My Tunes

Come salvare il mondo, una canzone alla volta

Autore: Maurizio Blatto
Titolo: MyTunes. Come salvare il mondo, una canzone alla volta
Editore: Baldini & Castoldi
Pagine: 456
Prezzo: 16 euro

“Sono cresciuto all’interno della mia collezione di dischi. Mi hanno confortato e protetto. Le persone spesso ti deludono. I miei vinili non l’hanno mai fatto. Oddio, mentre lo scrivo, mi accorgo che suona come una brutta versione di un testo di Paul Simon. Ma è così. Il riparo che offre un disco è per sempre. Le soddisfazioni e gli insegnamenti. La capacità di sedare e la forza di farti scoppiare. Ecco, quest’ultima sembra buona per una cover band di Springsteen. Attenzione. Diciamo allora che io sono rimasto fedele alle immortali parole di Morrissey in Rubber Ring. Gli Smiths spingono con svagata eleganza e lui dice: non dimenticare le canzoni che ti hanno fatto piangere e quelle che ti hanno salvato la vita. È la pietra filosofale del pop, gigantesca e banale in un colpo solo. Io non l’ho mai tradita”.
 
Che un libro sia scritto proprio per te lo capisci dalle prime righe della prefazione. Maurizio Blatto – firma prestigiosa del mensile “Rumore” e uno dei proprietari di Backdoor, negozio di dischi ubicato a Torino – ha da qualche mese pubblicato un libro per tutti quelli a cui la musica ha – formula forse abusata ma anche inesorabilmente vera -  salvato la vita. Il titolo è “MyTunes”, come la rubrica che Blatto tiene ogni mese sulle pagine della rivista per cui lavora dove intreccia aneddoti personali, memorie di vita vissuta, stralci di un passato spesso ancora vivo e brandelli di un’attualità che la velocità del mondo pretenderebbe già morta con le vicende delle canzoni che hanno segnato tanto  la sua esistenza quanto quella di ogni altro appassionato. Oltre che la storia della musica pop-rock, ovvio.
Dai classici intramontabili di ogni genere (“Gimme Shelter”, “Waterloo Sunset”, "Wish You Were Here”, “Trans Europe Express”, “The Killing Moon”, “I Say A Little Prayer”, giusto per citarne qualcuna) a brani meno noti al grande pubblico ma familiari a chiunque abbia un più nutrito bagaglio di ascolti (tanto per intenderci, si va da “Sugarcube” degli Yo La Tengo a "Kerosene" dei Big Black). Di ogni canzone l’autore scandaglia i dettagli tecnici, ne ricostruisce sostanzialmente la storia e ne descrive lo stile integrando - con assoluta naturalezza - le valutazioni critiche al tessuto narrativo di partenza. Quel che conta non è tanto sapere tutto su ognuna delle settantasette canzoni trattate, quanto afferrarle da una prospettiva che se da un lato le restituisce nel medesimo  splendore in cui le abbiamo conosciute, dall’altro ne svela il cuore pulsante, umano, che un approccio rigorosamente analitico finirebbe per frustrare.
 
“MyTunes” racconta la musica come dovrebbe sempre essere raccontata e, ancor prima, ascoltata - cioè sulla pelle - glorificando la capacità delle canzoni di infettare la realtà quotidiana  della magia di cui esse sono impregnate. Passano così in rassegna – in una playlist infinita di cui non siamo soltanto lettori e ascoltatori ma in qualche modo anche coautori – le brancaleoniche imprese giovanili, i turbamenti adolescenziali, gli scoramenti dell’età adulta, le piccole gioie della vita familiare, le promesse incredibilmente mantenute dall’amore e quelle amaramente disattese dal destino. La prosa di Blatto è forbita ma colloquiale, asciutta ma passionale, spesso irresistibilmente ironica, talvolta persino lirica. È l’elemento che fa di “MyTunes” una sorta di romanzo musicale, o perlomeno un affresco corale che raccoglie voci sparse in tempi (le varie fasi della vita di un uomo) e spazi (luoghi geografici, urbanistici e interiori) diversi e le armonizza in un ritratto, sebbene personalissimo, nel quale ogni appassionato di musica può cogliere il riflesso di una parte di sé. Sotto questo profilo, l’operazione compiuta da Blatto – più che giornalistica o critica – è di ordine squisitamente letterario. L’autore interroga le canzoni che racconta come un detective alla ricerca di informazioni segrete, stana la loro anima come un esorcista che - invece di togliere il male dentro - enuclea il bene e lo offre ai suoi confratelli. In altre parole, “MyTunes” è un libro terapeutico: ti cura allo stesso modo delle canzoni di cui parla. Leggetelo e capirete che non siamo noi i pazzi che amano la musica, ma è la musica ad amare noi.
 
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Il sottotitolo di “MyTunes” è “Come salvare il mondo, una canzone alla volta”. Romantico, un po’ ironico ma in fondo anche realista. Perché se è vero che la musica non ha mai cambiato il mondo - nemmeno in quelle frazioni di storia in cui per un attimo è sembrato che stesse succedendo davvero - chiunque la ami visceralmente sa che, il mondo, la musica può realmente salvarlo salvando le nostre vite da un’esistenza asettica. Mi sa che non vale per tutti, però. Insomma, siamo noi che sull’onda emotiva di una canzone o un disco crediamo di essere salvati o è davvero il rock a essere “provvidenziale”?
Entrambe le cose. Non vorrei sembrare una sorta di Padre Pio indie-rock, ma le canzoni sono davvero una delle poche salvezze di questo mondo. Tradiscono difficilmente, aiutano a ricordarti chi sei, ti calmano, contribuiscono a farti correre. Non è un valore da poco. Il rock in sé, come movimento “politico” è stato un fallimento, ma non per colpa sua, a conti fatti era la parte migliore di tutta quell’aspirazione rivoluzionaria di cui sembrava essere soltanto la colonna sonora. Però è rimasto e ci ha migliorati. Io sono un individualista sociale, non nutro aspirazioni così enormi, ma sono molto sicuro di ciò che mi piace e che voglio avere intorno. I dischi, innanzitutto.

Molto spazio nel tuo libro è dedicato al tema dell’adolescenza e al momento in cui siamo costretti in qualche modo a riconoscerne la fine. “Thirteen” dei Big Star, ”Here” dei Pavement, “Fox In the Snow” di Belle And Sebastian sono esempi di canzoni che forse ci mettono in guardia dai nostri sogni ma al tempo stesso ci esortano a non abbandonarli mai davvero. Sono inviti a restare adolescenti, ma – paradossalmente, e questa è la magia – ci aiutano a maturare. Sono una forma di protezione. A tal proposito quello che ti chiedo è: il pop-rock è musica adulta o resta confinato sempre e comunque nella categoria dell’adolescenza?
È l’ingrediente indispensabile per essere adulti consapevoli. Di ciò che siamo stati, anche. E il pop ci aiuta. Non sono un divinizzatore dell’adolescenza, ma è innegabile che in quel periodo ci si formi e che certi entusiasmi non potranno mai più esser così “enormi”. Inoltre, personalmente, l’incontro dorato con molte delle canzoni di cui parlo, è avvenuto in quegli anni. Ma l’innocenza perduta (se mai la si è posseduta) o il candore di alcune aspettative poi massacrate dalla realtà, risiede in certe canzoni “adolescenziali”. "Thirteen" dei Big Star ne è il monumento impareggiabile. Quegli accordi nitidi, l’apparente semplicità, il tornare insieme da scuola (serenità tutta americana peraltro, da noi la faccenda sarebbe molto meno aulica) hanno le dimensioni di un wormhole, il cunicolo spazio temporale che solo la musica sa attivare all’istante. Lì dentro cerco di infilarmi spesso, senza esitazione.

Quello che colpisce dei singoli racconti di “MyTunes” è la capacità ogni volta di intrecciare, come nei contrappunti vocali dei Beach Boys, due linee melodiche parallele ed entrambe indispensabili l’una all’altra: la storia delle canzoni e la loro azione sui piccoli e grandi eventi della nostra vita. Quello che mi incuriosisce a tal proposito è conoscere il metodo che ti porta ogni volta a costruire un tuo pezzo: inizi da un aneddoto personale per poi ricollegarlo al tema (o al ricordo) di una canzone o parti piuttosto dalle canzoni lasciando che il loro flusso ti riconduca nei luoghi della tua memoria?
Dipende dai casi. Inizialmente desideravo scrivere di quelle specifiche canzoni e poi ci incastravo dentro pezzi di me. Ora è il contrario, la parte narrativa ha preso il sopravvento e ha ribaltato la prospettiva. Ricordi e piccoli avvenimenti calamitano pezzi di pop. Credo sia come per i fotografi che non riescono più a guardare nulla senza “inquadrarne” i contorni o le luci: tutto quello che mi succede tira coordinate con il mio bagaglio musicale. Devo dire che soddisfa pienamente la mia parte simmetrica. In un certo modo tutto si sistema, ordino melodie e spicciola autobiografia. Sono diventato la playlist di me stesso.

Hai fatto una scelta di vita coraggiosa. Hai mollato la carriera che ti stavi costruendo dopo gli studi per dedicarti anima e corpo alla tua passione: la musica. Porti avanti un negozio di dischi a Torino (Backdoor) e sei uno dei più stimati giornalisti musicali italiani. Immagino però che tale scelta abbia comportato anche dei sacrifici, penso soprattutto alla sfera economica. Non ti chiedo se è una scelta che rifaresti perché l’amore che trasuda dalle parole scritte in “MyTunes” costituisce già di per sé una riposta perentoria. Ti chiedo piuttosto: cosa consiglieresti a un ragazzo indeciso tra seguire le proprie passioni e inclinazioni – anche se queste potrebbero essere causa di  cocenti delusioni e fallimenti – e accontentarsi di una vita che magari non sente pienamente sua?
Il fatto di aver rottamato i miei successi in Giurisprudenza è stata un’adorabile follia. Istintiva e piuttosto rock’n’roll per come è maturata. Non ti dico l’entusiasmo in famiglia. Ma ho sempre pensato che, per quanto possibile, bisognerebbe trattarsi bene. Vivere delle cose che mi piacciono è stato un lusso che ho provato a concedermi per sempre. Dal punto di vista del prestigio sociale e della solidità economica è stato un meraviglioso suicidio, ma non ti nascondo che suscita sempre un pizzico di invidia, soprattutto tra i miei ex-colleghi di Legge. Detto questo, è bene, soprattutto per quanto riguarda la scrittura, impegnarsi subito a cercare un proprio stile e, soprattutto scrivere molto. All’inizio è un po’ come spaccare legna, ma rimane un esercizio irrinunciabile. Questi, se davvero possiamo chiamarli così, sono i sacrifici. Poi, nel frattempo, moltissime cose sono cambiate e non faccio fatica ad ammettere che una scelta come la mia oggi sarebbe ancor più folle. Tutto molto più complicato. Ma val la pena di provarci, di cercar d’immaginare qualcosa di radioso per noi stessi. La canzone giusta è un vecchio hit minore di una band minuscola, "The Future’s So Bright (I Gotta Wear Shades)" dei Timbuk 3.
 
Sullo sfondo dei racconti di “MyTunes” si staglia la Torino in cui sei cresciuto e in cui vivi. La città sabauda è molto di più che un semplice contesto geografico: è quasi una dimensione dell’anima, dove si incontrano personaggi pasoliniani (Manopola, il cui ricordo associ a “Stay Free” dei Clash) e monicelliani (l’esilarante piastrellista funk malato di James Brown e delle donne di colore), ma anche tanti appassionati di musica che gravitano attorno a una scena culturale che, sebbene col tempo si sia magari affievolita, appare dai tuoi resoconti comunque fervida. Non essendoci mai stato, l’idea che mi sono fatto della tua Torino è di una città particolarmente “musicofila”. Magari mi lascio influenzare dal fatto che altri tuoi illustri colleghi che scrivono di musica abitano proprio nel capoluogo piemontese. Possiamo parlare di Torino come una città rock? E quanto ha contato sulla tua formazione musicale essere nato lì e non in un'altra città italiana?
Torino è ancora una città dove la musica significa qualcosa. In cui ti “rappresenta”. Pur con tutte le sue difficoltà, ha negozi di dischi, club, band e librerie. Valori solidissimi con l’aria che tira. Esser isolati quassù ha spesso contribuito a immaginarci cose che non erano a portata di mano, a voler contare in termini di giudizio critico (la vituperata aria da aristocrazia sabauda), a costruire (retaggio Fiat) e a fare le cose con serietà (caratteristica che adoro). Umanamente, poi, il contrasto tra la presunta freddezza torinese e l’esuberanza dell’immigrazione meridionale ha prodotto eccellenze da commedia all’italiana. Io ne sono schiavo, capto in continuazione espressioni gergali, movenze improbabili, narrazioni iperboliche. Annoto mentalmente e metto a frutto. Ripenso al mio quartiere cattivo, a tutte le anomalie (dis)umane che ho incrociato. Quindi metto una buona colonna sonora e creo la mia cosmogonia privata.

Chiudo con un giochino, così lasciamo ai nostri lettori una tua playlist da ascoltare. Sei tifoso del Toro, una squadra a cui tradizionalmente si accompagnano un certa epica dell’orgoglio e un mitologia della sconfitta che, a pensarci, sono il sale del calcio molto più della prosopopea della vittoria. Se dovessi racchiudere la tua passione granata in una compilation di dieci canzoni, quali sarebbero le tue scelte?
Certe volte vorrei prendere una pillola che mi facesse dimenticare di essere un tifoso del Toro. Gradirei diventare uno di quelli che guardano il calcio come una merda di bue e si rimettono a leggere Dickens. Ma non ce la faccio, nonostante moltissime cose del pallone moderno non mi piacciano per niente e negli stadi sembra che ci sia un door selector addestrato a far entrare solo gli Unni. I calciatori poi, ma possibile che non ce ne sia nemmeno uno che dica una cosa vagamente intelligente? Che denunci delle passioni leggermente più “alte” di suv e orologi da polso? Che non festeggi un gol come un gibbone sotto elettroshock? Santo cielo, che tristezza. Comunque sia, rimarrò granata per sempre, sono quelle dannazioni epidermiche e genetiche che non puoi cancellare. E poi di cosa parlerei con mia madre nell’immancabile telefonata della domenica sera? Quindi, ecco la playlist:

1. Elvis Costello - "Accidents Will Happen"
Perché col Toro ci sono sempre dei guai dietro l’angolo. Sempre. E, puoi star sicuro, accadranno.
Il testo non ha nessun aggancio, ma mi ricorda il Grande Torino. Per il senso incombente di tragedia, la maestosità dell’assolo. Quel gonfiore di pioggia elettrica.

3. Bee Gees - "Tragedy" 
Alleggeriamo l’atmosfera. Un brano da un grande classico degli usati che non vuole nessuno, "Spirits Having Flown". Immancabilmente, durante gli anni Ottanta, quando non perdevo una sola partita allo stadio e, altrettanto immancabilmente le cose si mettevano male, qualcuno dei miei amici imitava il falsetto dei fratelli Gibb e partiva, appunto, con Trageeeedyyy…

4. Ramones - "Blitzkrieg Bop" 
27 marzo 1983, Torino Juventus 3-2. In tre minuti e quaranta secondi infiliamo tre pere alla Juve che stava vincendo 2 a 0. Undici disgraziati contro gente che aveva vinto tutto. A dispetto di quanto mi è capitato di buono nella vita (sono fortunato, ma tendo a diluire le emozioni), questa rimane la gioia più forte e violenta mai provata. Ero allo stadio e ho creduto di morire. Morire comunque felice. Quindi i Ramones e la loro (e la nostra) guerra lampo. Hey, ho. Let’s go.

5. The Cramps - "Goo Goo Muck" 
2006, battiamo il Mantova 3-1 ai supplementari e torniamo in Serie A. Robertino Muzzi saluta la curva in mutande, sopra l’enorme testa di toro che tenevamo sotto la curva, esattamente con lo stesso abbigliamento con cui Lux Interior aveva abbandonato il palco a Torino, l’unica volta in cui ho visto i Cramps dal vivo. Quel Toro, una fantastica armata Brancaleone, è stato l’ultimo che ho davvero amato.

6. R.E.M. - "The One I Love" 
Per Paolo Pulici, il più grande di tutti i tempi. Un campione assoluto. Maciste, in confronto, è un pigmeo.

7. Diaframma e Litfiba - "Amsterdam" 
1992. Finale di ritorno con l’Ajax. Prendiamo tre pali, ci negano un rigore, Mondonico alza la sedia e Cravero alla fine dice che siamo maledetti. Secondo me, ad Amsterdam, non ci torneremo mai più.

8. Antonio Carlos Jobim - "Samba De Uma Nota So"
Per Leo Junior, l’indimenticabile Maestro, che ancora aspetto tiri una punizione e gonfi la rete per noi.

9. The Who - "Who Are You" 
Per Edu Marangon, brasiliano, lo straniero più assurdo che abbiamo mai avuto. Roba da C.S.I.

10. Sly & The Family Stone - "Family Affair" 
La mia famiglia è granata, la maggior parte dei miei amici lo sono. Viviamo a Torino. La Juve è un’altra cosa. Noi siamo del Toro.

Maurizio Blatto su OndaRock

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