MEMORY OF SHO - MUSIC FOR ALETTO (73, 2024)
ethereal
Il duo sardo dei Memory Of Sho (già Diverting Duo) perviene al primo lungo “Music For Aletto”, una collezione di pseudo-canzoni che suonano come meditazioni esistenziali quietamente bislacche, o sfocate Polaroid di fuggenti bagliori nella penombra, o brandelli di collage postmoderni. L’inno anemico su doppio bordone elettronico di “It’s Done” è una personale rivisitazione di armonie gotiche e teatro nipponico antico, e la sala degli specchi di “Uno appare” frange arie d’opera, armonie gregoriane e bolle di disturbi elettroacustici. L’intrico di sibili e distorsioni e impulsi a ripetizione contribuisce a fare di “Nel mare affondare” una Nico sovracuta ma soprattutto svanita, smarrita. Il processo esacerba la dissociazione fino a far implodere la musicalità e deragliare in crisi psichica con “Apparato”, così come per “Sleep Sleep”, mottetto-zombie a due voci per pochissime note-palpito scandite con lentezza snervante. Spesso l’elemento percussivo si accontenta di qualche rintocco proto-elettronico Joe Meek-iano persino sardonico, ma in “Aletto” il duo eccepisce la sua austerità con un passo di bachata che, però, stride con un’insistita fanfara di requiem, l’ultima frontiera della loro particolare arte di chiaroscuro. Non accontentandosi dei traguardi del predecessore, il mini “Life At The Seaside” (2021), Sara Cappai e Gianmarco Cireddu spingono a forza la musica della desolazione di quel tanto oltre i suoi limiti. Risultati: un suono, oppresso da una cappa di bassissima definizione, quasi larvale, e più che mai ossessionato dal canto monteverdiano, e una malferma calligrafia sperimentale. Anche nei difetti dà le basi per un nuovo genere da camera, una forma-Lied senza un nome. Edito dalla lussemburghese 73’recordings, etichetta underground di recente formazione curata da Victor Ferreira e il nostro Bruno “Brianoize” Piscicelli (Michele Saran, 6,5/10)
ANDREA RUGGERI - MUSTRAS (Da Vinci, 2024)
chamber-jazz
Il batterista sardo Andrea Ruggeri giunge a uno dei suoi acuti artistici come leader con il vasto “Mustras”. Lo aprono e chiudono numeri di folk alieno Radiohead-iano, “Early Refrain” e “Anastasia”. “Fornellini d’artificio” incrocia performance assurdista e secca improvvisazione jazz-rock e la breve “Cloe” si fonda su rumori concreti. Il grosso dell’album comprende anzitutto l’arioso invocante e sospeso di “Isidora”, che approfondisce la sua natura lunare mutando in concertino rarefatto per gorgheggi, live electronics e tocchi atonali, un concertino che si ritrova simile e dissimile anche in “Ersilia” e “Ottavia” (qui persino si abbozza un codice electro-marziano), mentre “Argia” suona come un remix glitch caotico di una canzone di Kate Bush. L’altro pilastro, la soffice lenta elegia di “Leonia” - condotta altrettanto lentamente all’esasperazione dissonante -, rappresenta invece il punto critico di tenuta di un’opera che talvolta si prende fin troppo i suoi tempi; fa meglio forse la scintilla di distorsione hard-rock che incendia “Maurilia Reloaded”. D’avanguardia, a volte cervellotico, sentimentale, a volte lamentoso, è il secondo capitolo improntato alle “Città invisibili” di Calvino e concepito ispirandosi ai tessili delle “sas mustras” sarde. Seguito di “Musiche invisibili” (2022), da cui proviene l’originale “Maurilia” qui in veste “Reloaded”, ne è la versione per piccolo ensemble umile ma potente nei suoi esiti innovativi che accorpano più tecniche e più mondi, coi risultati alternati di una vocalist, Elsa Martin, e i testi in più lingue (pugno dello stesso Ruggeri) forse innecessari. Autentico canto sta più nel violino (Simone Soro), nella chitarra (Elia Casu), nelle loro reazioni alchemiche. Immagine di copertina: la stessa Martin. L’esperto Francesco Blasig alla produzione (Michele Saran, 6,5/10)
VERNISE - PUNTI LUCE EP (autoprod., 2024)
neosoul
L’“Intro”, piccolo pastiche-capolavoro di vocalizzi, piano e beat elettronico, fa da matrice al resto. Il processo si approfondisce oppure può lenirsi. L’affabulante ballata eponima “Punti luce” svapora verso l’acquarello astratto contemporaneamente detonando in accensione ritmica. L’r’n’b di “Vorrei” procede per accordi elettronici assordanti e tempi irregolari. Ben incastonati sono i due minuti di svolazzi glitch di “Aura”, a introdurre “Meno rumore”, una dedica sentimentale per pianoforte senza ritmo, in realtà sempre tallonata da cento sabotaggi sonici (solo più subliminali). Debutto per la brindisina Vernise (al secolo Sara Albanese), autrice, cantantessa e co-produttrice (Alessandro Madaghiele e Francesco Barletta a coadiuvare) in forma breve. Troppo breve, come se il timore di un’eccessiva originalità avesse prevalso nella concezione. Di certo ne è uscito un piccolo concentrato di arrangiamenti mutevoli e fuggenti, di scrittura lirica informe, di voce manipolata, sdoppiata, esplosa, una raffinata metafora del passaggio da dolce isteria a matura consapevolezza. Unicum nel panorama italico (Michele Saran, 6,5/10)
PENSIERO NOMADE - ULTIME FOGLIE (Filibusta, 2024)
new age
“Ultimo foglie” di Pensiero Nomade comincia con una riuscita (sia pur breve e troncata) eccezione alla carriera fin qui conosciuta: “Ciò che attraversiamo”, oscillante uggiolio ambient, assolo rarefatto di oud, possente tempo jazz-rock. Il seguito nondimeno avanza nel suo fourth world piano e profondo, innamorato di Sud, tra una “Le regole del vento” in cui il sintetizzatore culla una melodia folk slavica via via moltiplicata su fiati africani e andamento indiano, e una “La distanza delle cose”, nenia soffusa d’estroflessioni luminescenti. Interessanti anche i numeri a contatto con registri di danza: “Fiori al tramonto”, incorniciata da rapidi staccati del violino poi avvitati con la chitarra in arabeschi di suoni, e il passo lento di “Passava un angelo”, dialogo tra le volute di cristallo delle tastiere e il fremere degli strumenti. L’ottavo album del progetto di Salvo Lazzara, preciso, compatto miglioramento di “Un cerchio perfetto” (2021), non solo verte sul doppio rimando tra Occidente e Oriente ma vive anche d’una trasparente osmosi tra invenzione e improvvisazione. Il suo bozzettismo non pregiudica eleganza e cuore all’insegna dei sentimenti autunnali. Vero limite è il calo d’ispirazione, non netto ma papabile, della seconda metà. Colpo gobbo l’aggiunta del violino di Giorgio Finetti (Michele Saran, 6,5/10)
FRØMM - FRØMM (autoprod., 2024)
hyperpop
Dapprima creatura lo-fi del solo Carmelo “karmek” Sciuto con l’aiuto di amici e collaboratori, l’esordio “The Anthropological Imagination” (2023), FRØMM diventa poi un trio grossomodo stabile con l’omonimo “FRØMM”. Il groove creativo funk e space-age di “Pin” viene disturbato ossessivamente da trapunte di suoni casuali di tastiera analogica, mentre quando “Upsong” alza la posta con una sbracatezza quasi-punk, il ginepraio di rumorini si fa quasi caotico. Il canto (svanito) invece domina “3”, comunque anche crivellata di accensioni drum’n’bass e persino una digressione piano-jazz, e in “Plane”, ridotto a un mugolio distorto, raggiunge un matto parossismo. La danza industrial con linea di basso soul-pop Michael Jackson-iana di “Daft Brunch” suona come una centrata parodia dei Planet Funk. Ululati e passo big-beat sono le uniche impalcature di “Terraforming”. “Inferno” vorrebbe fare da lunga, lenta e seriosa disamina di queste canzoni follemente brevi, col suo trapstep 808 e il suo organo “obbligato”: in parte ci riesce, in parte ridimensiona questa breve sfilza di strambo divertimento sui generis mettendone in luce le fragilità artigianali. Il catanese Sciuto, già batterista e scafato frequentatore del glorioso underground siculo noise, assieme ai compari Fabio Musmeci e Gianlorenzo Di Mauro, fa un’operetta elettropop orgogliosamente sottoprodotta, dirompente, quasi incontrollata, eroicamente abbozzata, dissacrante sì e no, spinta - nelle intuizioni di caratura fantasiosa - a tre quarti del processo. Storta e ballabile allo stesso tempo: fondamentale il basso. Riferimenti? Tutti e nessuno, forse un piccolo spettro che va dagli ultimi Devo alla proto-elettronica pop amatoriale dei primi 60. Preludietto (“Intro”), intermezzo (la title track “FRØMM”) ed epilogo (“Outro”) di pochi secondi ma da sentire (Michele Saran, 6,5/10)
PONI BOI - PONI BOI (Rocketman et al., 2024)
punk-pop
Dall’entroterra marchigiano provengono i quattro Poni Boi voluti dal cantante e chitarrista Andrea Marcellini, completati con Luca Regini (chitarra), Luca Detto Bisto Boscolo (basso) e Matteo Benocci (batteria). Né scazzate né aggressive suonano le cantilene pop-core del loro omonimo, più che altro cariche di sciatta normalità, e nessun highlight perviene tra le varie svagatezze surf (“Doppia Xl Fit regolare”, “Fame d’aria”, “Subire il celodurismo”), nemmeno quando capitano un “rama lama” quasi-hardcore come “Bam Bam” e una fitta-assolo nel garage di “Milano-Ancona”. Tipica eruzione entusiastica da album d’esordio punk, di pallottole sparate una dopo l’altra per garantire un coinvolgente livello di pogo, un saldo muretto di gomma da masticare. Più che i testi un po’ intellettualoidi lo percorre un fil rouge di graffiti retrò anni 50. Co-prodotto con Arrosti e Gotta Gallo (Michele Saran, 6/10)
KREKY - TIME RUNS OUT (Romolo Dischi, 2024)
roots-rock
Chiusa la parentesi hardcore-punk dell’Ep “Heat The Rich” (2023), Gabriele Cerchi torna al più confacente stile di “Banner Blindness” (2022) con “Time Runs Out”, un altro set di ballate Aor poderose, tra cui “I’m Not Here” (costruzione elettronica e miglior assolo di elettrica). A svettare però sono forse le canzoni acustiche, “Friday”, “Safe Place” (ma questa di nuovo impennata in un refrain altisonante), “Pua#3” e “Nail Me”, da cui peraltro germina quasi spontaneamente la superba fantasia country-rock di “Pua#2”, probabilmente il picco (senza canto) dell’album. Il cantante e chitarrista romano elide la dicitura della band di supporto (gli Asteroids), difatti riducendo i voli delle tastiere di Jimmy Bax a discrete rifiniture di sottofondo, per riproporsi con slancio appena più personale, da cantautore consumato, in transizione. All’appello, disposte in tutta eleganza dal fido Valerio Fisik, sempre e comunque chitarre di bell’impatto sferragliante (Michele Saran, 6/10)
CEMENTO ATLANTICO - DROMOMANIA (Bronson, 2024)
electro
Il dj cesenate Alessandro Zoffoli diventa Cemento Atlantico per una sorta di exotica ricreata in laboratorio in “Dromomania”. Il singolo “Garawek Khaos” accoppia una cellula tribale data dall’arpeggiatore del sintetizzatore con campioni ripetitivi di canti di giungla. “Kashi Fire” impagina in classico stile house stereotipi persiani (tanpura, tabla, etc), “Tablao” quelli mariachi, e “Via Pablo Neruda” si appesantisce anche del recitato. Il numero più intrigante è il razzo rave di “El Qua Puede Hablar”, con il suo uso suadente e minimale dei sample, scenografico e persino misterico (anche se sembra di sentire poco più di una revisione della vecchia techno britannica dei primi 90). “The Land Of Lions” è un altrettanto affascinante world-techno ma, di nuovo, fondato su fondamenta arcaiche (l’eurodance). Seguito del debutto “Rotte interrotte” (2021). Dotto nelle intenzioni di sofisticato camuffamento di idiomi dal mondo, piuttosto amatoriale e senza colpi d’ala nella sostanza. Denis Campitelli recita in romagnolo “Los carniceros” di Neruda. Ultima performance di Marco Trinchillo (Amycanbe) prima della scomparsa (Michele Saran, 5/10)
FOR THE GLORY OF NOTHING - CAERDROIA (UKhan, 2024)
dark ambient
Preso il nome da un disco dei Tarot, il duo dei For The Glory Of Nothing (Sicilia orientale) esordisce con l’Ep “Garmonbozia” (2021) e prosegue il suo itinerario con il singolo “Cassiel Rising” (2021) e il lungo “Caerdroia”. Rozzi e senza sviluppo suonano sia “Secondo tempo” che “You Are Not”, entrambe fondate sulla ricetta di affogare temini horror vintage in brodi ribollenti di distorsioni o conguagli di percussioni e droni. “The Great Comet Of 1843” si fonda su sintetizzatori tenebrosi alla Badalamenti ma più che altro suona come un accumulo caotico di preset digitali. “An Alarm” e “Caerdroia” fanno germogliare la loro vena melodica, ma “An Alarm” suona come poco più di un tema synth-pop rallentato e senza canto (“Smalltown Boy” dei Bronski Beat). Più originale il pezzo eponimo, quasi un balletto che deborda in psichedelia babelica. “Voss” ricorda ancora per ben 9 minuti cosa non va nell’album e lo affossa. Al polo opposto, 2 minuti di cavatina pianistica in lontananza, “Unglassed Windows Cast A Terrible Reflection”, infinitamente più umile ed evocativa, appartengono a tutt’altro contesto ma avrebbero potuto fare da guida. Proposta oltremodo datata: sincerità a grappoli nella costruzione del clima, ma troppo poco per scrollare la sensazione di sottofondo generico per filmatini social (Michele Saran, 4,5/10)
TONY LEMON - LOVE IN THE MORGUE (Viceversa, 2024)
alt-rock
Proviene da regie e produzioni audiovisive, Antonio Limina, siculo, prima di darsi alla musica rock con lo pseudonimo Tony Lemon. Nel suo terzo “Love In The Morgue” vera hit è “Plagiarized”, un blues “twangy” rarefatto e fisso d’andamento, l’unica a impennarsi nel refrain, ma anche “The Last Call”, allentandosi quasi al grunge, riesce tutto sommato a capitalizzare. “A Marvelous Light” è un rock’n’roll bruto alla “Even A Dog Can Shake Hands” di Warren Zevon, ma senza quella sfrontatezza carismatica, e il ritornello del singolo “A Thug On The Run” suona come uno Springsteen di terza mano. Altre non vanno molto al di là dell’imitazione del post-punk storico: “Won’t You Sink The Knife” (U2), “Quite Hard To Ride Upon” (Joy Division), “Half A Life” (Simple Minds). Più che derivativo e fin troppo eclettico seguito di “Out Of Date” (2013) e “Some Health Issues” (2017), fatto di canzoni spesso costruite sul poco, briciole di riff generici se non vacui. Dalla sua il suono stratificato, specie nel Moog di Ottavio Leo (anche produttore), e qua e là un po’ di tiro dance-punk (Michele Saran, 4,5/10)