AUTOSTOPPISTI DEL MAGICO SENTIERO - NARCI SCISMA (New Model, 2024)
progressive
Gli Autostoppisti Del Magico Sentiero aumentano il caos collettivo di “Pasolini e la peste” (2021) con le frammentarie discettazioni sloganistiche del seguente “Erasmus a Kiev” (2022) per il quarto “Narci Scisma”. Il risultato è una babele assolutamente scipita che, però, può essere vista anzitutto come suite con tanto di preludio, “White Cat Happening Revolution”, stornello stonatissimo su sottofondo di gracidii, pulsazioni sciatte e assolo per scordature al fulmicotone. “Il Peyote è una benzodiazepina naturale” è un funk dozzinale ma del tutto al di fuori delle più minime calibrazioni d’arrangiamento, a cominciare dalla voce fintamente empatica, e per di più straziato da fitte di brada elettronica e improvvisazione cacofonica. “Beat Vipassana” e il pezzo eponimo sono invece wasteland senza ritmo per piano o chitarra, fanfare, rumori sub-concreti e svampita rapsodia rhythm’n’blues. L'influenza di “Twin Infinitives” dei Royal Trux, già serpeggiante, si palesa soprattutto in uno dei loro massimi capolavori, “Amisulpride Overdrive”, in cui uno strimpellio pseudo-blues si dimena svogliatamente tra mareggiate di radiazioni sordide, un canto folle e una tromba in lontananza, ognuno per contro proprio ben oltre il concetto di “fuori tempo” anche se poi convergenti, in qualche modo, in una qualche bestiale unità, un montante ritmo tribale isterico. Appena inferiore gli è “Nuovo ordine provinciale”, jazz di strada per pernacchie jug band e ferraglie, in una serie di accordi dementi a ritmo swamp. Il complesso è anche in grado di compattarsi a nemmeno 2 minuti in uno “Narcyswing a cottimo”. Qualche concessione di troppo avviene nell'ultima parte, notevoli “Lettera a un’acciaieria mai nata” (unica reale “canzone”, parodia della vecchia modalità di protesta di fabbrica) e “Il Fentanyl allevia lo stress” (soul-blues Bessie Smith su una fragile allentata ragnatela post-punk). Col finale senza voce “Blues immerso nell'iperico” arriva poi la chiusa memorabile: un ultimo rantolo New Orleans-iano decrepito. Sottotitolo: “La lobotomizzazione del risveglio”, ma è più un’esasperazione del loro stato febbrile. Intensificando senza alcuna vergogna l’amatorialità più scoperta, e irrazionale, il collettivo avalla come non mai un’arrabbiatura post-Marx, per cui l’intero album guadagna il culmine di una nevrosi da elettroshock sul contemporaneo. La salda fede, in tutto il marasma, nei propri cardini armonici e stilistici - blues e free-jazz -, riesce a dotare il loro commentario tragicomico di una personalissima universalità non per forza veicolata dalle parole, peraltro cantate e incise che neanche un principiante. Musica in opposizione per quelli che un tempo si chiamavano “graffiti”, anche se adesso parlano digitale e social. Nuova scorpacciata d’ospiti e collaboratori attorno al duo Citossi-Polentarutti orchestrata alla produzione da Martin O’Loughlin, suonatore di yidaki (Michele Saran, 7,5/10)MANUEL PISTACCHIO - PELLEGRINO (Brutture Moderne, 2025)
alt-pop
I tre romagnoli Manuel Pistacchio pervengono a “Pellegrino” vantando subito due numeri di sfondamento: lo stomp narcotico dell’eponima “Pellegrino” e il surf’n’roll alla Fleshtones di “Solo sete”. “Parole” riproduce con successo l’espressionismo post-punk gracile di Violent Femmes e Young Marble Giants. Più personali sono quei quadretti che da novelty “puntiniste” come “Solo per amore” conducono a uno ska-rocksteady svanito, “fumato”, retto solo da qualche tocco di congas, come “Onda dopo onda”, o un folk palpitante come “Fili invisibili”, o una serenata dimessa come “Fuochi d’artificio”. Alla fine le percussioni spariscono del tutto in “Ma io corro”, pur alimentata da una subliminale carica samba. Terzo di una successione di album corti cominciata con “Di primo mattino” (2019) e “Scordato cuore” (2021) e forse il più efficace nel rifondare con classe l’it-pop, sempre con la medesima concisione d’epigramma inclusi testi ermetici dove, però, arrangiamenti a effetto - rarefatti ma carichi di bizzarrie - parlano spesso più dei singoli lemmi. Campioni di schiettezza riveduta d’introversione. Incertezze nel melodismo (Michele Saran, 6,5/10)NERVI - E POI SVEGLIARSI PRESTO (Boc Music, Pioggia Rossa, 2024)
indie-pop
Elia Rinaldi è un cantautore toscano con alle spalle una solida gavetta nell’underground fiorentino, trascorsa alla ricerca di spazi vitali utili per poter crescere, fra contest e concorsi, come quelli di Controradio, il Primo Maggio Next, Musicultura, e persino l’edizione 2022 di X-Factor. L’esordio discografico, subito affrontato con lo pseudonimo Nervi, risale ad inizio maggio 2020, nel bel mezzo della pandemia, grazie al singolo “Sapessi che cos’ho”, al quale l’anno successivo, in epoca di distanziamento, ha fatto seguito un mini-album di otto canzoni, “Un tipo timido”. Grazie a “E poi svegliarsi presto”, Nervi si mette alla prova su una durata più consistente, undici tracce per quaranta minuti di musica, nei quali abbraccia un interessante mix di stili, passando dal glam molto Lucio Corsi di “Lady Tristesse” all’andatura blues guidata dal piano di “Blues del Nove7”, dai toni riflessivi ed introspettivi di “Forse siamo troppo magri” ad altri più energicamente rock (“La vita dei sogni”). Fra ironia (“STOMALE”) e ritmi incalzanti (“Bevi troppo”), Elia innesta l’autotune in “Non ho sete”, che fa molto urban r’n’b à la Venerus, e qualche frangente più romantico, come nella malinconia acustica della title track, in duetto con Juma. Nervi mostra di aver studiato il songwriting di Daniele Silvestri e Giovanni Truppi, lo si capisce dall’impostazione di “Ciò che non uccide ferisce”, e disegna i propri scenari indie-pop ben arrangiati in “La noia mortale” e “Quanto è difficile amarsi in una grande città”. Attualmente in tour alla guida di una band affiatata, si impone fra le più interessanti novità del giovane cantautorato italiano (Claudio Lancia, 6,5/10)ALESSIO BONDÌ - RUNNEGGHIÈ (Maia, 2024)
songwriter
Dopo il tour di “Maharìa” (2021), suggellato anche dalla partecipazione della Tatum Art Orchestra di Alessandro Presti e così immortalato in un album live (2022), Alessio Bondì affoca come mai prima la ricerca sulle proprie radici sicule con la partecipazione al collettivo Lero Lero, un discorso al Parlamento Europeo in difesa della lingua siciliana e poi con il quarto “Runnegghiè”. Lo annuncia “Tammuru”, un cantico di melodrammatico satiro dialettale fatalista, con i cori e il battito sordido a farlo esplodere in fanfara di corteo funebre paesano. Ancor più coerentemente, una delle più terrestri folk è poi “Cascino”, tutta grancasse e frustate, disintegrata da droni spettrali dissonanti. Il refrain di quel tanto commerciale di “Fiesta nivura” in realtà si fonda su un carnevale di percussioni e qualche orologeria aliena di sintetizzatore. Due momenti di ossequio tradizionalista portano l’operazione al limite dello spreco di risorse: la serenata di “Taddarita” e la pizzica di “Santa Malatia”, in gloriosa schizoide progressione. Eppure, soprattutto in pezzi come “Satarè”, perla dell’album, e “Runnegghiè”, ode solenne chiusa da un’ultima danza, s’impone la sensazione di nuovo “Creuza De Ma” (conguagli di saltarello, giga e tarantella, ritmiche impressioniste, coralità espansa). Nel formato consueto della raccolta di ballate si cela un’insolita operazione revisionista sul folk condotta da un’orchestrina di otto elementi, ben spalleggiata dalla regia di Fabio Rizzo, con qualche strumento ricercato preso dal territorio (chitarra saracena, chitarra palermitana, batteria rituale, tamburi a cornice) e una rifinitura elettronica. Emette in diversi registri: lamentoso, caustico, elegiaco, arrabbiato. A non spostarsi è una vocalità, quella di Bondì, che qui necessiterebbe di qualche grado di pathos in più. Il più sentito album dell’autore e uno dei suoi più felici. “Cascino” era il “pozzo della morte” di Palermo. “Runnegghiè”: “dove capita” (Michele Saran, 6,5/10)TIPOGRAFIA SONORA - TIPOGRAFIA SONORA (51 Beats, 2025)
chillout
Tre strumentisti di livello provenienti dal marchigiano (Michele Duscio, Leonardo Francesconi e Francesco Savoretti) s’incontrano per omaggiare l’opera del conterraneo fotografo M. Giacomelli (1925-2000). Il loro omonimo “Tipografia Sonora” è così una sorta d’impressionismo ispirato e orientato al post-naturalismo del maestro. A parte “Rami spogli”, piccola sonata pianistica new age, i momenti meglio organizzati sono “Testa tra le nuvole” (spunti di esplorazione cosmica remixati da beat insistente e florilegi di piano) e “Spazio tempo luce” (tratto Jarre con chiusa trasfigurata). In realtà non c’è grosso scarto tra questi e i più sempliciotti “Grano”, dal feeling Boards Of Canada, e “Solchi e cicale”, di compostezza classicheggiante. Gli ultimi due espongono l’orologeria ardimentosa del ritmo e pervengono a qualità quasi allucinogene: “Contrasto”, quasi un assolo incastonato sul fraseggio spezzato alla Jarrett del pianoforte, e “Viale alberato”, una “Insensatez” di Jobim remixata da una cadenza di palude e accarezzata da cori di sirene. I gradi di originalità di quest’opera sgorgano soprattutto dagli spunti jazz timidamente mimetizzati. Album di sottofondo con ambizione poetica, sommesso ciclo di bozzetti strumentali in bianconero, manca di calore tanto quanto gli scatti di Giacomelli mancano del colore. Semmai eccede in tecnica mista (le registrazioni parlate, per fortuna non molte, disturbano). Scatto della serie “Presa di coscienza sulla natura” (1975-85) in copertina (Michele Saran, 6/10)SAX THIS CANDY - GOD IS MY WITNESS (Grammofono Alla Nitro, 2024)
alt-rock
Pescaresi, i Sax This Candy cominciano in quartetto (il frontman Fabio “Artista Sadico” Di Zio, il chitarrista Ivano Ursini, il bassista Giannicola D’Angelo e il batterista Timmy Romano) con il primo “Guide To Physical Pain” (2016), forte di alcune buone prove di punk sex-gotico Cramps-iano (“Lovesongs Are Dead”, “Damnatio Memoriae”, “Nickname Stc”). Ben otto anni dopo “God Is My Witness”, nonostante perda Romano per una drum-machine (o forse proprio grazie a ciò), rilancia la medesima insistente morbosità a tratti persino parodiandola come in un cartoon, ad esempio nella martellante “Dead End”. Due episodi impepati da theremin e timpani accentuano le dimensioni scenografiche e atmosferiche del loro verbo: il sabba orchestrato tra Doors, Residents e Bo Diddley di “Hungry Moon” e la danza vampirica spartita tra Ennio Morricone e Captain Beefheart dell’eponima “God Is My Witness”. A margine ma sempre ben graditi si situano il più umile rockabilly licantropico di “Liquid Love” e il più barocco bolero persiano corale “Highroller”. Album coinvolgente di maestria e passione, non di rado capace di rivolgere il post-punk storico come un calzino. Ha un certo qual limite, paradossalmente, nell’eccesso d’eterogeneità: alcune si sbrodolano addosso rigurgiti disco (“Eat My Shit”, “Human Piggy Banks”) o pop retrò (“Chewingum”). Co-prodotto con Vina Records (Michele Saran, 6/10)CONROI - BLUES ROSA (autoprod., 2025)
noise-pop
La sigla Conroi di Marco Ciafarone (Lanciano) inizia con un omonimo “Conroi” (2022) dedito a un folk-rock “loser” alla Beck di corpo variabile e struttura articolata, quasi progressiva. Nel seguito “Blues Rosa” Ciafarone rifà interamente la formazione e opta per un approccio più lineare e melodico, pur mantenendo fede al sound di partenza. Le prime quattro canzoni danno una doppia progressione di pari passo sia verso l’elettrificazione e sia verso il canto anglofono, anzitutto con “Sai”, flusso di coscienza Pavement-iano indolente e logorroico, docilmente strimpellato ma a suo modo incontenibile, e poi col sing-along in stile Pixies disturbato e fratturato di “Suzanne”. “Rocksteady” si fonda su citazioni di lusso, la base ritmica della “Halleluwah” dei Can e il fuzz scazzato-lisergico dei Califone. Altre chicche si trovano nell’inizio tribale di “Lontano” e nel finale corale di “Darlin’ Dana”. “Pam e Gerri” riavvolge il nastro all’insegna di una maggior aderenza alla forma-canzone in italiano, ma ad attestare l’innalzamento delle capacità autoriali di Ciafarone c’è piuttosto “Che altro”, ballata piano-voce degna dei cantautori italici più pensosamente intellettuali (Conte e simili) pure nobilitata da stecche e armonie sfatte. Qualche ridondanza di troppo in questo conglomerato artistoide senza gran filo logico ma fatto fluire con grazia e qualche tacca d’esplosività da Marco Fasolo alla co-produzione (menzione speciale per il canto tenuto imploso). Godibile esterofilia ben esposta, al di qua delle transenne della zona derivazione, corretta con specifico nostrano. Artwork basato su B. Munari (Michele Saran, 6/10)ANIMENUDE - MADE IN SECONDIGLIANO (Popcore, 2025)
r’n’b
Formati nell’immediato dopo-Covid, i tre Animenude (vocalist, chitarra, elettronica, ma senza identificazione) debuttano con un “Made in Secondigliano” che già dice molto nel titolo. Il disco regge qualche numero. “’a malatia ‘e l’ammore” suona come un remix del neomelodico, ma la miglior centrifuga di cantabilità partenopea sta in “Promesso”. La quasi-hit “Walking On The Moon” e la più drammatica “Mariuolo” optano per il vecchio soul blue-eyed. “Anestesie” e “Seduto alla fine del mondo” si ammodernano sul trap-pop, come pure il rabbuiato booming di “Sereamare”, anche se sembra di sentire poco più del primo Tiziano Ferro. Supportata da stoffa melodica di discreta qualità e una certa competenza, è una cartolina a tinte pastello della Campania patchanka-dialettale-posse-elettronica che fu. Avvertenza: se si chiede di suonare “musica di Animenude” l’assistente virtuale restituisce porno nipponici (Michele Saran, 5,5/10)KOROBU - K FOR KEY (Locomotiv, 2025)
new wave
Successore dell’interessante “Fading Building” (2022), il secondo “K For Key” dei Korobu, Bologna, si apre con una “Love Love Love” che potrebbe invece essere vista come una sorta di manifesto di un possibile nuovo corso (pop-cantautoriale), come un Daniel Johnston costretto a performare tra orchestrazioni un po’ esose di wall of sound melodrammatico, e nondimeno si chiude con una “Park” che volge la “Riders On The Storm” dei Doors a cantilena evanescente. Dimessa, jingle-jangle vecchio stile e leggermente accentata da ska in levare suona “Sex Toys”. Altro camuffamento sta in “Velvet Decadence”, appunto un usuale ballo decadente pur ben scandito. Il passo panzer e il canto zombie di “Cavalcade”, sorta di power-Talking Heads, invece riagganciano il debutto anche se vieppiù rievocando il vecchio modaiolo punk-funk primi anni 2000. Da terzetto a quartetto con l’aggiunta del nuovo chitarrista Pablo Quirici ma l’insieme è paradossalmente e anche più di prima una creazione del leader De Sanctis, qualcosa di piuttosto evidente per due terzi di album (su tutte “Here”). Non sarebbe un reale problema se perlomeno potesse vantare maggior sostanza e meno confusione. Il rinomato Igort per l’immagine di copertina (Michele Saran, 5/10)GREATWATERPRESSURE - PASSO ZERO EP (Spotless Music, 2025)
funk
I produttori e multistrumentisti Edoardo Grimaldi e Gabriele Prada fondano il collettivo nu-funk greatwaterpressure per i primi singoli “Weekend” (2023), “Ancora un attimo” (2023), “2c2s” (2024), “Ombra fragile” (2024) e “Panda blu” (2024), poi raccolti nel mini “Starting Five” (2024). A questi si aggiungono i numeri del primo Ep “Passo zero”, tra cui lo smooth garbato di “Supersenzapiombo”, i citazionismi r’n’b vecchio stile di “Topo di città”, il fiacco ricalco disco di “1m9g”. Niente o quasi si salva dal sofficiume plasticoso per happy hour del duo milanese accorpato da un corredo di cinque musicisti pure preparati, né i suoni, né i groove, né ancor meno melodie e testi, forse solo la stretta osservanza ai canoni di genere. Allunga il minutaggio una bonus cantata dall’ospite Federica Carobene (“No Matcha/Da soli”) (Michele Saran, 3,5/10)
15/03/2025