E adesso sento che mi ripiglia. È come la tristezza di un cane.
(“La Notte”, M. Antonioni)
Soffermandosi per un attimo a contemplare il motivo, il significato primo sottostante l’abbondare letterario/cinematografico/mitologico sul rapporto mai definitivamente consumabile uomo-notte, non è poi difficile individuarne la causa sottocutanea e impalpabile. La caduta delle maschere e delle recite diurne. L’illusione di poter liberare finalmente l’immaginario sé. La psicosi che invade il campo ricordandoci quanto siamo in balia dei suoi diktat. La beffa di una sensazione di comprensione che ha tutta l’aria di nascondere i tratti della compassione. Il dolcificante di un romanticismo quieto ma nero di presenze, o (più spesso) ingiustificabili assenze. L’angoscia.
Impossibile limitarne il valore all’arbitrarietà della scansione temporale. Impegnativo e a un tempo seducente, provare a dare una qualche forma di espressione artistica a questo circo di umanissime percezioni.
Bohren & der Club Of Gore è probabilmente l’esperimento che più si è avvicinato all’impresa, coniando un linguaggio musicale che non si esaurisce nelle sue qualità acustiche ma che identifica uno stato d’animo ben preciso. Mimetico, anti-descrittivo.
Breve riepilogo della saga Bohren, tra ambient, doom-jazz ed esistenzialismo noir.
I primi passi
Il nastro comincia a srotolarsi nel 1988: non si potrebbe pensare ad un immaginario più anonimo di quello di Mülheim an der Ruhr per inquadrare l'inizio di un'avventura, ma è proprio qui, nel cuore del bacino industriale tedesco, non molto lontano da quella Düsseldorf che diede i natali a Kraftwerk e Deutsch-Amerikanische Freundschaft, che effettuano i primi passi in musica insieme quattro amici di lunga data. Un idillio che assume sin dall'inizio pieghe fosche, fascinosamente frastagliate: conosciutisi tra i banchi di scuola, il batterista Thorsten Benning, il bassista Robin Rodenberg, il chitarrista Reiner Henseleit e il pianista Morten Gass, condividendo la passione per le frange più estreme del metal (dal grindcore passando per il doom-metal), decidono di unire le proprie forze in un progetto che non soltanto assecondasse queste pulsioni, ma desse loro nuova linfa, ne rafforzasse il messaggio conducendolo verso altre coordinate. Saranno però necessari ben quattro anni da quel primo momento affinché si cominci a considerare un'effettiva estrinsecazione discografica. Il seme però era già stato lasciato germinare.
Nel durante, è periodo di impegni paralleli per i membri della futura band. Con Henseleit a prestare la propria voce ai concittadini Chronical Diarrhoea, formazione thrash-metal capace di ben due full-length a cavallo tra gli anni Ottanta e l'immediato inizio del decennio successivo, e con i restanti sodali a riunirsi sotto il nome di 7 Inch Boots, dediti ad un massiccio hardcore lo-fi dalle derive doom, ciascuno finiva con l'approfondire a dovere le pulsioni di gioventù, ad affinare il proprio istinto musicale, per quanto ancora in maniera “primitiva” e con mezzi limitati, in un vortice di violenta e dissacrante creatività. Si riveleranno però esperienze fondanti, tutt'altro che passaggi di poco conto, nell'economia di un percorso unico nel proprio genere. Tesi alla ricerca della propria nicchia espressiva, a trascendere i riferimenti e le fascinazioni di una vita attraverso un veicolo stilistico dalla portata consapevolmente più ampia e personale, i quattro, finalmente raccoltisi sul serio in una compagine unitaria sotto la sigla Bohren (vocabolo traducibile in italiano con un alquanto onomatopeico “trapanatura”), cominciano a prendere dimestichezza con una formula dall'impatto e dalle finalità diverse, per quanto ben radicata all'interno delle vicende estreme degli anni precedenti. Il gioco ha così inizio.
Non necessitano poi di molto tempo i quattro, per impegnarsi nel loro primo parto discografico: con un cambio di nome che li porta al definitivo Bohren & Der Club Of Gore (in onore ai Gore, terzetto noise strumentale dall'Olanda che ne ha ispirato la missione), nel 1993 è già il momento della prima demo su cassetta, il primo biglietto da visita con cui finalmente aprirsi al mondo. Purtroppo irreperibile, ma dai contenuti senz'altro intuibili, Luder, Samba und Tavernen sin dal titolo (“carcasse, samba e taverne”) prefigura quella morbosità tra il sensuale e il fatale, quegli accostamenti dal fascino macabro, quella strategia della tensione visiva che giustappone categorie semantiche di difforme natura in un quadro unitario. Roba da fumose ambientazioni noir, a ben vedere. Ed è proprio in questo filone, in questa corrente dal taglio volutamente e fortemente cinematico, che prende forma il sound B&DCOG.
Un sound che ha già modo di sbocciare e farsi apprezzare nella tripletta di pubblicazioni licenziate nel 1994, a vario titolo e con finalità diverse. Già il primo Ep, seccamente denonimato Bohren Und Der Club Of Gore, sette pollici rilasciato da un'oscura sublabel dell'altrettanto oscura Suggestion Records, si premura di illustrare le qualità del progetto. Una copertina in seppia, un taglio da locandina anni 40, e si è pronti in un'immersione tra chitarre sature, un basso dalle vibrazioni abissali, una batteria a scandire con misurata lentezza ogni proprio battito.
L'ennesima doom-band di scarso profilo? Non precisamente. Anche se la produzione piuttosto scarsa, e la grana sonora potrebbero rimandare alla pletora di formazioni coeve in perpetua esplorazione tra i meandri più lerci e degradanti della dannazione umana, lo spaccato che si ricava non è quello di un osservatore interno alla scena, ma di chi ne sfrutta le caratteristiche a costruzione di un linguaggio dalla valenza significativamente diversa. E se ancora era davvero presto per poterne parlare, già si aggirava nei paraggi il germe della consapevolezza jazz. Andando oltre il drone-doom in area Earth di “Paternoster”, esercizio intrigante ma tutto sommato fin troppo inquadrato nell'assetto, a risaltare sono i giochi di chitarra e basso di “Die Nahtanznummer, Teil 1” e della conclusiva “13 Zähne für Toni D.”. Una costante che si ripropone anche successivamente, in quell'annata sorprendentemente creativa, un ribollire magmatico nel quale fraseggi elementari (ma non per questo banali) di basso trovano la propria corrispondenza in slabbrate figure di chitarra, sì partecipi della stessa tensione metal Eighties, ma con uno slancio nuovo, un taglio conturbante, quasi avvolgente a voler osare con le parole, con tutta la possanza che contraddistingue il suono. Pur ignorando nella sua interezza il contenuto di quel nastro-demo, non è poi così difficile arrivarci, anche fosse solo per semplice deduzione.
Scabrosi motel in salsa noir
Sulla strada di un progressivo smarcamento dalla fosca cappa heavy, il primo full-length dei Bohren & Der Club Of Gore, dall'esemplare titolo Gore Motel, arriva puntuale nello stesso anno d'uscita dell'Ep, bruciando ancora ulteriormente le tappe verso un completo affrancamento, verso l'agognata personalizzazione. E quelle vaghe intrusioni esterne, quelle piccole crepe nel granito, a diventare man mano più evidenti, a spezzarne l'omogeneità in un mirabile gioco di geometrie. La formazione che si presenta a reclamare il proprio spazio sotto il supporto della Epistrophy ha compiuto già notevoli passi in avanti, ha inciso profondamente la dura scorza della propria arte. Nei 74 minuti di un'opera prima che ha quasi il sapore del manifesto, il processo prosegue imperterrito.
Non tanto un raddolcimento, quanto piuttosto una ridefinizione delle proprie posizioni, i dodici brani inclusi, suddivisi spesso più per convenienza che per reale esigenza narrativa, si stagliano come piccoli scrigni d'atmosfera, ispidi racconti di notturna poesia, trasfigurata in oscuro palpitare noir. Con il basso in posizione prominente, gli interventi di batteria a scandire un ritmo inesistente, e con l'ingresso per la prima volta di soffusi tappeti di synth e tastiere (specialmente nella seconda metà del disco), Gore Motel è ipotetico commento sonoro tra strade desolate nel cuore della notte, tra sinistri presagi che squarciano il buio come lame, e un'ansia interiore per la quale non sembra esserci rimedio. La copertina ritrae un Bruce Lee d'annata (cui curiosamente sarà dedicata due anni dopo una tradiva release a nome 7 Inch Boots), ma la scenografia ideale dell'opera avrebbe prediletto tutt'altra ambientazione.
Cromie sature all'inverosimile, movimenti lenti e calcolati, chiaroscuri in perpetuo sfumare: all'ambience dell'opera (termine usato tutt'altro che a sproposito: con qualche accorgimento, si potrebbe davvero pensare a oscure perlustrazioni dark-ambient), misteriosa e opprimente, manca davvero il supporto di una pellicola perché il cerchio si chiuda. Ed è forse anche per questo motivo, che le partiture minimaliste del quartetto, con la chitarra di Henseleit a rivestire un ruolo decisamente più contenuto, ancora non sembrano avere una reale autonomia tematica, quasi sembrano reclamare a gran voce l'ausilio dell'immagine. Già molti dei titoli (“Dangerflirt mit der Schlägerbitch”, “Daddys lungern durch die Nicht”, “Der Maggot Tango”, per fare degli esempi) reindirizzano a questo desiderio, tradiscono la bramosia di un immaginario da bulli e pupe immerso in una fosca cappa da metropoli degradata. Per quanto ottimamente suonata, con una spinta produttiva in avanti davvero notevole, la musica dei Bohren & Der Club Of Gore è ancora inerme di fronte ai suoi stessi concept, si lascia sommergere senza opporre troppa resistenza, in un fin troppo prevedibile scambio di rimandi. L'obiettivo sarebbe stato lì a portata di mano in brevissimo tempo, in ogni caso.
Abbandoni radiofonici per spiriti solitari
Giusto l'occasione di sbizzarrirsi con un'altra cavalcata per basso e chitarra delle loro in Schwarzer Sabbat für Dean Martin (ogni riferimento a celebrità del passato in salsa pulp è puramente intenzionale), split in compagnia del progetto dark-ambient Wald, che già l'anno successivo, ogni possibile speculazione sul futuro del quartetto viene letteralmente spazzata via. Al netto delle imperfezioni di un esordio senz'altro degno di nota, ma ancor fin troppo suscettibile all'influenza di un vocabolario artistico ben codificato nei suoi costituenti principali, il salto in avanti effettuato con Midnight Radio è a dir poco strabiliante, il balzo quantico che però in parte ti aspetti da un gruppo oramai perfettamente rodato, forte di un'intesa micidiale. Il balzo, le cui proporzioni superano ogni più rosea fantasia: non più le copiose colate di magma degli inizi, nemmeno la fumosa oscurità del primo album, ad affiorare nelle due ore e ventitré minuti di un doppio album dalle colossali sensazioni è una rarefazione estrema, un lavoro di sottrazione elevato a stato dell'arte, l'elogio alla lentezza nella sua forma più pura. Suddiviso in undici lunghissimi capitoli, ancora più irrilevanti dal punto di vista narrativo (con l'esclusione dell'ultimo, strutturato su un sinuoso tappeto percussivo memore dei Sade di “Smooth Operator”), il sophomore della band è opera in cui nuovamente testo e contesto penetrano l'un l'altro, un dialogo tematico e stilistico che però non si estingue in un conflitto, in uno stato di disparità. La sudditanza concettuale di Gore Motel qui è stata totalmente dissipata: adesso sono gli stessi B&DCOG a suggerire i propri scenari d'azione, a circoscrivere, alla maniera del miglior Brian Eno, il raggio entro il quale muoversi nell'indagine. Un'indagine che qui abbraccia periferie desolate, mentre è notte fonda e il silenzio circostante la fa da padrone assoluto. Non vi è più alcuna condanna, alcun sentimento d'oppressione: il basso, a sconfinare a più riprese nel drone puro, imbastisce impressioni fugaci, un mormorare sfuggente che però supporta nitidamente stanche perlustrazioni attraverso strade vuote.
Con la batteria, soffusa e schiva, oramai a delimitare battute prossime all'infinito, e una chitarra a prendere quasi le sembianze di una tastiera nei microfraseggi melodici che costellano tutto il doppio, Midnight Radio non è però semplicemente capolavoro d'atmosfera, non si limita a mero descrittivismo d'accatto. A serpeggiare, insistente ma discreta, è una forte caratterizzazione psicologica, una vena introspettiva che rielabora stimoli e solitudini esterni e ne restituisce un profilo diverso, totalmente trasfigurato nell'essenza. È musica d'ambiente sì, ma di un ambiente che non si dimentica delle vastità dell'anima, che ne rende palese la carica immaginativa: i passaggi lentissimi, la flemma a dir poco catatonica degli strumenti, un certo che di sonnambulo nei dosati ma accuratissimi contributi di tastiera di Morten Gass, descrivono l'itinerario ideale per abbandoni solitari, fughe insonni alla ricerca della più completa evasione, attraverso spazi in stato di morte apparente. Ma la loro indefessa ricerca li avrebbe portati a riavvolgere il gomitolo, a scoprire le fatali malie del tramonto....
Incontri fatali al calar della sera
Ormai giunti a dominare alla perfezione il loro peculiare linguaggio ambient, lontano comunque anni luce dalle coeve esplorazioni nei recessi dell'oscurità dei connazionali Hoedh, Inade e Maeror Tri, ai Bohren restava oramai ben poco da dimostrare. La loro spinta creativa, volta alla progressiva rarefazione e spoliazione del suono, dell'organico base della musica rock, si era già espressa al massimo delle proprie potenzialità nell'ambito, riproporne le fogge avrebbe finito per porre un freno all'impulso a un continuo perfezionamento, a un'evoluzione ancora tutt'altro che esauritasi.
Ci vorranno ben cinque anni, affinché il frutto di questa sete di evoluzione venga reso pubblico. Cinque anni, in cui l'organico della band subisce apparentemente piccoli, ma profondi cambiamenti. Nel 1996, Reiner Henseleit decide infatti di lasciare il gruppo: con sé non parte soltanto un pezzo della band, ma se ne va per sempre la chitarra, quelle sgranature doomy che avevano costituito in buona misura l'iniziale “notorietà” della formazione. I restanti ex-compagni d'avventura non si scoraggiano minimamente, anzi, non provano nemmeno a sostituirlo con un nuovo arrivato che ne proseguisse le gesta. Forse intimamente consci che il vocabolario strumentale della formazione avesse bisogno di qualche nuova scossa, oppure semplicemente desiderosi di archiviare con rispetto la fase germinale della propria carriera, ad entrare in pianta stabile nelle fila dei Bohren è nel 1997 Christoph Clöser, compositore e polistrumentista di stanza a Colonia, versatile nel pianoforte e nel sassofono. Ben più che per il primo strumento, presente sin dagli albori del quintetto, è proprio il secondo a destare l'interesse dei sodali di Mülheim, a convincerli della validità di una simile annessione. Una scelta che si rivela determinante: i richiami al jazz erano da sempre nell'aria, i loro aromi se ne stavano lì, distanti ma ben percepibili, magari in uno spazzolare di batteria, magari sotto ai cupi disegni di basso e chitarra. Erano comunque lì, sempre presenti, sfumature preziose a suggerire scenari più vasti, inquietudini nelle quali perdersi, sprofondare e non far più ritorno.
Con l'ingresso dello strumento jazz per eccellenza in formazione, i richiami diventano ben più che allusioni, cominciano a scalpitare per reclamare il proprio spazio. Da qui in poi bastava assecondare queste stesse pulsioni.
Ed è all'avviarsi del nuovo millennio, in un clima già proiettato verso altri orizzonti, che vede finalmente la luce Sunset Mission. La copertina presenta gli stessi toni scuri, quei neri giustapposti a più violente (per quanto soffuse) scariche di rossi e gialli, dei dischi precedenti: il twist dato al contesto iconografico è però evidente, tangibile. La scena si è spostata ad un momento precedente, i viali deserti a mezzanotte sono ancora animati da qualche presenza solitaria, qualche auto di passaggio diretta chissà dove. E quello squarcio tra le nuvole, sopra luci sfocate al calare del crepuscolo, a riempirsi di presagi sinistri: ancora una volta, un humus artistico perfettamente congeniale al quintetto, ma vi è un nuovo protagonista a narrarne le gesta. Un protagonista tragico, commovente, perfino decadente delle volte, a sposarsi alla perfezione alle suadenti tessiture di tastiera, il vero trademark del disco. Non ci saranno più gli accordi di Henseleit a turbare il quadro generale, ma il nuovo assetto tiene ben testa al credo iniziale, lo ridefinisce anzi in termini d'intensità e lirismo, facendolo sfociare in evocative visioni dal taglio badalamentiano. Un paragone, quello con l'autore della soundtrack di “Twin Peaks”, che da lì in poi verrà sovente utilizzato, specialmente da chi ha voluto liquidare in fretta e furia la proposta del quintetto tedesco senza spendere ulteriori parole: eppure, anche a non volere, l'accostamento è tangibile, un sottile filo rosso lega indissolubilmente le due esperienze, al di là delle singole personalità che animano i due diversi percorsi. Non vi è di certo la straordinaria voce di Julee Cruise a commentare le ammalianti fughe notturne dei Bohren, né quella superba strategia della tensione messa in atto dal compositore americano (il che è motivo più che sufficiente per differenziare senza discussioni i due act), ma il vocabolario espressivo presenta altresì notevoli contatti: simili infatti sono le attinenze alla stagione noir (in Sunset Mission più evidenti che mai), simili le modulazioni minimali nella composizione, simile pure è l'andamento emotivo, conteso tra sottile onirismo e tremula concretezza. Ai Teutonici manca però il senso di sgusciante imprevedibilità del braccio destro di David Lynch, le aperture realmente (e non solo ipoteticamente) cinematografiche di quei brani: a chi nell'ambito della soundtrack, più o meno destrutturata, ci ha mosso finanche i primi passi, si contrappone invece una formazione che dalla sua ha saputo rielaborare immaginari e scorci alle proprie esigenze, ma che non ha mai goduto di un reale supporto visivo, per apprezzarne l'effettiva caratura cinematica.
Non che poi il gruppo ne abbia reale bisogno: nel loro ennesimo, vibrante flusso sonoro, Rodenberg e soci imbastiscono la loro personale interpretazione in musica per un film mai girato, ma di cui è sempre affascinante provare a decifrare le immagini: lunghi ed estesi piani sequenza, ombre torbide a invadere la scena, personaggi languidi, quasi annientati dalle proprie passioni, e quel sassofono, a dettare i momenti più drammatici, di maggior trasporto della pellicola. Non più sostenuti dal contributo fondante del basso, qui in veste di mero accompagnamento (ma che accompagnamento!) strutturale, i vari movimenti del disco viaggiano sopra nebulose di tastiera e pianoforte, il letto ideale al funereo, denso, risuonare del sax.
La perfezione ambientale di Midnight Radio si consolida in un prodigioso crossover dalle imponenti sensazioni: la stagione del dark-jazz (o doom-jazz, che dir si voglia), aveva quindi inizio.
Nero trascendente
Accolta da un vastissimo consenso da nicchie specializzate sì, ma anche piuttosto variegate (dai territori dark e jazz fino a bazzicare quelli più tipicamente alternative), la nuova ricetta “Bohren”, la collezione di immagini noir e rimandi crepuscolari di Sunset Mission, si trasferisce però ben presto su tutt’altri livelli.
Passano questa volta solo due anni e Black Earth ricalibra nuovamente il tiro: sensibili, in verità, i mutamenti di forma, sostanziale la differenza tra i campi di indagine. Si tinge di nero anche la cover, a questo turno, una cappa che lascia intravedere solo lo schizzo, il fantasma di un teschio, trovata che costituisce insieme al font un curioso e stridente rimando a certo metal di bassa caratura. Di Sunset Mission resta intatto il passo sensuale e gli ingredienti di base, usati questa volta con estrema parsimonia, mentre il Fender Rhodes di Morten Gass assurge a ruolo di primadonna, contribuendo pesantemente al vago umore “blues” serpeggiante nell’album.
Black Earth si pone su un piano fortemente mentale, c’è puzza di annichilimento, un vuoto di speranze tradite, una danza lugubre eppure dolcissima in direzione dell’ultima catarsi, di un tramonto irreversibile di anima e significato.
La tripletta iniziale ha tutte le sembianze di una discesa progressiva e inesorabile in una specie di oscurità metafisica, attaccando con il lirismo decadente di “Midnight Black Earth”, rallentando il passo su un funereo duetto Rhodes-rullante e giungendo a tonalità nere fino alla perversione con “Maximum Black”, trascinata su aleggi di spiriti, poche note di piano reiterate ossessivamente e un commento di sax come nascosto rimasuglio di una qualche forma di umanità. Quello che segue sarà un procedere a tentoni nel tetro più assoluto (le percussioni di Benning in questo rendono con successo l’idea di un movimento illusorio), la sensazione di vuoto è pervasiva eppure solo apparente, lo spazio pullula di emozioni fitte ma dissimulate e denudate da ogni immagine.
Solo l’intensissima ballata “Destroying Angels” e l’insostenibile, gonfia, malinconia di “Constant Fear” riescono a stemperare per un attimo questa muta angoscia liberando con melodie superbe le uniche emozioni definite del disco, frementi di suggestione in ogni singolo respiro, prima di tornare di nuovo tra le tenebre e andare a morire nel cupo e lungo thrilling badalamentiano di “The Art Of Coffins”: come si deve a un disco come Black Earth, un finale senza colpo di scena, un ultimo, spossato, consumarsi fino alla volta del disfacimento definitivo.
Disco di rara intensità psichica, Black Earth abbraccia diversi livelli consci e inconsci, offrendosi come elegante sfondo noir, compagno di nevrosi e alienazione, viaggio tra l’inferno terreno popolato di esseri umanoidi alla logorante ricerca di comprensione e (auto)definizione.
Mai rovina nichilista ebbe colonna sonora più raffinata.
Serenate faustiane
Pur avendo messo a punto e rimodellato una formula di tale efficacia, i “Bohren” non sono però gente abituata a cavalcare l’onda e, dopo un biennio di silenzio che diverrà d’ora in poi rituale, si ripresentano nel 2005 con Geisterfaust, un’altra opera più o meno estesa (sessanta minuti scarsi) che arricchisce l’ensemble di tuba e vibrafono.
Spalmato su cinque suite dedicate alle cinque dita della mano, Geisterfaust estremizza ulteriormente il programma compositivo di Black Earth: il passo si fa lento al limite della catalessi, le poche melodie sono ad unica responsabilità del vibrafono, mentre le tastiere di Clöser pervengono alla sola funzione ritmica insieme alle sparute percussioni di Benning. Il clima è austero e claustrofobico, ogni emozione congelata. Eppure la mancanza principale che si avverte questa volta è il potenziale comunicativo, il sostrato grottesco soggiacente ogni precedente produzione del collettivo. Per quanto impeccabile e affatto privo di spunti suggestivi, Geisterfaust si dà tutto in superficie, facendosi ammirare per la forma ma fallendo nell’istaurare una qualche connessione, empatica o immaginifica. Nonostante le nobilissime ambizioni, in altre parole, il risultato di Geisterfaust non va oltre l’ordinaria amministrazione per le enormi capacità della ditta B&DCOG.
Dopo un altro, questa volta necessario, rimpasto strumentale, la band riappare ad aggiustare il tiro nel 2008 con il riuscito Dolores. Il sound dei Bohren non era mai stato tanto corposo: oltre all’impianto-base ormai consolidato (Rhodes, vibrafono, basso, percussioni), entrano in scena due sax (tenore e baritono), il sintetizzatore e finanche un vocoder.
Dolores si presenta come un flusso evidentemente più disteso – ma di certo non più luminoso – che torna ad investire nella componente più cinematica del suono della band. È bastato però spostare le coordinate di pochi decimali per riflettere sulla band una luce tutta nuova: da collettivo crossover, infatti, i Bohren sembrano aver completato il trapasso nei panni del jazz ensemble tout-court. Ascoltando un brano come “Karin” l’associazione con una versione scura del Modern Jazz Quartet viene quasi spontanea, la rinnovata vena blues porta alla vibrante, genuina, commozione di “Unkerich”, mentre il monologo del sax di “Still Am Tresen” figurerebbe splendidamente nel mesto romanticismo del Tom Waits di “Alice”.
Il tipico passo catatonico delle spazzole, il nero sfondo ambientale popolato da chissàquali presenze, il garbo tutto Fender Rhodes, fanno salva una volta in più l’identità della ditta, con “Welten” quale ideale manifesto definitivo del nuovo corso della band.
Due anni più tardi, l’appuntamento con la saga Bohren è rinnovato da Beileid, un mini-album di tre tracce che si segnala per la sinuosa ballata “Zombies Never Die” e soprattutto per la sorprendente “Catch My Heart”: un improbabile ma riuscitissima cover dell’omonimo pezzo heavy-metal dei Warlock, con il primo contributo vocale in assoluto nel curriculum della band, per giunta con un interprete di prima scelta quale Mike Patton. Un piccolo, prezioso, bignami dark-vocal-jazz per soliloqui da tre del mattino.
Una perturbante maturità
Nonostante queste nuove, galvanizzanti, incursioni in territori finora ancora inesplorati dai teutoni, il settimo atteso long-playing rimane fedele all’impianto formale collaudato della band: ballate lugubri per alienazioni notturne, severa colonna sonora per pellicole retrò, commento melanconico a metropoli bagnaticce. Eppure, se per certi versi Piano Nights si presenta indubbiamente come “il solito disco” dei B&DCOG, d’altra parte la differenza di carattere salta subito all’orecchio, più precisamente un’inedita leggerezza delle composizioni, un procedere garbato e meditabondo per frasi di vibrafono e chiose solitarie di sax. Più che oppressione, la parola chiave è ispirazione.
A dover selezionare una o più tracce dal lotto, probabilmente la scelta ricadrebbe sull’ampia, profondissima, “Ganz leise kommt die Nacht”, l’introverso blues di “Unrasiert”, e il lungo requiem di “Verloren”, performance che invidiano poco o nulla ai migliori episodi storici del collettivo.
Se è vero, insomma, che Piano Nights non sconvolge il modello assodato del quartetto, sarebbe difficile, per non dire ingiusto, liquidare il disco come una stanca fotocopia di una qualsiasi produzione precedente, tentazione che sarebbe giustificabile solo a un ascolto distratto e pregiudizioso.
La vocazione noir di Gass e soci ha trovato la dimensione perfetta in cui lasciar fluire a braccio sciolto immagini e sentimenti, con l’oculatezza del mestiere ma non il vezzo del fine a se stesso.
L'ennesima dimostrazione della classe che accompagna da sempre il progetto giunge all'aprirsi degli anni Venti, dopo uno iato discografico di ben sei anni, con Patchouli Blue, disco che restituisce l'immagine di una band solida nei suoi intenti, per la quale il tempo, o anche la stessa composizione del suo organico, sembrano essere concetti relativi. Privi del contributo del batterista e co-fondatore Thorsten Benning (che ha abbandonato nel mentre la band nel 2015), i tre rimasti non hanno perso una cifra del loro fumoso impatto atmosferico, sopperendo alla sezione ritmica con classe sopraffina e irrobustendo, ancor più di quanto fosse preventivabile, il tono evocativo delle composizioni.
Azzerato quasi del tutto ogni senso di scansione ritmica (giusto occasionali interventi di synth a marcare il passo), l'album scorre glaciale, funesto, soggiogando la tensione in una rete di minacciosi velluti sintetici e flessuosi commenti di sassofono, aperto ad un melodismo che quasi giustifica la suddivisione in undici brani. A tal riguardo, la mescola sonora torna a fare i conti con l'annientamento senza redenzione di Black Earth, ne accentua però i toni patetici traducendoli in un'algida sensualità, che il sax tenore di Christoph Clöser condiziona con morboso compiacimento. Il tono generale accentua la sensazione di nervosismo che anche in ballate più “classicamente” jazz come “Sollen es doch alle wissen” non si estingue mai del tutto. Tra gli umori valzerati di “Verwirrung am Strand”, la dimensione destabilizzante della title track, in cui il taglio noir si accentua col suo tremulo chitarrismo, gli accenni psichedelici di “Zwei Herzen aus Gold” (notevoli i suggestivi richiami di Rhodes), l'arte del terzetto ritrova la scintilla di un'intensità che stava rischiando di perdere spinta.
Artefici di un universo di rara consistenza evocativa, i Bohren & Der Club Of Gore continuano a firmare le impossibili colonne sonore di un mondo sull'orlo dello sfacelo, ammantandolo di una disturbante voluttuosità. A più di un quarto di secolo dall'esordio, la compagine tedesca non manca di comprovare il suo grandiosa, angosciante, estro noir.
Bohren und der Club Of Gore (Ep, Burt Reynolds Moustage. 1994) | ||
Gore Motel (Epistrophy, 1994) | ||
Midnight Radio (Epistrophy, 1995) | ||
Sunset Mission (Wonder, 2000) | ||
Black Earth (Wonder, 2002) | ||
Geisterfaust (Wonder, 2005) | ||
Dolores (Ipecac/PIAS, 2008) | ||
Beileid (Ipecac/PIAS, 2011) | ||
Piano Nights (Ipecac/PIAS, 2014) | ||
Patchouli Blue (Ipecac/PIAS, 2020) |
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