Necks

Unfold

2017 (Ideologic Organ)
minimal jazz

Nell'area più commerciale della musica la ripetizione è vista come mancanza d'inventiva, o al limite come scelta di comodo per racimolare consensi e denari finché si può. Laddove invece si esplora coraggiosamente, sfidando il gusto predominante e le avversità di una vita ai margini, la ripetizione è pura e semplice perseveranza, una strenua resistenza a difesa della propria identità artistica.
Da almeno cinquant'anni, poi, quello della ripetizione è diventato un concetto decisamente relativo, quasi sempre l'indice di uno spostamento di focus graduale ma altrettanto significativo all'interno di un processo che non si rivolge a una mèta prestabilita bensì a se stesso.

Il senso della ventennale avventura dei Necks sta in questo: la struttura stessa della formazione, così come quella delle lunghe sessioni live e in studio, non ha l'aspetto di un'operazione aritmetica in cui il rapporto tra gli elementi dati produce infallibilmente un risultato esatto; il dialogo alla pari delle diverse parti la configura, piuttosto, come un'equazione sempre bilanciata, quali che siano le circostanze o il "vocabolario" adottato di comune accordo.
Per comprendere questo è sufficiente raffrontare album diversi come gli ultimi due: "Open", forse la più ermetica sintesi del loro quieto e ipnotico minimal-jazz; e poi "Vertigo", quasi destabilizzante nella sua spinta propulsiva in stile libero, tale da rendere quasi irriconoscibile un trio dal sound così eccentrico e distintivo. Ciò nonostante, entrambe le prove trovano la loro giustificazione nella pazienza ritualistica dei singoli gesti, siano essi concitati o cauti, addirittura appena accennati.

Ogni nuovo progetto viene condensato in una sola parola, netta e profondamente significante – non di rado ambivalente. Più delle altre, forse, il verbo "Unfold" restituisce l'immagine di un disegno che si rivela progressivamente e trova conferma in ciascuno dei suoi tratti, come una limpida profezia autoavverante.
Quattro lati di Lp senza indicazioni di sequenzialità, liberamente esplorabili dall’ascoltatore per ritornare estemporaneamente su ciascuna session oppure tentare di individuare un filo narrativo che le leghi tra loro. Un po’ per caso, e non sapendo scegliere, i miei primi ascolti si sono svolti in ordine alfabetico, salvo poi trovare una delle chiavi di lettura possibili nella sua inversione speculare.

A chi conosce la storia del trio risulterà evidente un carattere d’urgenza ancora più accentuato rispetto a “Vertigo”, che ora sembra costituirne una sorta di disordinato preludio: ciascun episodio di “Unfold” non soltanto si lancia nell’azione con un attacco in medias res, ma poggia le sue basi sul tono costante e sfuggente delle percussioni di Tony Buck, forza motrice qui incentrata sull’uso di piatti e wind chimes risonanti in primo piano. In questo scenario le tastiere di Chris Abrahams e il contrabbasso di Lloyd Swanton si pongono necessariamente come gli elementi d’ordine, gli argini che delimitano l’occhio del ciclone e scandiscono “Timepiece” con pulsazioni nette e concitate, laddove la componente ritmica principale è divenuta una materia sonora quasi informe.

Se dunque decidessimo di risalire la tracklist partendo da qui, col momento di più febbrile e serrato interplay, si passerebbe prima per “Rise”, quasi un trio “classico” se escludiamo la concomitanza degli arpeggi onirici di Abrahams con una scia elettrica d'ascendenza kosmische, mentre di riflesso il basso si divide tra linee continue d'archetto e cadenze sulla stessa nota a diverse altezze; sarebbe poi la volta di una poco ispirata divagazione seventies (“Overhear”) che fa pensare a una trance di dervisci rileyani, dominata com’è da un organo Hammond che alterna lunghi accordi sostenuti a spirali di note limitrofe, come il riscaldamento prima di una più animata jam session.
Giungeremmo, infine, all’ipotetico coronamento dell’opera con la scura ipnosi di “Blue Mountain”, climax ascendente di saturazione sonora che non è ardito accostare alle attese drammatiche dell’ultima incarnazione Swans, come un cielo che si annerisce accumulando elettricità statica prima della tempesta.

La lunga durata non è certo una novità nel caso dei Necks: lo è semmai la struttura episodica, tale per cui la valutazione dell’album nel suo insieme risente di una buona metà dove le solide strutture alla base delle loro suite storiche vengono a mancare, mentre finiscono per svettare ulteriormente i due take di maggiore densità acustica, quasi tormentati se messi a confronto coi primi.
A seconda dei punti di vista, la buona o la cattiva notizia è che, nell’apparente indecisione di questo momento, si sta facendo strada qualcosa di inedito per il trio australiano, forse a un passo da una vera svolta nel suo stile ampiamente consolidato.

10/02/2017

Tracklist

  1. Rise
  2. Overhear
  3. Blue Mountain
  4. Timepiece