Apartments

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La melodia di un addio

Più che per le spiagge di Sydney, la musica di Peter Milton Walsh sembra fatta per i viali, i parchi di Parigi: il crooning malinconico dell'australiano, le ridenti note di tromba, lo stridore gentile della chitarra. Dal post-punk al jangle 80's, i suoi Apartments hanno raggiunto una forma compiuta quando, a metà anni 90, Peter ha dato un'impronta più matura al suo sound, dando agli spigoli dell'indie-pop l'ambientazione soave di archi e fiati

di Lorenzo Righetto e Andrea D'Addato

Walsh è la notte
(Grant McLennan)

Noi siamo il giorno
(Robert Forster)

Nel 1979, i Go-Betweens acquisirono un nuovo membro: Peter Walsh, della cui band, gli Apartments, avevano appena pubblicato il primo singolo con la loro Able Records. Non funzionò ma, altrimenti, forse non si potrebbe parlare degli Apartments (o magari i Go-Betweens avrebbero fatto un capolavoro in più, chissà). Walsh era già una leggenda nella scena di Brisbane, costruita anche con il suo look impeccabile, quando ancora vagava per il movimento post-punk. Dopo un periodo a New York, fu solo nel 1984 che tornò in Australia per riformare gli Apartments, per poi registrare, l’anno dopo a Londra, The Evening Visits… And Stays For Years. Già dal titolo, un’impressione vivida dell’impronta crepuscolare che sempre avrà la musica degli Apartments.
Imperdibile per tutti i fan dei Go-Betweens, il disco inizia con l’elegantissimo numero “Sunset Hotel”, un’eterea elegia con cori e acustica che ricordano gli Shelleyan Orphan, per poi piombare nelle tormentate acque dell’“oceano piovoso” in “All The Birthdays” – con una sfumatura indifesa e disperata assente nei brani di McCulloch. Ovviamente ci sono poi tanti brani che rivaleggiano senza sforzo con il migliore repertorio dei Go-Betweens, a volte con un taglio cantautorale che rende “The Evening Visits” meno pop rispetto a “16 Lovers Lane” (“Mr. Somewhere”).

Bisogna aspettare i singoli contenuti nella ristampa del 2015 (“Help”, “Nobody Like You”, “Refugee” etc.) per apprezzare l’anima più propriamente indie-pop di Walsh, che nella seconda metà del disco si dedica invece a numeri più umorali, vagamente Morrissey-iani e spruzzati di blues, che forse difettano nell’interpretazione (“Speechless With Tuesday”, “Lazarus, Lazarus”, l’evocativa, Cave-iana “The Black Road Shines (On Rainy Nights)”).
Insomma questo esordio si colloca più facilmente nella categoria “chicca per collezionisti”, e infatti non sorprende che la Captured Tracks abbia ristampato il disco. Il tono ornato dell'opera, che dà il La allo scuro pop cameristico della carriera di Walsh, una specie di gemello ombroso di Burt Bacharach e Jacques Brel, non sarà per niente in tono con il gusto underground dell’epoca, soprattutto nel mondo anglosassone – e così gli Apartments rimarranno fino a oggi band popolare solo in Francia.
Perfettamente in linea con la sua personalità evanescente, Walsh risponde al buon successo di critica di The Evening Visits svanendo nell’ombra per sette anni. All’indomani del tour inglese per promuovere l’album di debutto, di spalla ai nuovi astri nascenti del mainstream pop Everything But The Girl, l’albo delle pubblicazioni degli Apartments si arricchisce solamente di un singolo, e che singolo, intitolato “The Shyest Time” (1987) e destinato alla colonna sonora del film “Some Kind Of Wonderful”, di Howard Deutch (in italiano, ahinoi, “Un meraviglioso batticuore”). Magistrale commistione go-betweensiana (e come potrebbe essere altrimenti) di slanci coloratissimi e languori urticanti, la canzone sarà l’unico vagito in un periodo a cavallo fra 80 e 90 fatto di apparizioni live umbratili, tra cui una manciata di date proprio in compagnia di Amanda Brown dei Go-Betweens, e rivisitazioni del catalogo per conto terzi (la cover di “Mr. Somewhere” da parte del progetto This Mortal Coil, appunto).

Non rimarrà che pazientare sino al 1992 per ritrovare la band alle prese con un full length album, ma, fortunatamente, l’attesa sarà tutt’altro che vana. Drift si manifesta, infatti, come una sterzata vibrante al sound degli Apartments, ora pressoché dimentico della nudità cantautorale che riscaldava molti degli episodi di The Evening Visits e maggiormente conforme a un brit-rock infarcito di graffianti sovrapposizioni chitarristiche. Certo, Walsh non è esattamente avvezzo a entrare dalla porta di servizio e quella che per molti potrebbe suonare come mera strizzata d’occhio a soluzioni “di tendenza”, nel suo caso sa di valore aggiunto per rileggere la propria poetica in un colore inedito. Lungi dal perdere di vista il suo mondo interiore fatto di amori impossibili, che hanno il carattere transitorio di una stanza d’albergo o di una stazione, l’autore si serve dell’aggressività degli arrangiamenti per proiettare i suoi demoni verso l’esterno. Perché altro fine non verrebbe in mente per questi brani, sistemati sì su uno scheletro ritmico groovy, ma che non smettono di sanguinare tensioni insaziabili, si vedano in proposito il quattro quarti a perdifiato di “Nothing Stops It”, o l’anthem stradaiolo per cuori infranti “Over”, come un noir raccontato da Paul Westerberg.
Ogni soluzione sa di differente declinazione del medesimo stato d’animo, capace anche di palesarsi in forme inaspettate, come i barocchismi di archi che inaugurano “Places Where The Night Is Long”, titolo-manifesto di un’estetica del luogo come riverberazione della coscienza. Le strade attraversate da Walsh raramente concedono spazio a raggi di luce, ma, quando accade, i risultati si aprono mirabilmente alle tenui seduzioni del pop, e provateci voi a resistere alle ammalianti screziature beat di una “On Every Corner” o alle lacrime di violini che attraversano l’agrodolce “All His Stupid Friends”.
Va però da sé che il paesaggio in cui il Nostro si destreggia con maggiore naturalezza è quello di un’infinita notte dell’anima, quello che avvolge “What’s Left Of Your Nerve” e la fa fluttuare in una condizione di perpetuo displacement, mentre Walsh la inonda di una pioggia di parole che possono solo limitarsi a lambire la tragicità di un addio. In questo rispetto per il non-esplicabile giace l’autenticità del lirismo dell’autore, peraltro ancora di salvezza più che credibile per i pochi episodi in cui le melodie tradiscono momenti di affanno (“Mad Cow”) o dove la performance tende ad andare oltre le righe (“Could I Hire A Little While”).
Non c’è passaggio in Drift che nasconda la fragilità di chi racconta rispetto alla grandezza dell’evento raccontato ed è questo tratto spietatamente umano a dare all’album uno spessore inesauribile, esemplificato perfettamente dalla vulcanica opener “The Goodbye Train”, non a caso pronta a sottoporsi a un terrificante processo di sottrazione che la riconsegnerà tre anni dopo, trasfigurata nel capolavoro “She Sings To Forget You”.

Tutto è dato per essere portato via

theapartments_vii“My feelings? About ten years ago, I hid them somewhere and haven’t been able to find them”, recitava Robert Mitchum nel capolavoro noir “Out Of The Past” di Jacques Tourneur, opera che Peter Milton-Walsh, da grande appassionato di cinema, ha recentemente indicato in un’intervista tra i punti di riferimento essenziali del suo immaginario. Tanto glaciale quanto illusoria, la battuta di Mitchum non era che un espediente per mettere a nudo l’impossibilità di abbandonare i propri tumulti interiori negli anfratti più reconditi del passato, giacché i demoni di un individuo non sono addomesticabili dallo scorrere del tempo e basta poco per indurli a rifarsi spazio nel profondo dell’anima. Tale conflitto fra distacco apparente e ineluttabile fragilità del cuore costituisce proprio il punto focale dello sguardo di Walsh, che, nel 1995, ne fa la forza motrice per una tormentata collezione di memorie dal titolo programmatico A Life Full Of Farewells.
Con la band ufficialmente consolidata in forma di trio (oltre a Walsh, Eliot Fish dei Big Heavy Stuff al basso e Mark Dawson alla batteria) e integrata da una sezione di archi e fiati, il songwriter australiano sceglie qui di dare voce all’amara contemplazione che (forse) precede una svolta cruciale, vestendo le sue confessioni di un pop cameristico intriso di malinconia, ma mai soffocato nello struggimento.
Ad aprire le danze provvedono le melodie di tromba di “Things You’ll Keep”, che, in ossequio a Burt Bucharach, disegnano una trama leggera e catchy, vagamente profumata di jazz, dando una parvenza di serenità presto dissipata da un flusso di ricordi torbidi come un cielo d’inverno. Walsh passa in rassegna con inquietante controllo toccanti diapositive di disfatte, come “The Failure Of Love Is A Brick Wall”, i cui arpeggi di acustica paiono affilarsi come coltelli su versi al vetriolo (“Failure came and took your hand, you always meant to miss it”), o “You Became My Big Excuse”, ballata con pedal-steel per spazi aperti osservati da una finestra, che dispiega con garbo il lato orrifico dell’intimità (“The poison that I drink when I sink my teeth in you”).
Con la sua tensione emotiva trattenuta, eppure sempre palpabile, l’album scandisce i propri cambi di passo attraverso i contrappunti ora di un violino, ora di un violoncello, oppure di una tromba con sordina, così che ogni elemento si carica di una precisa finalità estetica, sia essa la figurazione di memorie lontane, ma ineludibili (i fiati di “Not Every Clown Can Be In The Circus”), oppure l’allusione a vie di fuga chissà quanto realisticamente percorribili (le stratificazioni misurate di “End Of Some Fear” e dell’incontenibile “All The Time In The World”).
Ogni momento di A Life Full Of Farewells, per purezza cristallina delle melodie e sensibilità nel dialogo testi-arrangiamenti, è, a suo modo, memorabile; certo, a voler gettare la maschera, va detto che sarebbe difficile non riservare il posto del cuore a due riflessioni commosse come “Thank You For Making Me Beg” e, soprattutto, l’inenarrabile elegia per voce e piano “She Sings To Forget You”. È forse questa la massima espressione di un tono confidenziale che palpita costantemente sotto la patina colta e distaccata dell’arte di Walsh; un’arte il cui zenit è rappresentato da questo “Blood On The Tracks” in miniatura, opera di culto da custodire con gelosia e potenzialmente consacrabile a pietra miliare nascosta di quel chamber-pop che l’indie contemporaneo ha riportato alla ribalta.

Che si tratti di un periodo immacolato per gli Apartments lo dimostra anche il successivo Fête Foraine (1996), compilation di brani tratti dai tre album, suonati live in studio e rivisitati in una chiave minimalista e spettrale. Privato dell’impalcatura ritmica e trascinato su un letto di acustica, mentre timidamente fanno capolino un pianoforte e dei controcanti lontani, l’immaginario di Walsh sembra chiudersi in una desolazione senza ritorno, con i testi che si trovano a spostare la propria concentrazione sulla claustrofobia delle stanze e sulla notte come abisso dell’esistenza da cui sembra impossibile riemergere.
Tutto l’album acquista una potenza espressiva animata da un senso di minaccia incombente, a cominciare da una “What’s The Morning For”, al secolo fresca tirata indie-pop e ora narcotico lied velvettiano trafitto da bordoni di organo. La differenza vera la fanno però le interpretazioni di Walsh: la sua voce, ridotta a un respiro flebile, si impossessa dei brani e vi inietta una tensione continua fra dannazione e desiderio di rivalsa, come in una “Sunset Hotel” virata verso l’ottava bassa e condannata a simbolo di questo viaggio spiazzante nelle zone cimiteriali dell’universo Apartments.

Un periodo di felice e costante prolificità artistica che testimonia il solidificarsi della vita di Walsh: professionista con famiglia (moglie, un figlio, Riley) in Australia, musicista di successo in Europa (in Francia, in particolare). Una doppia vita che gli fa comodo, gli dà grande libertà, quella che gli permette di virare del tutto nel successivo Apart, con una band nuova (nuovo batterista, in particolare), rispetto ai toni pop classici, concilianti di A Life Full Of Farewells.
I brani di Apart si reggono su una scarna impalcatura modernista, un secco groove percussionistico, qualche infiorescenza di basso, l’improvviso irrompere dei fiati, come sirene di incrociatore in una baia deserta. In mezzo al tutto, la voce di Walsh disquisisce in tono confidenziale, rasentando uno spoken word liso, decadente – in un disco anche sinistramente pregno di oscuri presagi (“No Hurry”, “Welcome To Walsh World”). Infatti, dopo la sognante eleganza da “Viale del tramonto” di “Breakdown In Vera Cruz”, la progressione anthem-ica di “To Live For”, il George Michael scopertosi dandy di “Friday Rich/Saturday Poor”, l’infinita misura del crooning sussurato di “World Of Liars”, l’imprendibile jazz-pop di “Cheerleader”, arriva “Everything Is Given To Be Taken Away”. L’apice del disco, in cui Walsh guarda senza distogliere lo sguardo in un abisso di malinconia, che si riempie, dal nero che era, di colori guizzanti, che riproducono le parole:

So tell me
what comes after
the big sleep

in un valzer grottesco con la morte, che conosce anche momenti di rassegnata e infantile euforia, come il conciliante “ba-ba-ba-baa”, che il piccolo Riley è abituato a canticchiare. L’ultimo giorno del missaggio del disco, arriva però una telefonata in studio dalla moglie: Walsh deve portare il prima possibile il figlio in ospedale.

Amarissima ironia della sorte, proprio lui, Walsh, cantore delle relazioni impossibili e del senso di perdita, al termine del mixaggio di Apart si ritrova a dover fare i conti con la peggiore delle tragedie. Succede infatti che, poco prima di imbarcarsi nelle date di supporto all’album, il cantante riceve la notizia che il figlio di tre anni, Riley, è in pericolo di vita per via di una rara malattia autoimmune che causa gravi insufficienze di globuli bianchi. Il padre cancella prontamente gli Apartments dalla sua esistenza e si dedica giorno e notte ad accudire il bambino, ma, nonostante gli sforzi, nel settembre 1999 accade l’inevitabile.

Il peso delle canzoni

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Per otto anni la band rimane un ricordo lontano, seppellito da una ferita impossibile da rimarginare. Solo nel 2007 Walsh, spronato dall’amico John Willsteed, bassista dell’album Drift, trova la forza di riportare sul palco il repertorio degli Apartments, pur nella difficoltà di riappropriarsi di canzoni che ora si caricano di una profondità ancora più ampia.
Forse perché la musica è l’unico modo conosciuto da Walsh per sfogare il dolore, dopo una serie di apparizioni sporadiche nella natia Australia e nel paese che l’ha adottato artisticamente e non solo, la Francia, l’attività della band riprende con regolarità nel 2012, con l’annuncio ufficiale di un tour francese. La sinergia musica-cinema, da sempre al centro degli interessi di Walsh, emerge ora esplicitamente, nelle immagini di Jean Seberg, tratte dal set di “À Bout De Souffle” di Jean-Luc Godard, che scorrono dietro la band durante le esibizioni.

Il grande successo del tour, il cui titolo “It’s Not Our World Anymore” certifica il momento di svolta nella vita di Walsh, è la dimostrazione definitiva del sodalizio fra il cantante australiano e il paese di quella Nouvelle Vague che tanto ha ispirato il suo modo di raccontare, elegante e frammentato. A suggello della rinascita del gruppo, nel 2013 giunge sul mercato francese Seven Songs, registrazione live di un’ottima performance per il programma Label Pop, su Radio France.
Imperniato su delicate coloriture elettroacustiche, impreziosite dai fiati e dal pianoforte, l’album restituisce la piccola orchestra pop che sono stati gli Apartments di The Evening Visits e di A Life Full Of Farewells e, se di certo non aggiunge nulla di sorprendente al catalogo, risulta più che efficace come sintetico bignami della scrittura di Walsh, che in queste rivisitazioni sentite riluce di una certa immunità all’usura del tempo.

Il fatto che avessi scritto una canzone del genere [“Everything Is Given To Be Taken Away”, da Apart], e che l’avessi scritta prima che le cose trovassero una fine – prima che perdessimo Riley – quello mi fermò, e pensai che avrebbe messo fine alle canzoni, per sempre. Non sapevo se avrei saputo trovare la strada per tornare chi ero prima che morisse, ma, in effetti, non pensavo neanche di doverlo fare, alla fine.
(Peter Milton Walsh)

Trent’anni da The Evening Visits… And Stays For Years; diciotto dall’ultimo lavoro, Apart: questo dà la misura del peso di questa nuova uscita nella carriera di Peter Walsh, e nella sua rinascita artistica, che spesso si scontrerà tra il desiderio di onorare col silenzio la morte del figlio e quello di farlo rivivere in nuove canzoni, che comunque continuano a sgorgare dalla sua penna. Una disperazione comprensibile, che non può nascondere però la forza negativa della voglia di autodistruggersi, ben espressa dall’oscuro, tremendo passaggio dalla poesia “Old Marx” di Adam Zagajewski, che Walsh cita in un’intervista al Guardian: “He still had faith in his fantastic vision/ But in moments of doubt/ He worried that he’d given the world only/ A new vision of despair.”

Per fortuna, un po’ alla volta il tormento si dilata, e così le canzoni di No Song, No Spell, No Madrigal cominciano ad apparire: prima nel 2011, con la pubblicazione del singolo “Black Ribbons”, realizzato in duetto con la cantante francese Natasha Penot. Con la sua melodia aperta, un duetto di accordi che si riflette nel duetto vocale come in un brano dei Belle And Sebastian, il brano simboleggia bene il ritorno alla vita di Walsh, che realizza un album di chamber-pop maturo, “adulto” se vogliamo, per quanto traboccante della sua personalità crepuscolare. E di interpretazioni strabordanti, come quella in stile “The Good Son” dell’iniziale title track.
La perdita di Riley è comunque il filo conduttore di questa nuova avventura degli Apartments, e così non sorprende l’ambientazione gelida, pietrificante dello straziante capolavoro “Twenty One”, scritta, versata dal rimpianto di tutte le cose che Walsh non potrà vivere con suo figlio. Un vero macigno di emozioni che attende l’ascoltatore a metà disco, cercando di strapparne ogni maschera nella sua disperata franchezza, che si fa urlo di dolore nel finale: “There will be no twenty-ones/ There will be no parties”. L’altra apparizione diretta di Riley si ha nel finale, “Swap Places”, in cui Peter ricorda gli ultimi giorni all’ospedale, quando vorrebbe morire al posto suo, come ogni genitore si augurerebbe in quei momenti.

Il contrasto tra i testi, così diretti, senza paura di buttar giù luoghi comuni quanto veri (la domanda retorica “Where’s the God in all of this?”, il ricordo offerto in modo brutale, straziante: “Walking round the hospital, Friday afternoon/ Other children going home/ Wondering if the day will come when that might be you, if you’ll ever come home”) e l’eleganza della scrittura e degli arrangiamenti convoglia il senso di trasfigurazione delle vicende personali di Walsh, che non ha voluto abbellire o romanzare se non con la musica, vera portatrice di speranza in No Song, No Spell, No Madrigal.
C’è così spazio anche per un’infilata pop come quella di “The House That We Once Lived In”, “September Skies” e “Please Don’t Say Remember”, una vera e propria schiarita fatta di accordi in maggiore e anche orgogliosi toni ottimistici (i Pearlfishers di “September Skies”), mentre lo stile romantico e fintamente ingenuo di McLennan torna in “Please Don’t Say Remember”.
Insomma, No Song, No Spell, No Madrigal è uno di quei doni artistici che sicuramente Walsh avrà voluto fare, giustamente, al figlio, ma che lo diventa in qualche modo per l’umanità: dentro contiene quel sentimento di compassione, di superamento comune delle assurdità dell’essere mortali, attraverso l’arte.

Lorenzo Righetto: "The Evening Visits... And Stays For Years", "Apart", "No Song, No Spell, No Madrigal"
Andrea D'Addato: "Drift", "A Life Full Of Farewells", "Fete Foraine", "Seven Songs"

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Discografia

The Evening Visits... And Stays For Years(Rough Trade, 1985; Captured Tracks, 2015)7
Drift(Torn & Frayed, 1993)7,5
A Life Full Of Farewells(Restless/Hot, 1995)8,5
Fete Foraine(Hot, 1996)7
Apart(Hot, 1997)6,5
Seven Songs(live, Talitres/Riley, 2007)7,5
No Song, No Spell, No Madrigal(Microcultures, 2015)8
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Sunset Hotel
(live, da The Evening Visits... And Stays For Years)

The Goodbye Train
(live, da Drift)

Things You'll Keep
(live, da A Life Full Of Farewells)

Everything Is Given To Be Taken Away
(live session, da Apart)

 

Twenty-One
(video, da No Song, No Spell, No Madrigal)

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