di quel periodo. Sposò la figlia di Barezzi, che morì per malattia, e si innamorò in seguito della famosa soprano Giuseppina Strepponi. Nell'Ottocento l’unione con una donna dello spettacolo era motivo di chiacchiere, perché considerata dissoluta, quindi dovette affrontare anche questo genere di critiche; aveva un rapporto travagliato con Busseto e i suoi abitanti. Anche in questo caso, Barezzi fu l'unico illuminato a pensarla in modo differente rispetto a tutto il paese. Quando Verdi divenne famoso, restituì tutti i soldi che il mecenate gli aveva prestato, ma non vi fu mai una reale rottura del legame che avevano costruito.

Data la fascinazione per queste figure storiche, perché hai deciso di fare un festival di musica contemporanea e non “colta”?
In teatro ci sono entrato a mia volta per caso, allora mi sono domandato perché si dovesse attendere un qualche intervento fortuito e casuale nella vita degli artisti, quando avrebbero già potuto usufruire di questi luoghi. L'idea era quella di portare “l'altra musica” in teatro. Alla sua epoca Verdi era un contemporaneo, ovviamente, e nel raccontare i costumi di quel periodo all’interno de “La traviata” venne fischiato, perché la gente non si rivedeva in quella rappresentazione. Si è voluta unire la musica contemporanea, in rappresentanza a Verdi e a quello spirito “punk” che lo aveva in parte caratterizzato, e il contesto di fare musica in teatro a Parma, alla figura di Barezzi, rievocando quella specie di sodalizio.

Cosa o chi ha dato l’imprinting definitivo, anche nello stile, al Barezzi così come lo conosciamo oggi?
Il seme è stato senza dubbio Franco Battiato. Ho parlato tanto di Verdi e di Barezzi, ma la cosa più importante che pensai la notte del concorso a Busseto, relativa a questo festival trasversale che volevo fare, fu quella di scrivere e sottoporre l’idea a Battiato. Scrissi alla mail del suo sito e mi rispose direttamente lui. Mi disse che era interessato e aveva apprezzato la proposta: gli avevo chiesto di omaggiare Giuni Russo, di cui era stato il mentore (una sorta di “Barezzi”), perché era morta da poco. Tra l'altro Franco aveva un legame con Parma, perché vi aveva realizzato la sua prima opera “Genesi”, quindi c'era un rapporto con la musica colta, la lirica. Mi lasciò scritto: “Venite a trovarmi a Milo”, senza dire un giorno. Si fece sentire dopo circa tre mesi con una data, e io e Laura andammo da lui a Villa Grazia. Per me era un mito assoluto e non mi sembrava vero.

Quanto rimaneste lì?
Un intero pomeriggio. Lui aveva questo fare molto British, però con un'accoglienza molto siciliana, manteneva le distanze ma avvolgeva la persona allo stesso tempo. Pensando a Battiato, mi aspettavo di trovare “lo sciamano”, invece risultò una delle persone più simpatiche e acute che avessi mai conosciuto. Mi ricordo due cose in particolare di quel pomeriggio. La prima è che ci fece conoscere Anohni Hegarty (Anohni and the Johnsons), all'epoca in Italia nessuno sapeva chi fosse, ci portò in una sala dove c'era un Mac e sparò “You Are My Sister” a palla (dall’album “I'm A Bird Now”). E poi, dopo averci mostrato tutta la casa, ci portò nel posto dove era solito ascoltare musica, un vecchio palmento, in precedenza usato per la molitura delle olive, che era stato collegato a una terma. Al di là di questo, lui decise di venire al Barezzi gratuitamente e quando tornammo a Parma ci disse che era contento di poter fare questa cosa per trecento persone, che avrebbe voluto mostrare il documentario che aveva realizzato su Giuni Russo e poi cantare qualche canzone, chiedendoci per l’occasione un piccolo quartetto d'archi di accompagnamento. Iniziammo allora a pensare ai preparativi per fargli trovare questa cosa: avendo fatto il primo anno del concorso al bar, non avevo nessuna esperienza in merito…

franco_battiato_barezziEra il 2008, quindi ti sei trovato a passare dalla gestione del bar a Franco Battiato...
Esatto, e ho fatto una figuraccia assurda, perché quello che ho fatto trovare a Battiato a Busseto è stato terribile. Dall’incontro idilliaco a Milo, si è passati a un palco da sagra: non c'era un mixer da palco e non avevamo previsto un fonico, perciò lui andava avanti e indietro dal palco al mixer e si faceva i suoni da solo. Si è letteralmente calato nei panni del fonico di se stesso, al di là degli snobismi che avrebbero potuto dimostrare altri, che quasi sicuramente se ne sarebbero andati via subito, e non avrebbero avuto tutti i torti. Da questo avvenimento, una volta tornati a Parma, la notizia ufficiale della presenza di Battiato è stato il “La” che ha istituzionalizzato il festival, diversamente forse non avrebbe avuto un decollo simile. Si è arrivati di fronte a un bivio e da lì ci hanno finanziato, il resto della storia si è costruito edizione dopo edizione.

In questi diciassette anni, di tutta questa vicenda e questi concetti, cosa è arrivato agli artisti? In parte di Verdi sicuramente avranno sentito parlare, ma qual è il rapporto con il contesto, dal quale magari per esperienza sono totalmente lontani, sia geograficamente sia storicamente? E se c'è magari un aneddoto in merito.
Sicuramente attraverso questo festival abbiamo regalato a Parma delle esperienze diverse, il 50% del pubblico ormai lo aspetta, perché lo vede un po’ come un marchio di garanzia. Per quanto riguarda gli artisti, tra i vari Philip GlassFontaines D.C.Anna Calvi eccetera, loro forse non si vanno a documentare più di tanto, però vivono un'esperienza differente, avvertono nel Barezzi e in quei sette giorni di festival un'energia completamente diversa, perché sono in un teatro e vengono accolti in un determinato modo. Ricordo che l'unico artista che venne fondamentalmente per questo motivo fu Rufus Wainwright, perché è un melomane, grandissimo appassionato di Giuseppe Verdi. Chiese proprio di poter andare a dormire il giorno dopo nella stanza in cui aveva abitato ed era morto Verdi (al Grand Hotel et de Milan), e poi abbiamo trascorso una giornata insieme in macchina, l'ho portato a Villa Sant'Agata e al Museo verdiano di Casa Barezzi. Uno dei ricordi più belli della mia vita è l’aver cantato con lui tutto il secondo atto de’ “Il trovatore” in auto, in questa Renault 4, a memoria. Questa cosa è stata proprio di una “verdianità” incredibile.

C’è stato qualche artista che partecipando al festival si è invece incuriosito, non conoscendo affatto la musica di Verdi o comunque la tradizione operistica?
Sì, Brian Auger per esempio, a seguito della sua partecipazione mi scrisse che grazie a questo festival si era appassionato e aveva ascoltato “Il trovatore”, “Rigoletto”…

Se dovessi immaginare qualcuno che si possa sposare perfettamente con questo discorso, ci sarebbero degli artisti che tu vedresti, al di là dei gusti personali, perfetti per questa cornice e che magari non sei riuscito ancora a ingaggiare?
Se dovessi pensare a un linguaggio completamente diverso, ti direi James Bay, ma ritengo che Bob Dylan sia proprio l'apice di questo discorso, come lo sarebbe stato Leonard Cohen, che purtroppo non potrà mai partecipare. Dylan per tutto quello che ha fatto è il cantore di un'epoca, rappresenta il Novecento e la sua arte, poesia e musica.

Quindi vuoi sempre conferire al festival questo tratto di contemporaneità? E vista la tematica sociale dell’intera storia, Barezzi al di là dell'essere un appassionato di musica, è stato anche un filantropo nella misura in cui ha finanziato Verdi. Quindi immagino che siate una realtà sana anche dal punto di vista dei vari bilanci, sono tanti i festival in Italia che in qualche modo provano a barcamenarsi...
Sì, assolutamente, è una realtà virtuosa, e al pari di ciò che faceva Barezzi, a me piace tenere sempre “le antenne dritte”, prestare attenzione al panorama contemporaneo e alle nuove proposte.

Avete mai pensato di aprirvi a progetti che non siano strettamente musicali, sempre all'interno di questo contesto?
Ce ne sono stati tanti e alcuni li portiamo avanti, come per esempio il Barezzi Lab, che di fatto rielabora il vecchio concorso di partenza. È stato ripreso negli ultimi tre anni, cambiando forma: siamo noi a invitare quattro o cinque artisti emergenti a portare due pezzi propri e uno di Verdi, e si svolge la mattina con le scuole, con Diego Sorba nei panni di Antonio Barezzi. All’interno di questo talk, che ha dei tempi narrativi, vengono raccontati dei casi di mecenatismo allargato nella società, poi Diego parla con un gruppo, per esempio, e gli chiede perché abbia scelto un certo pezzo di Verdi. Si tratta di un momento educativo per le scuole superiori, dove si ascoltano band contemporanee che parlano di musica classica, con gli interventi di un musicologo dalla platea.

Una domanda che esula dalla musica, ed entra nella parte organizzativa. Hai dato conferma del fatto che quella del Barezzi sia una realtà virtuosa, si tratta quindi di un festival che ha possibilità di futuro in continua crescita?
È virtuosa, ma ha effettivamente poco spazio, perché questo tipo di progetti sono sostenuti da tre pilastri, il primo riguarda la parte pubblica, il secondo quella privatistica e l’ultimo considera bandi e sponsor, che insieme di fatto raddoppiano il primo punto citato. Abbiamo purtroppo ancora poca attenzione e, secondo me, è grave, perché comunque si parla di contemporaneità con una forte radice nel passato, Barezzi fa parte della storia d'Italia. Si parla di un personaggio storico e non è percepito come dovrebbe, forse è anche un nostro errore, perché non riusciamo a snocciolare bene le tematiche nei vari bandi a cui partecipiamo. In ogni caso, al di là della progettualità, quello che conta è che il pubblico sia sempre il primo ad accoglierci e a partecipare attivamente ogni volta.

Quanto pensi che questa realtà sia stata possibile da portare avanti per la connessione che, almeno in quel di Parma, a livello locale, c'è tra la città e Barezzi, con una sorta di autocelebrazione del territorio, che poi si è allargata agli appassionati di musica? Se avessi organizzato questo tipo di festival con la stessa narrazione, partendo da un personaggio storico in un altro contesto, diverso da quello di nascita, avrebbe potuto avere lo stesso futuro?
Secondo me, un festival per funzionare bene in genere deve avere qualcosa da raccontare, e noi lo abbiamo, così come l'opportunità di confrontarsi con un bacino di utenza importante. Parma è a poco più di un’ora da Milano e da Bologna, al centro dell'Europa, ha delle venue incredibili e un personaggio dalla valenza mondiale. Se si va al Metropolitan Opera House di New York, il primo che viene eseguito è Verdi, per dire. Infatti ci sarebbero tantissimi altri progetti che si potrebbero sviluppare a livello internazionale sulla sua figura. Si è avverato quello che un po’ pensavo dalla prima edizione, Parma con Barezzi e Verdi forma un binomio fortissimo, e poi da lì è possibile raccontare la cucina, il territorio, la famiglia Bertolucci, infinite cose.

Giovanni, ti ringraziamo per questa chiacchierata, ci hai incuriositi con questi aneddoti di vita di Barezzi e Verdi, del secondo in particolare credo che molti ignorino un lato che potremmo definire “punkettone”. Ci consiglieresti un libro biografico su di lui?
Sicuramente “Giuseppe Verdi. Vita di un uomo” di Gustavo Marchesi. Un libro che traccia benissimo il carattere di Verdi e il suo rapporto con Barezzi. Ci sono dentro molte curiosità che solitamente sono adombrate dall’imponenza della musica di Verdi, ma che sono attualissime e intriganti. Grazie a voi ragazzi!