LA PORTA ERMETICA - SI SEDES NON IS (autoprod., 2024)
gothic
“Si Sedes Non Is”, atto primo del supercombo romano La Porta Ermetica, si apre con un “Prologus Hermeticus” di 10 minuti, moto ostinato di piano lugubre e gorgheggi spiritati, affresco di sgocciolii dub, serpenti a sonagli e cori spaziali, in una nebbia malefica tentacolare. Gli discende una parata di quadri esoterici di buon spessore: “Sane Occultism”, recitazione asettica su un limo di volani, catene e fumi, “V.i.t.r.i.o.l”, un field recording di sonatina folk orrendamente seviziata dall’elettronica e infine mutata in trance nera, “Thema II”, distorto sermone demoniaco sciorinato sopra un gorgo di riverberi e pigolii, l’eponima “Porta ermetica”, messa nera con sottofondo di registrazione in presa diretta di dannati. Le due tracce di chiusa, appena più estese, in parte ridondano e in parte rialzano la posta della sofisticazione sonica, una “Magnum Opus” fondata su subliminale ma fibrillante pulsazione raga e versi riverberati alla Hope Sandoval e sfogata su un lamento free-jazz di sax, e “Magia Sexualis”, un getto violento di gas progressivamente diradato su un caos boschiano di litanie, disturbi elettronici, cori gregoriani e gemiti erotici. Progetto studiato, ma più largamente improvvisato, da parte di tre navigati musicisti del sottosuolo industrial, Adriano Vincenti, Claudio Giammarini e Devis Granziera, più la vocalist (troppo poco impiegata) Elisa Pambianchi. Pur non esente da sovrappiù d’intenzioni e sovrimpressioni macabre, è il massimo caposaldo - a dirla tutta forse l’unico - della musica misterica italiana degli anni 20, ricolmo di stratificazioni suggestionanti, spesso formidabile nel suo conio d’impressionismo maligno. Riedizione dopo una prima uscita in sottobanco per la minnesotana Phage Tapes, seguito dall’Ep su cassetta “La bugia” (2024) per Deathbed Tapes (Michele Saran, 7/10)DUOCANE - RAMEN (autoprod., 2024)
alt-rock
Detonato un “Teppisti in azione nella notte” (2022), il pugliese Duocane (Stefano Capozzo e Giovanni Solazzo) propone nel seguito “rAmen” un “Poi si pensa”, teso e acido trash-core, un altro dei loro nadir sfuggito al debutto (e anche la cover dei Agent Orange di “Bloodstains” sta lì a ricordare la loro provenienza). Invece, il duo si attenua e regolarizza non di poco col pop-punk canonico nella title track “rAmen”, in realtà una mossa strategica per rimodellarsi in corsa e preparare il colpo gobbo del disco, ossia la loro apertura al multistilismo: la filastrocca funk spezzata da pause brutali e un dilagare di folk psichedelico adornato di violini, “D.o.c.” e i suoi prolungamenti, il furioso raga-rock con sax di “Rosiko” e la cantilena corale con simil-organo cosmico, “Costantino”. Gli choc arrivano a pienezza con il pastiche d’isteria post-Swans d’avanguardia di “Giulio vergognati”, la meditazione rarefatta con esplosione in coro alla Bonzo Dog dei 7 minuti di “Acinino” (che purtroppo non va in caos) e l’ottimo spunto Barrett-iano finale di “La luna giù per il camino”. Opus numero due ma primo a implementare con organicità una piccola orchestra, gli archi di Pino Di Lenne, la fisarmonica di Pierpaolo Mingolla, il vibrafono di Gianluca Luisi, la seconda voce di Mariabruna Andriola, l’elettronica di Andrea Prevignano, due sax (Gianluca Difonzo e Alessandro Vitale) e due tastiere (Enrico Carella e Marco Fischetti). Laddove il primo era un getto istintivo, questo è ragionato con artisticità, anche se non piena maturità (ed è un bene). L’impostazione, compromissoria, dà il salvacondotto a nuovi geniali binomi e contrasti tra chiassoneria e pacatezza, virulenza e riflessività, gaiezza e cupezza. Videoclip di “rAmen” realizzato in stop-motion da Capozzo (Michele Saran, 6,5/10)ALEX RICCI - METE (Freecom/Cosmica, 2024)
world, blues-rock
Cantante e chitarrista di formazione blues, con alle spalle quindici anni di militanza negli Après la Classe e numerosi riconoscimenti raccolti grazie alla tecnica espressa sulla sei corde, Alex Ricci approda con “Mete” al traguardo del terzo album solista. Un lavoro nel quale unisce la sua romanità (i brani scanzonati dal sapore sudamericano - “Ma cos’è”, “Sempre ti porterò” - che si collocano a metà strada fra Mannarino e Daniele Silvestri) a uno sguardo curioso rivolto verso il mondo. Accanto alla maestria blues, alla devozione per le radici, che emerge in “Difendi con i denti”, canzone contro tutte le guerre, si aprono finestre world-music nel breve tropical blues di “Paradise Beach”, nelle atmosfere afro-cubane concepite per “Comu Du Ué Ué”, arricchita dal contributo vocale della figlia Alice che intona un testo costruito con parole inventate, a sottolineare l’importanza dell’elemento suono, allo strumentale conclusivo, “Transumanz”, un omaggio alla sua terra d’origine, l’Abruzzo. Non mancano virate più radiofoniche, nel ritornello di “Capitano”, nell’andatura più rock-oriented di “Adesso lo so” e in una “Dimmi” che accompagna l’it-pop di Calcutta verso la verde Giamaica. La dolce “Capodatri” spinge il blues ad ibridarsi anche con il folk, appoggiato su un sottile strato di elettronica (Claudio Lancia, 6,5/10)ROBERTO MY - A NEW LIFE (I Dischi Del Minollo, 2023)
songwriter
A cinque anni dall’uscita di “Flares” (2018) torna a farsi vivo Roberto My. Malgrado il tempo trascorso e un team di musicisti di supporto totalmente rinnovato, il sound dell’ex Volcano Heart non presenta particolari rivoluzioni innestandosi ancora nella scia di un indie-rock dalle venature psych le cui radici affondano saldamente negli anni 90. C’è innanzitutto l’amore dichiarato per i Dinosaur Jr, la predilezione per quella elettricità acida peculiare del suono di J Mascis e soci (“Every Day”, “Old Photos”), depotenziata delle saturazioni proto shoegaze per aderire all’idea musicale di My. E poi ballate seducenti pervase da sentori Paisley Underground (“Sea Of Quietness”), toni umbratili in odore di Afghan Whigs (“In My Bed”) e tirate chitarristiche sapientemente dosate (“How Many Miles”), che fanno di “A New Life” un disco sfaccettato, costruito con sapienza e capace di tenere vivo l’interesse nell’intero arco della sua mezz’ora abbondante di durata. Ciò che si palesa è soprattutto la raggiunta maturità di una scrittura onesta, sempre più incline a tentazioni pop, e l’efficacia di una produzione asciutta, impreziosita dal lavoro di Danilo Silvestri nuovamente presente in cabina di regia. Una combinazione che non sconfessa le istanze da cui il suono trae ispirazione, ma consente di inglobarle in un lessico sempre più personale e riconoscibile (Peppe Trotta, 6,5/10)KREKY - HEAT THE RICH (Filibusta/Romolo Dischi, 2023)
hardcore-punk
Abbiamo già incontrato Kreky su queste pagine nell’estate del 2022, alle prese con un disco - “Banner Blindness” (2022), condiviso con gli Asteroids - dai toni roots-rock, un incrocio fra l’Aor di Counting Crows e Bryan Adams e l’“heartland” di Springsteen. A distanza di poco più di un anno il cantautore sardo, ma da tempo trapiantato a Roma, torna con un nuovo lavoro a proprio nome, una repentina sterzata verso una forma di punk-hardcore che si lascia ispirare dalle band cha caratterizzarono la scena di Washington D.C. e dalle leggendarie label che seppero creare un’estetica, Dischord e Touch & Go. Tanto per spezzare la tensione a metà corsa la title track rivolge lo sguardo verso il più solare power-punk dei Green Day, un attimino prima di ripartire con l’incontenibile energia di “Ready To Nothing” e “Hyenas”. “Heat The Rich” è un Ep politico, per stessa ammissione dell’autore, dodici minuti aventi come principale obiettivo quello di evidenziare il disagio di coloro che oggi si trovano intorno ai trent’anni, una generazione eternamente precaria. Cinque tracce che esplodono di rabbia, composte da Kreky con il contributo di Giancarlo Bonafaccia, il quale si occupa delle parti di basso. Valerio Fisik ha registrato e prodotto il tutto, oltre a suonare chitarre e batteria. L’amico Andrea Carletti dei Juggernaut ha partecipato ai cori (Claudio Lancia, 6,5/10)CUPEROSE - CUPEROSE (La Tempesta, 2024)
r’n’b
Andrea Privitera, catanese, avvia col fratello Simone alla produzione il suo progetto Cuperose con un corto debutto omonimo. L’aspetto produttivo in effetti aggiunge troppa armatura alle rabbuiate meditazioni in calligrafia post-soul di “Sottovoce” e “Non mi basta più”, un’armatura che persino fa storia a sé in numeri come “Non hai”, in cui sommerge una canzoncina folk con sincopi brusche, tocchi di marimba, archi e glissandi striduli. Paradossalmente è quando la sua voce si fa bisbiglio, vedi “Sospeso”, a imporsi maggiormente: qui la soundscape ne replica e distorce la psiche (tardo Bon Iver e i Massive Attack di “Mezzanine” ovviamente dietro l’angolo), anche se rimane la sensazione che continuino a parlare due idiomi diversi. Dopo un’altra intrusione nel dub-trip-hop (“Abitudine”), “Un giorno in più” sembra dar vita all’unico episodio di gaiezza, ma anche questa si rivela finta, di nuovo commutata in commiserazione con gli stessi procedimenti. Già noto nell’underground elettronico come whoisu, Privitera fa un’opera postmoderna: il nuovo, il soundcloud rap, sfida, revisiona e si frappone al meno nuovo, il sound dei club alternativi di fine anni 90. Non rivoluzionaria ma di certo affascinante, peraltro supportata da una certa quale fibra esplosiva di amalgami folk, acid-rock, trip-hop. In seconda battuta è anche un disco di requiem personale, di sofferenza trasmessa in modo abbastanza originale, in cui è bandito lo svago. Singoli ben scelti, rappresentativi: “Sospeso” (2023), “Abitudine” (2024), “Sottovoce” (2024) (Michele Saran, 6/10)STEFANO BARIGAZZI - WORLD IS MELTING (Fat Sounds, 2024)
blues-rock
Il neobluesman Stefano Barigazzi, chitarrista e cantante, comincia ancora adolescente in duo come Poor Boys. Il primo parto a proprio nome avviene durante la pandemia, quando registra “Sitting Singin’ Old Songs” (2020), raccolta di cover blues, e primo lavoro di suo pugno è l’Ep “Last Desire” (2022). Il debutto lungo “World Is Melting” sfoggia infine il suo pervasivo biglietto da visita “Trembling Bones” (vibrazioni di synth e percussioni a sostenere un inciso a base di fuzz e un canto ruggente in bella evidenza), ma andature tribaloidi di maggior pathos stanno in “Taroundant” e “Mess Confusion”. Una “Drift Away” virata alla chitarra acustica lo equivoca cantore dell’era grunge unplugged, sia pur traviato da disturbi elettronici e contrappunti fitti, mentre il momento davvero dirompente sta forse nella più tradizionalmente rhythm’n’blues, l’eponima “World Is Melting”, di nuovo confusa con tinte psichedeliche di lontana ascendenza grunge. Da Reggio Emilia, luogo di nascita, a Ballarò, luogo di stanza, passando per New Orleans e il Marocco. Tutte influenze papabili, autenticamente fatte proprie, e un tantino scaricate da una messa in piega fonica ordinata, didascalica, didattica persino, propensa a evidenziare fino all’irritazione chitarra e voce e celare i comprimari (e Alessandro Venza, percussioni, in realtà picchietta instancabile). Al contempo il Barigazzi chitarrista, degno rampollo dell’era Mdou Moctar, stupisce per la personale maratona di fraseggi e festoni decorativi - non tanto assoli infuocati - coronata da un piccolo saggio di bravura free-form in testa a “Taroundant” (Michele Saran, 6/10)PEZZOPANE - SEMBRA IERI (Alti, 2024)
songwriter
Francesco Pezzopane, aquilano, confeziona una piccola parata di gioviali ritornelli synth-pop scattanti e dritti al punto nel secondo “Sembra ieri”, da una “Fare gol” che reimpagina la “Felicità” di Al Bano a delle “AmoriAcrobatici” e “Milano” ancor più sicure e contagiose nelle loro strette rime e nel loro ritmo spigliatissimo. A queste si accodano due jingle come “Najoleari” (techno-funk) e “Astronauta” (disco-music), ma c’è anche un colpo di scena nello stornello proto-rap alla Gaetano di “Come un gatto”. Dall’autoproduzione bedroom ruspante del debutto “Storie da monolocale” (2019) al cartamodello a tre a cura di Luigi “Etrusko” Tarquini, Federico “Phonez” Fontana e Camillo “L’Ode” Cecere. Un non frequente caso di umile commentario poetico vitalizzato da una sontuosa cornucopia di strati elettronici, distorti, persino contundenti. Dettagli, scenografie, cura, nettezza, non solo non nascondono il ristagno del pop italiano anni 20: lo ostentano. Co-prodotto con Visory (Michele Saran, 6/10)LOU TAPAGE - NOVECENTO (autoprod., 2023)
folk-rock
Formati a inizio 2000 cioè quando il patchanka italico vecchia scuola ancora vantava cartucce buone da sparare, Lou Tapage partono da un crocevia stilistico-linguistico, il Piemonte franco-ligure, che li porta anche a tributare De André con un “Storia di un impiegato” (2010) ricantato in lingua occitana. Via via quelle influenze si dissipano, fino a un “Novecento” ormai vieppiù garbato, imborghesito sulla lingua italiana e una più tradizionale koinè di revival folk. Il violino di Chiara Cesano e la cornamusa di Marco Barbero, i due assi portanti del complesso, ancora intarsiano stilemi nordici attorno alla fosca requisitoria dell’eponima “Novecento”, l’antibellica “Nuove dal fronte”, la taranta elettrificata di “Militanza danza” e la filastrocca doppia “Valzer del porto”/“Passa dal porto”. Per risvegliare appieno il loro rombante repertorio combat transculturale ci vogliono due collaborazioni: la Mano Negra-esca “Ça Va Sans Dire” (singolo anticipatore un tantino fuorviante) col piccolo maestro Gari Greu e “Vai e Ven” con l’iraniano Afshin Khas. Sesto album del quartetto a parte tributi e live, seguito di “Buone nuove” (2018), di sciolta mestieranza senza pretese (Michele Saran, 5/10)MARCO CANTINI - ZERO MOLTIPLICA TUTTO (RadiciMusic, 2023)
songwriter
Marco Cantini, di Firenze, parte da “Sosta d’insetto” (2010) e prosegue con “Zero Moltiplica Tutto” nel suo revival dell’ormai novecentesca canzone di protesta (“Il declino”) e della non meno vetusta ritrattistica scapigliata (“Milionari di lacrime”), in un tono Guccini-light e con l’usuale luogo comune della scorpacciata di cognomi illustri nei testi. Quasi nulle le intuizioni di arrangiamento, e quando ci sono (lo sprint hard-neoclassico nella più rombante “Ballon d’Essai” che sembra preso da un disco dei Rhapsody) suonano fuori posto. Il cantautore spicca nella più semplicemente acustica (organo e fiddle), la commossa “Aventino”, ma il momento migliore è forse la cover, la “Camminando e cantando” di Vandré/Endrigo. La produzione d’un basico che ci si aspetta dai Vasco e i Ligabue di mezzo toglie anche quel già poco pepe del predecessore “La febbre incendiaria” (2018). Monocorde, appesantito da testi-fiume, enfiato di canzoni. Gli strumentisti a corredo tentano d’impreziosire bizantineggiando (Michele Saran, 4/10)