ORLANDO MANFREDI – Storifilìa (2019, Unidad Mexicat)
songwriter
“Storifilìa” è il terzo album del cantautore, drammaturgo e attore Orlando Manfredi. Un disco con il quale il musicista torinese torna ad indossare i panni dello storyteller navigato e sempre attento alle dinamiche di tutti i giorni e, parafrasando Pirandello, a quei “personaggi in cerca d’autore”. Per l’occasione, Manfredi rimette al centro del proprio sguardo una narrazione intima, e lo fa attraverso un’impalcatura strumentale delicata, saggiamente organizzata in quello che si potrebbe simpaticamente definire come una sorta di “folk da cameretta”. Chitarre mai invasive, bassi sferzanti e una goccia di sana ironia sono gli ingredienti di un album riuscito (si prenda da esempio “Il Cavaliere inesistente del lavoro”). Tra una storia di vita e l’altra, un dramma sociale (“Clandestino piedibus”) e un passato granitico di un Belpaese allo stremo (“Bottleneck”) il cantautore piemontese viaggia su binari unici, fuori dal tempo e da ogni hype possibile (“Infinita mia”), dando vita anche a svariate ballate romantiche nelle quali la scrittura ermetica non super mai gli steccati della forzatura, il tutto con melodie calibratissime e refrain (av)vincenti. La candidatura alle Targhe Tenco 2019 nelle categorie “miglior album” e “migliore canzone” con il brano “Rosetta” è solo il primo dei giusti riconoscimenti di un’opera particolare, a suo modo un vero e proprio unicum nella scena cantautorale italiana odierna (Giuliano Delli Paoli, 7,5/10)
LAROCCA – Ventizerotre (2019, Place To Be)
songwriter
Domenico Larocca si presenta al mondo, musicale e non, tramite “Ventizerotre”. Tra due autoritratti, “Libero”, elenco programmatico alla maniera di Guccini ma sdrammatizzato da umori e inserzioni circensi, e una “La mia vita improvvisata” Vasco Rossi-iana solo nel titolo, Larocca si guarda dentro, indietro e avanti in altrettante sezioni, distinte ma coerenti in quantità di sentimento. L’area delle dediche amorose (“Presto o tardi”, “Contorni”) tradisce l’influenza dei Pink Floyd, anche nelle rifiniture, in una forma-suite di canzoni che sfumano una nell’altra. Per le invettive sarcastiche contro la società dei costumi adotta registri più robusti, specie nell’insidioso boogie-blues alla ZZ Top di “Tutti uguali”. Nei racconti di famiglia Larocca si (ri)scopre semplicemente cantautore, da “Ventizerotre” al picco di dramma, “Non sarà”, culminante in un urlo sperso in tifoni cacofonici. Larocca, cresciuto nelle Murge e adottato dal milanese, debutta con un esercizio di biografismo i cui non indifferenti meriti (qualità del suono, grande cura d’insieme, vivide concertazioni) e vaghi demeriti (un eclettismo che talvolta sa di didascalia) vanno attribuiti al direttore artistico, multistrumentista e compositore Carmine Calia. Sua al settanta percento la sceneggiatura musicale in questo mosaico di vita senza opacità e con amarcord in sovrappiù che non aspira all’universalità, semmai a rinforzare con gloria la propria confidenzialità. Edito da Place To Be Records – uno dei progetti del collettivo Murgiahub –, patrocinato da Puglia Sounds, Teatro Pubblico Pugliese e Regione Puglia. Singolo e video: “Contorni” (Michele Saran 6,5/10)
SAD CLOWNS – Stains (2019, autoprodotto)
indie-rock, alt-pop
Dopo l'Ep “Lotus Spring”, uscito due anni fa, per i cosentini Sad Clowns è arrivato il momento dell’esordio su lunga distanza, con le undici tracce che formano “Stains”, un lavoro in costante equilibrio fra malinconia (“Hymn Of The Fugitives”) e rabbia (“Old Book”). Il progetto è stato costruito con in mente un’estetica disposta ad accogliere un arcobaleno di colori, che compongono un ventaglio che va dai chiaroscuri degli Alice In Chians (“Acid Rain”) alle esplosioni energetiche degli Arctic Monkeys (“The Girl Who Belongs To Many Boys”), senza mai disdegnare aperture pop-rock decisamente radiofoniche. Un pagliaccio triste che cerca vie di fuga verso la luce, pregno di una sana elettricità che preme per invadere tutti gli spazi possibili, fino a una ghost track che riesce a fondere chitarre ed elettronica in maniera assolutamente naturale (Claudio Lancia 6,5/10)
LEDA – Memorie dal futuro (2019, Il Piccio)
alt-rock
Dalla collaborazione tra la cantautrice Serena Abrami, il chitarrista Enrico Vitali e il paroliere Francesco Ferracuti nel secondo solista di Abrami, “Di imperfezione” (2016), scaturisce l’idea di un vero complesso, i LEDA, completati con il basso di Mirko Fermoni e la batteria di Fabrizio Baioni, già con i Drunken Butterfly e poi solista a nome Cirro per un primo “Sequoyah Teeth” (2018). Il risultato, “Memorie dal futuro”, parte a bomba con una prodezza di Vitali, i versi animaleschi dei distorsori e i feedback arroventati in “Ho continuato”. Dopodiché già con una più quieta “Distanze” la temperatura si abbassa e l’epica passa il testimone al canto di Abrami, una Mara Redighieri ancor più svanita e distante (“Pulviscolo”, “Assedio”, “Deriva”, “Solchi”), persino filtrata in senso psichedelico (“Tu esisti”), anche se “Nembutal” vanta la miglior digressione spaziale del disco, forse anche il suo baricentro. Il combo di Macerata debutta con un disco stiloso di monocorde metafisica fondato viepiù su ritornelli aforistici (“E non dici niente/ senza dire niente”, “Tu che sei in fuga da tutto/ per non scappare da niente”). Qualche ingessatura estetica da pose alla Csi – su tutte la finale “Il sentiero” cantata con Marino Severini dei Gang – non cancella i meriti da opera prima d’indiscutibile comunicatività lirica, ben insaporita anche dal lavoro all’elettronica di Abrami e Baioni, e qua e là punteggiata dal violoncello stridulo e sfuggente di Giuseppe Franchellucci (Michele Saran 6/10)
AGNELLO – Il Minotauro Ep (2019, Garrincha)
pop, songwriter
L’EP di questo quintetto contiene solo una canzone inedita, ovvero la title track, mentre gli altri quattro brani erano già stati pubblicati in precedenza. I cinque si muovono su coordinate stilistiche a metà tra il pop e il cantautorato, con sonorità, timbro vocale, linguaggio e tematiche trattate che si inseriscono in pieno nel filone della cosiddetta nuova scena cantautorale italiana, che poi ormai nuova non lo è più. Troviamo, quindi, l’ormai classico suono zuccheroso, un cantato che si cura di grazia e precisione fino a un certo punto e una narrazione basata su un’introspezione da cameretta. Niente di nuovo sotto il sole, in definitiva, e la sensazione è che questi Agnello siano un po’ in ritardo per riuscire a prendere il treno e che di davvero loro ci mettano poco o nulla. Nemmeno la collaborazione di un artista navigato come Nicolò Carnesi nell'ultima canzone eleva il livello. Non li bocciamo perché al primo vagito le melodie sono comunque piuttosto a fuoco, si percorrono diverse strade dal punto di vista degli arrangiamenti, utilizzando abbastanza bene il sax, e c’è una discreta perizia nell’armonizzare i suddetti con il timbro vocale; certo è che dovranno fare di più in futuro per poter risultare un ascolto interessante (Stefano Bartolotta 6/10)
MEGÀLE – Imperfezioni (2019, Area51)
dream-pop
Cresciuti musicalmente in più di qualche progetto, la cantante e sassofonista Stefania Megale e il chitarrista Francesco Paolino concentrano le rispettive forze in Megàle e “Imperfezioni”. La canzone eponima evoca una Mina alle prese con una reinterpretazione orchestrale dei tardi Üstmamò: ne esce un inno sostenuto, severo e a tratti apocalittico. I pezzi partono da un’anima acustica per poi avvilupparsi (anche corrivamente) di strati d’arrangiamento, come “Stato di quiete” ma in maniera pure più calcata in “Scarsa scarsissima personalità”, debordante involontariamente nella disco-kitsch della “Splendido splendente” della Rettore; “Dormi veglia” invece ottiene un qualche nuovo effetto di grandiosità. Più carica di suggestioni terzomondiste, dunque più suggestiva, la trilogia finale: “Mormora la luna”, d’un chiassoso impressionismo tuareg, la lunga “Viaggiatori onorici”, aperta e chiusa da amene vocalizzazioni, e il galop di “Sull’acqua”, con gran finale, ma la sensazione rimane la medesima: voce e suoni sembrano parlare due idiomi diversi. Esordio con titolo appropriato per il duo del bolognese, rodato dal vivo in solitaria a partire dal 2017, al contrario riversato su disco con una stroppiante pletora di strumenti e ospiti diretti da Angelo Epifani e Rocco Marchi neanche fosse una sinfonia: imperfetto, anche per via del canto di Stefania, lirico e forte, però inadatto a reggere una forma-canzone flebile e pure offuscata. Considerando il punto di vista atmosferico anziché quello narrativo, diviene comunque un disco solido sulla scia degli Albergo Intergalattico Spaziale, dunque con una sua vena ecletticamente spirituale, ma la cui paternità va più ai comprimari, due batterie, Enzo Cimino e Simone Cavina, due violini, Laura Comuzzi e Vienna Camerota, più contrabbasso, chitarre, percussioni, elettronica. Quasi una passerella di bravura (Michele Saran 6/10)
SATOYAMA – Magic Forest (2019, Auand)
third stream
Dopo l’autoprodotto “Spicy Green Cube” (2015), Christian Russano (chitarra), Gabriele Luttino (batteria), Luca Benedetto (tromba) e Marco Bellafiore (double bass), in arte Satoyama (nel 2013 la fondazione), proseguono la propria ricerca con altrettanta pacatezza e melanconia in “Magic Forest”. Tanto che “Aral” da adagio di quasi danza diviene, anche rimarcato da una vocalizzazione corale di chiusa, vera marcia funebre, e l’altrettanto mesta “Sovation” dischiude un solo di contrabbasso che sembra volere il silenzio più che un qualche fraseggio. Altri assoli interessanti stanno in “Leave” e “Melting Point”, una chitarra ammantata di stelle. I brani più estesi (“Magic Forest”, “Winter Rise”) adottano stereotipi da meditazione new age e sottofondi per ballad. Timido improvvisatore ma affiatato imbastitore di melodie, il quartetto di Bisceglie conduce un elegante mix di post-bop e post-rock in cui la cocktail-lounge si unisce con efficacia all’armonia decadente e alla musica da film. Non sfruttato il piccolo momento d’avanguardia elettroacustica in apertura: “Plastic Whale” (Michele Saran 6/10)
/HANDLOGIC – Nobodypanic (2019, Woodworm)
neo-soul
Lorenzo Pellegrini, voce e chitarra, Leonard Blanche, tastiere, e i fratelli Cianferoni alla sezione ritmica, Alessandro al basso e Daniele alla batteria, tutti di Firenze, debuttano come /handlogic con un Ep omonimo (2016) con cui vincono qualche contest, che peraltro si fregia di remix a cura di eminenze del rock italico (Alberto Ferrari, Andrea Appino, Giulio Favero), poi raccolti nel mini “Remixes” (2018). Il disco lungo a seguire, “Nobodypanic”, a conti fatti non contiene granché di rilevante: un’autentica hit, “Supernatural” (tour-de-force di produzione e calvario vocale a passo maestoso), un tentativo di decostruzione dell’r’n’b vecchio stile attraverso stereotipi acid-jazz, “Communicate”, e una luminescente quasi-reggae “Gratitude”. Il solo Pellegrini spadroneggia: scrive, produce, remixa, e soprattutto ideologizza tramite un gradiente stilistico-vocale Thom Yorke-iano che s’insinua nei pezzi e s’intensifica via via verso la chiusa, che non a caso è una cover e pure paracula (“Paranoid Android”). Quando la personalità del gruppo sguscia dalle gabbie n’esce una preghiera doo-wop niente male (“Long Distance Relationship”). Come sottofondo è uno dei più interessanti in circolazione (suoni sinuosi, stereofonia affilata, armonie vocali svolte a regola d’arte), ma il disco è profondamente inamidato. Per fedeli dell’arte femminina (Michele Saran 5,5/10)
VIKY – Tra le mie coste Ep (2019, autoprodotto)
songwriter
Il bergamasco Viky Rubini debutta come Viky Twisterman con “Resilienza” (2015) e poi, con gli stessi intenti, fonda gli Àwaré per un primo singolo, “Un minuto di ascolto” (2017). Dopo essere passato per la narrativa (primo romanzo: “Il filo di Arianna”, 2016), Rubini ricomincia ancor più solista a nome Viky con un Ep, “Tra le mie coste”. Diverse cose non vanno, a cominciare dal concept risaputo (naufragio emotivo). Troppo spartanamente esosi gli effetti digitali che lo percorrono da capo a piè, cioè da “Intro” a “Outro”, troppo contrastanti con la pochezza delle idee musicali. Altra stonatura emerge in ballatine patetiche: “La Zattera” suona più come una poesia incurante di trovarsi in un contesto di canzoni, quasi inesistente nell’arrangiamento, che come costrutto musicale finito. Solo il folk di “Quando la tempesta” si nutre di un sentore a tratti espressionista, con un ritornello urlato e ventoso. Influenzato ma anche plagiato dalla trap, questo fruttino acerbo inclina alla confessione osando poco, pure in maniera diseguale. Qualche ambizione nella struttura pseudo-romanzata e nella dipintura atmosferica oltre il melodramma sentimentale convenzionale (Michele Saran 5/10)
LAPINGRA – Amore e soldi (2019, Bassa Fedeltà)
alt-pop
I romani Lapingra, ridotti al duo fondatore Angela Tomassone-Paolo Testa, si ripresentano dopo una pausa di quasi tre anni dal gioiellino “The Spectaculis” (2016) con “Amore e soldi”. Una grossa delusione; il progetto sembra poco più del soprannome per un progetto solista di Tomassone con cui togliersi alcuni sassolini sentimentali dalla scarpa. Filastrocche come “Amazon” (ricalca “Tu non mi basti mai” di Lucio Dalla) o “Sabato” e ballate come “San Calisto” non hanno alcunché della loro proverbiale stralunata inventiva e del loro lirismo dadà. “Porco mondo” e “1993” suonano carucce e ben confezionate, ma nulla di innovativo nell’era di M¥SS KETA, coma_cose e della trap. La beffa oltre al danno sta in una manomissione non da poco: l’eleganza retrò poliglotta volge di netto ad atteggiamento furbescamente alla moda. Album-svendita abbellito tuttalpiù da qualche orpello. Co-prodotto con Artist First (Michele Saran 4/10)