Negli anni 80 i giovani erano ancora disoccupati e incazzati, ma preferivano andarsi a sfogare in discoteca
(George Michael)
Qual è il miglior antidoto all'inflazione di docu-film musicali che sta caratterizzando questi ultimi anni? A occhio, se ne individuano due: riuscire a raccontare in modo fedele e originale la storia di un'artista (come riuscito, ad esempio, a Brett Morgen con David Bowie in “Moonage Daydream”), quindi tentare di allargare la prospettiva, sfruttando la vicenda musicale come pretesto per raccontare una storia o come chiave di lettura per decifrare un'epoca. “Wham!” di Chris Smith (disponibile su Netflix) centra con disinvoltura entrambi gli obiettivi. E non è un caso che abbia incassato numerosi apprezzamenti anche da parte di non-fan del duo inglese, persino da parte di chi, all'epoca, aderì alla vulgata ufficiale di certa critica, secondo la quale gli Wham! erano poco più di un'innocua boy-band usa e getta, se non addirittura l'epitome di tutti i mali dei fatui Eighties. Non è un caso anche perché, a vederla maliziosamente, è proprio a loro che potrebbe essere dedicata questa storia, che, naturalmente, racconta tutt'altro. Dei protagonisti e di un decennio intero.
“Wham!” è la storia di un'amicizia, anzitutto. Quella tra Andrew Ridgeley e Georgios Kyriacos Panayiotou, noto in futuro come George Michael. Un'amicizia nata ben prima e proseguita ben oltre il quinquennio di vita degli Wham!. I due si conoscono nel 1975, tra i banchi di scuola della Meads School di Bushey, nell'Hertfordshire. Andrew, di un anno più grande, assume ben presto il ruolo di guida per il “piccolo, strambo e timido amico” che chiama affettuosamente Yog. Un ruolo che – a dispetto del luogo comune – manterrà anche negli Wham!, sostanzialmente una sua creatura, come gli riconoscerà il compare, dotato però di un talento superiore che presto l'avrebbe portato a oscurare lo stesso nome del gruppo e ad avviare una carriera solista.
Accomunati dalle origini straniere - Ridgeley è mezzo egiziano, Panayiotou è greco-cipriota - i due cementano la loro amicizia sulle affinità musicali, dall'Elton John di “Goodbye Yellow Brick Road” al Bowie alieno di “Ziggy Stardust”. Con sbocco nell'immancabile band scolastica, The Executive, formata insieme al fratello di Andrew, Paul Ridgeley, a David Mortimer e Andrew Leaver. “Eravamo terribili, in pratica, dopo un anno è finita perché la gente non si presentava alle prove o ai concerti”, la testimonianza ufficiale dei nostri. Ma sarà proprio quella pasticciata esperienza ska la rampa di lancio degli Wham!.
I may not have a job
But I have a good time
With the boys that I meet down on the line
Senza ostentare velleità sociologiche, il documentario di Smith si propone come cartina di tornasole del decennio 80 in Inghilterra, indagandone anzitutto le radici, affondate in quel plumbeo grigiore dell’era thatcheriana contro cui (invano) si era scagliata l'ultima ondata punk. Più che il grido nichilistico del no future, a scalfirne la frigida austerità sarà proprio il pop, con il suo approccio colorato e fuori dagli schemi, di cui gli Wham! si faranno portavoce, diffondendo un messaggio di libertà e trasgressione, anche attraverso i loro look eccentrici (i terribili calzoncini corti!) e le loro “coreografie da denuncia” (cit.). E senza tralasciare qualche frecciatina su temi sociali, come testimonia proprio lo sbarazzino singolo “Wham! Rap” con cui il duo debuttò nel 1982. “Negli anni 80 i giovani erano ancora disoccupati e incazzati, ma preferivano andarsi a sfogare in discoteca”, racconta un giovane George Michael, ribadendo un concetto essenziale del decennio che avevamo già visto sottolineare dai protagonisti di un altro bel documentario dell'epoca, quello di Bruce Ashby e Michael Donald sulle notti del Blitz (“Blitzed!”, 2022). La club culture in risposta alla disoccupazione, la fluidità sessuale come reazione al conformismo reazionario dell'Inghilterra della Lady di ferro. Una spallata che non sarà sufficiente, tuttavia, allo stesso “Yog” per trovare il coraggio per quel coming out che avrebbe voluto fare già a 19 anni, dopo aver rivelato i suoi orientamenti sessuali all’amico Andrew e alla corista Shirley Holliman. “Ho detto che avrei parlato con mia madre e mio padre e sono stato convinto che non era l’idea migliore – racconta George Michael nel documentario - Ma non credo che stessero cercando di proteggere la mia o la loro carriera, credo che stessero pensando a mio padre. Perché quando hai 19 anni, quello è il massimo a cui arrivi col pensiero. Guardi i tuoi genitori e pensi: ‘Non dirlo ai tuoi genitori, tuo padre andrà fuori di testa’. In quel momento volevo davvero fare coming out, ma poi ho perso completamente il coraggio”. Coraggio che avrebbe trovato solo nel 1993, quando in seguito alla morte per Aids del compagno, lo stilista brasiliano Anselmo Feleppa, scrisse una toccante lettera ai genitori.
Proprio la dicotomia Georgios/George Michael è una delle chiavi narrative del documentario: un doloroso, lacerante contrasto tra l’insicurezza e la confusione sulla propria identità, inclusa quella sessuale, dell’uomo e il crescente successo dell’artista, al tempo stesso rifugio dai propri tormenti personali e gabbia per la piena espressione della propria personalità. “Il punto di svolta con gli Wham! per me – racconta in un passaggio cruciale del film - è stato quando all’improvviso ho pensato che, omiodio, sono una grande star e sono gay, la depressione riguardava proprio la sensazione di essere in gabbia. Dato che avevo fatto coming out con Andrew, lui sapeva che la posta in gioco non era solo la band, ma la mia sanità mentale. E non mi ha fatto alcuna pressione per continuare. Sapeva già perché mi sentivo in trappola”. Insomma, la rinuncia alla propria libertà di amare come prezzo da pagare per il successo. Un tema già esplorato in passato ma che in “Wham!” riemerge in modo vivido, restituendo un ritratto inedito del giovane artista che centrò 4 numeri 1 in un anno, finendo col rammaricarsi (ma, per pudore, solo in cuor suo) che l’inno solidale “Do They Know It’s Christmas” della Band Aid al quale lui stesso aveva partecipato avesse impedito alla sua “Last Christmas” di ottenere un nuovo primato (conquistato troppo tardi, ahimè, nel 2021, stabilendo il record per il maggior tempo impiegato da una canzone ad andare al numero 1).
Oltre a conferire una valenza culturale e sociale alla saga degli Wham!, la pellicola di Smith riesce a coinvolgere lo spettatore nelle dinamiche umane del duo, ribaltando inveterati cliché (a partire dalla tesi totalmente infondata di un Ridgeley semplice “comprimario”), depistando, emozionando e rendendo il tutto credibile, grazie a un montaggio tutto d’archivio, che simula la lettura di uno degli scrapbook conservati dalla madre di Andrew, con le voci dei due protagonisti a fungere da voice over. Decisiva anche la scelta di usare praticamente solo le testimonianze dell’epoca, a partire quelle di George e Andrew, rinunciando a quella carrellata di vecchie glorie nostalgiche chiamate a rievocare i ricordi del passato che spesso contraddistingue questo tipo di produzioni. Tutto si svolge in quel quinquennio, proiettando lo spettatore nelle case inglesi in cui i tubi catodici trasmettevano Top of the Pops, nelle lunghe file dei fan in coda per i concerti (incluso quello storico in Cina nel 1985, già narrato da Lindsay Anderson in “Wham! in China: Foreign Skies”) o tra le pagine di quei giornali dell’epoca che stroncarono la band con pervicace ottusità.
Ritmato e avvincente, “Wham!” mantiene la stessa freschezza delle hit del duo, che scorrono in rapida sequenza: quella “Young Guns” che proprio grazie a un’apparizione imprevista a Top of the Pops li fece decollare, “Bad Boys”, amata dai fan ma odiata dal suo autore, “Club Tropicana”, con il suo patinatissimo videoclip piacione, la struggente “Where Did Your Heart Go”, l’appiccicosa “Wake Me Up Before You Go-Go” (con titolo nato da un curioso retroscena), le trascinanti “Everything She Wants” e “Freedom”, il succitato inno natalizio di “Last Christmas” fino a quella “Careless Whispers” al centro di un altro snodo cruciale del percorso di maturazione artistica di George Michael, che ne rifiuterà la versione del guru Jerry Wexler, già produttore di Aretha Franklin, rimettendoci mano e indovinando la scelta del sassofonista perfetto per il celebre assolo, ovvero Steve Gregory (curiosamente, pur trattandosi di una delle poche canzoni co-firmate da Ridgeley, uscì negli Usa come "Wham! feat. George Michael"). Canzoni pop dalle venature funky e soul, che hanno costellato l’ascesa di una band originale e innovativa, per troppo tempo non presa sul serio, forse per via di quel nome da fumetto, di quei look improbabili e del suo stuolo di fan adolescenti (e per saperne più di loro, raccomandata anche la lettura di “Wham! George & Io”, l’autobiografia di Andrew Ridgeley, riedita per l'occasione).
Il tratteggio di Smith è sempre delicato, rispettoso, mai retorico ma decisamente commovente, specie quando ci si approssima al finale: il progressivo emergere in George Michael della consapevolezza di un talento unico, di autore e cantante (riconosciuto anche da una splendida testimonianza dell’epoca di Elton John), la toccante accettazione della realtà da parte di Ridgeley, disposto a farsi da parte con sincero altruismo per non ostacolare il destino da star dell’amico, l’epilogo di “The Final”, il concerto d’addio a Wembley, con l’abbraccio sul palco tra i due e le parole definitive di George (“Senza di te non sarei mai stato su questo palco”) e di Andrew (“Gli Wham! non sarebbero mai stati cinquantenni, o qualcosa di diverso da quella rappresentazione pura di noi da giovani”). Così, come in un racconto di formazione, la parabola si conclude con una separazione che sa di fine della giovinezza, conducendo alla stellare carriera solista di George Michael ma anche al suo tragico epilogo personale (proprio in un maledetto Natale, quello del 2016, è stato trovato morto nella sua casa a soli 53 anni). Come se fuori dal Club Tropicana di quegli anni di spensierata euforia, lo attendesse il destino di una crudele realtà.