Tra gli artisti più rappresentativi del vero black metal norvegese, genere che hanno contribuito a creare e consolidare negli anni Novanta, i Darkthrone non hanno mai nascosto la propria passione per il proto-black metal anni Ottanta, per gruppi come Bathory, Venom e Celtic Frost. In tempi recenti hanno approfondito il versante old school e primigenio, tra suggestioni heavy e black‘n’roll, sempre scegliendo di rimanere fieramente indipendenti e lontani dalle mode effimere contemporanee.
Gli inizi all’insegna del death metal
Kolbotn è un piccolo comune norvegese vicino Oslo. Gli inverni lunghissimi e la noia spronano tre ragazzini, Leif Nagell, Ivar Enger e Anders Risberget, a formare una band death metal. Nel 1986 nascono così i Black Death, in seguito ribattezzati Darkthrone. Nel 1988 Risberget abbandona e Ted Skjellum si unisce a Nagell e Enger che iniziano così a registrare i loro primi demo.
Il primo vero album a firma Darkthrone è Soulside Journey, un disco del 1991 che si muove nell’ambito di un death metal scandinavo vicino a quello dei primi Entombed e di band come Nihilist e Grave. Paradossalmente, è un lavoro ben prodotto e registrato rispetto a quelli dell’imminente svolta black metal. Non a caso è realizzato nel leggendario Sunlight Studio, tempio del death metal svedese. Addirittura il lavoro, licenziato per la label inglese Peaceville, presenta sfumature quasi prog e l’uso di synth. Non manca una certa perizia tecnica e sono curate più le atmosfere che il lato aggressivo, con testi che spaziano su temi metafisici. In sintesi, è un discreto esordio ma è presto dimenticato e messo da parte in favore dei rivoluzionari album successivi. All’epoca Nagell si firma con lo pseudonimo di “Hank Amarillo”.
La “Unholy Trinity” e la svolta black metal
La vera svolta nel lavoro dei Darkthrone arriva l’anno dopo con il successivo Blaze In The Northern Sky, un’uscita importantissima che segna un’epoca. Dopo l’incontro a Oslo con Euronymous, chitarrista dei Mayhem e proprietario dello storico negozio musicale Helvete, la band abbandona il death degli esordi per tuffarsi in una primigenia forma di black metal. Il nuovo sound ha molti punti di contatto con quello proposto dai Mayhem nello storico Ep "Deathcrush" del 1987, oltre che un debito evidente con i Celtic Frost e i Bathory degli anni Ottanta. Nagell incomincia a farsi chiamare Gylve Fenris Nagell o semplicemente “Fenriz”, mutuando il nome dal mitologico lupo che ucciderà Odino durante il Ragnarök, mentre Skjellum e Enger si ribattezzano rispettivamente “Nocturno Culto” e “Zephyrous”.
Pur mantenendo ancora alcune influenze death a livello di riff, l'opera cambia completamente l'atmosfera e l'iconografia di riferimento: tutto si fa più cupo e opprimente, tingendosi di nero. Emerge una furia pagana senza compromessi, come si evince dalla velocissima “Where Cold Winds Blow” e dall’infernale “The Pagan Winter”, un vero e proprio tributo alle radici culturali dei norvegesi. “In The Shadow Of The Horns” è una sorta di grido di battaglia contro la cristianità e la sua corrotta morale, colpevole di aver cercato di soggiogare il vero spirito del popolo scandinavo, una colonizzazione culturale vera e propria che portò a violente conversioni forzate al nuovo credo straniero.
Sono gli anni del Black Inner Circle (Svarte Sirkel), una cerchia interna di artisti che si riuniva nei sotterranei dell’Helvete. Il gruppo è accumunato dalla passione per il satanismo, l’isolazionismo e il paganesimo norreno, tutti temi che diverranno centrali nei testi dei nuovi Darkthrone.
Specie nella seconda parte dell’album, s’intravede la nascita di qualcosa di nuovo: quell’unione esistenziale tra arte e morte, teorizzata e messa tragicamente in pratica dai primi Mayhem, giunge a un punto cruciale di non ritorno. È in questo disco che si apre il proverbiale vaso di Pandora facendo intravedere il fuoco che incendierà ben presto i cieli della Norvegia: “The million hands of joy have something holy to burn”, urla Nocturno in “The Pagan Winter”. La copertina mostra il chitarrista Zephyrous mentre emerge dal buio come una terrificante figura della notte. Il bassista Dag Nilsen spaventato abbandona la band dopo la registrazione dell’album in polemica con il violento e repentino cambio di rotta.
A detta degli stessi artisti, Blaze In The Northern Sky risente ancora d’influenze death metal anche a causa delle pressioni della loro label. In ogni caso, l’album successivo sancirà la definitiva conversione dei Darkthrone a quello stile che verrà in seguito definito da loro stessi “True Norwegian Black Metal”.
Nel giugno del 1992 il trio registra il loro terzo album nei Creative Studios di Kolbotn in Norvegia. Under A Funeral Moon esce il 24 giugno del 1993 sempre per Peaceville. Ciò che emerge è un album di puro e misantropico black metal norvegese nella sua essenza più malvagia, un lavoro dall’afflato glaciale e opprimente che influenzerà moltissime band a venire. L’album risente dell’influenza del disco d’esordio di Varg Vikernes, meglio conosciuto come Burzum, uscito proprio nel marzo del 1992. All’epoca Varg era molto amico di Fenriz e la sua influenza sarà centrale per i lavori dei Darkthrone dei primi anni Novanta. È probabile che anche l’ascolto delle tracce demo del futuro “De Mysteriis Dom Sathanas” (1994) dei Mayhem abbia avuto il suo peso, dato che queste ultime già circolavano da tempo tra i frequentatori della scena norvegese.
Le urla di Nocturno Culto, ritratto in bianco e nero sulla copertina del disco nel mezzo di una foresta, si fanno sempre più lancinanti mentre il claustrofobico blast-beat inumano della batteria non concede nessuna pietà all’ascoltatore.
Il ritmo ha qualcosa d’ipnotico e alienante. La registrazione, volutamente grezza e low-fi, spiazza la critica musicale e molti addetti ai lavori. È un disco lontano anni luce da Soulside Journey e molto più radicale e cacofonico rispetto a Blaze In The Northern Sky. L’apertura con “Natassja In Eternal Sleep” è rappresentativa del nuovo corso intrapreso dalla band. La traccia presenta una brusca dissolvenza finale degna di un demo. Una scelta involutiva radicale che segna, a suo modo, una tendenza del genere. In questa maniera si crea una sorta di ponte tra black metal norvegese dei Novanta e il proto-black degli anni Ottanta, Bathory in primis. Al contempo, tutto è estremizzato tanto da suonare come qualcosa di alieno e terrificante, a suo modo tragicamente autentico nella sua furia incompromissoria.
La title track è un muro di suono compatto dove la chitarra diventa una lama capace di tagliare il ghiaccio con l’ausilio di pochi accordi ossessivi e ripetitivi. Tra gli anatemi nichilisti di tracce come “Summer Of Diabolical Holocaust” e il dissacrante manifesto programmatico di “Unholy Black Metal”, uno dei testi più blasfemi mai scritti (solo gli svedesi Marduk hanno fatto di peggio), è veramente difficile rivaleggiare con quest’uscita a livello di malvagità e attitudine ferale. Nonostante ciò, Fenriz e Nocturno Culto dopo l’abbandono di Zephyrous riusciranno anche in questa difficile impresa, superandosi in estremismo e brutalità con il loro quarto album.
Rimasti in due, Nocturno e Fenriz realizzano il loro lavoro più famoso e controverso. Transilvanian Hunger è l’evoluzione definitiva del sound black metal dei Darkthrone, qui proiettati verso l’estremo e l’inumano. Tutte le parti strumentali sono realizzate e registrate da Fenriz mente Nocturno aggiunge la voce. Sono otto brani di cui gli ultimi quattro, in pratica tutto il lato B del vinile, vedono Burzum alla scrittura dei testi.
Il disco esce il 17 febbraio del 1994 e crea subito un caso per la scritta “Norsk Arisk Black Metal” (Black metal norvegese ariano) sul retro della copertina. La frase è rimossa nelle edizioni successive, ma i Nostri non fanno marcia indietro e in spirito provocatorio Fenriz lancia benzina sul fuoco con dichiarazioni al vetriolo contro il bigottismo conformista della stampa, negando al contempo ogni intento politico della loro musica. La Peaceville spaventata li scarica con un comunicato in cui prende le distanze dalle dichiarazioni di Fenriz. La label si rifiuta persino di promuovere l’album, ma Transilvanian Hunger diventa comunque uno dei dischi più amati e famosi dei Darkthrone, più volte ristampato in seguito dalla stessa Peaceville.
La title track con l’ausilio di pochi accordi e un po’ di cambi in semitono crea il violento capolavoro che conosciamo. Il blast beat ossessivo di Fenriz e le urla lancinanti di Nocturno non hanno eguali in quanto a ferocia e malvagità. L’album manifesta una ferrea attitudine minimale, se con minimale intendiamo una ricerca sugli effetti della ripetizione di pochi accordi sull’ascoltatore, che qui viene letteralmente tramortito con tracce brutali e dirette quali “Skald Av Satans Sol” e “En ås i dype skogen”. Con poco meno di quaranta minuti, il duo crea un muro di suono monolitico che sarà imitato negli anni a venire da molte altre band.
Si conclude con quest’album un’ideale “Unholy Trinity”, una trilogia di dischi considerata, a ragione, il picco inarrivabile della carriera dei Darkthrone.
Da “Panzerfaust” a “Sardonic Wrath”: il sodalizio con la Moonfog
Nel frattempo Fenriz oltre a suonare nei Valhall (un gruppo di stampo black/thrash iniziato con Erik Olivier Lancelot degli Ulver e convertitosi nel 1995 a side project solista di area stoner-doom) ha portato avanti numerosi progetti solisti come il pagan-black metal di Isengard o l’elettronica dark-ambient realizzata sotto il nome dei Neptune Towers. Di quest’ultimo progetto colpisce la vicinanza a una certa kosmische musik tedesca (Tangerine Dream e Klaus Schulze in particolare). L’influenza di una certa elettronica teutonica è centrale per molti artisti norvegesi. Oltre ai Darkthrone, pensiamo anche a Mortiis, Burzum, Wongraven e Ulver.
Nel 1995 esce anche l’album degli Storm, intitolato Nordavind (vento del nord). Il gruppo oltre a Fenriz vede la partecipazione di Satyr Wongraven (Satyricon) e della cantante Kari Rueslåtten. Il disco esplora il folklore norvegese riadattando anche canti tradizionali in una moderna forma vicina al viking metal dei Bathory dei primissimi anni Novanta. Nordavind è un vero e proprio capolavoro del genere, volto a riscoprire e valorizzare le radici pagane della Norvegia, un album importantissimo che influenzerà molti gruppi e progetti pagan folk a venire.
Panzerfaust si muove su livelli ancora ottimi, ma sicuramente è un lavoro meno brutale, seppur più vario e sfaccettato, dei tre precedenti. Esce nel 1995 per la Moonfog Productions, la label di Satyr, dopo la traumatica rottura con la Peaceville. Anche qui l’influenza di Burzum, ormai in procinto di andare in carcere per l’omicidio di Euronymous, è molto forte, come si evince ascoltando un brano come “Hans Siste Vinter”. Inoltre, anche il testo di “Quintessence” è firmato Greifi Grishnackh, uno degli pseudonimi di Kristian “Varg” Vikernes. Anche Nocturno Culto qui sembra adattarsi al cantato sgraziato e lacerante di Burzum.
Musicalmente il duo rallenta il folle drumming della “fame transilvana” a favore del lato più spettrale e drammatico. Nel finale c’è anche spazio per la cupa elettronica di “Snø Og Granskog (Utferd)” che riprende le sperimentazioni di Fenriz nelle vesti di Neptune Towers. Il testo del brano è preso da una canzone popolare norvegese e vede Fenriz al microfono, a riprova di un interesse crescente dell'artista per il folklore del suo paese, una passione nazionalista che avrà il suo sfogo principale nel progetto Storm.
Il successivo Total Death esce nel gennaio del 1996 sempre per Moonfog, ma paga il dazio di arrivare dopo una serie di capolavori inarrivabili. I suoi trentacinque minuti scarsi non aggiungono molto a quanto già fatto in maniera egregia nei lavori precedenti. Partecipano alla scrittura dei testi Garm degli Ulver, Ihsahn degli Emperor, Carl-Michael Eide degli Aura Noir e lo stesso Satyr.
Il sodalizio tra Nocturno Culto e Fenriz attraversa un momento di profonda crisi. Realizzeranno anche un’ultima brevissima performance dal vivo (con la partecipazione di Satyr al basso) al Rockefeller Music Hall di Oslo. In seguito i due prendono la decisione irrevocabile di smettere completamente di esibirsi in pubblico nelle vesti di Darkthrone.
In quell’anno i Darkthrone fanno uscire Goatlord, album che doveva essere la loro seconda release dopo Soulside Journey ma che non vide mai la luce a causa del cambio di direzione scelto dalla band. Infatti, si tratta di una sorta di compilation death metal i cui brani risalgono al 1991. Dopo varie peripezie e aggiustamenti nel corso degli anni Novanta i Nostri decidono finalmente di dare alle stampe il lavoro. È sicuramente un documento che fotografa bene il passaggio stilistico di quegli anni travagliati.
Ravishing Grimness del 1999 apre sempre più a un thrash metal primordiale e un’attitudine heavy-doom che avrà un peso crescente in futuro. Dopo tre anni di attesa è un’uscita che conferma che la creatura di Nocturno e Fenriz è ancora viva e vegeta e ormai accasata nella label di Satyr.
Plaguewielder (2001), Hate Them (2003) e Sardonic Wrath (2004) non fanno altro che cementare un sound ormai ampiamente rodato e che non presenta novità significative, scegliendo consapevolmente di non seguire nessuna moda e nessuna evoluzione del genere che loro stessi hanno contribuito a creare. Il suono appare meno low-fi e più curato in sede di registrazione rispetto ai lavori black metal usciti per Peaceville.
Pur godendo di un ampio seguito di devoti fan, i Darkthrone attraversano un periodo di uscite sotterranee non certo memorabili in cui continuano a oscillare tra un proto-black metal old school alla Hellhammer/Celtic Frost e le reminiscenze dei fasti di Transilvanian Hunger, tra il sussulto di brutalità rappresentato da Hate Them e le timide influenze punk che fanno capolino nel non ben riuscito Sardonic Wrath.
Nel frattempo, Fenriz fa sempre parlare di sé: gestisce un importante programma in radio, fa uscire compilation sulla prima onda black metal degli anni Ottanta (Fenriz Presents... The Best of Old-School Black Metal del 2004) rilascia interviste anche per il documentario “Until the Light Takes Us” (2008) e addirittura si candida e vince le elezioni locali per il partito di area liberale Venstre, divenendo persino vice-consigliere nel comune di Oppegård nel 2015. Evidentemente sono molto lontani i tempi di certe dichiarazioni al vetriolo capaci di scandalizzare i benpensanti.
Nocturno Culto appare molto più defilato e lontano dai riflettori. Realizza nel 2007 un documentario dal titolo “The Misanthrope” e, oltre all’attività con i Darkthrone, dal 2008 diventa il cantante dei Sarke, altro gruppo a cavallo tra black, thrash e doom che guarda in particolare alla prima onda black.
Il ritorno alla Peaceville e il cambio di stile
Nel 2006 i Nostri spiazzano un po’ tutti con The Cult Is Alive, uscita a fuoco che riesce a far intravedere un nuovo stile che riesce ad amalgamare meglio le influenze punk e crust in un’ottica black che riscopre e valorizza le sue radici “heavy” per proiettarle in una sorta di black'n'roll rude e caustico. Brani come “Too Old Too Cold”, di cui viene girato addirittura un video, mostra un sound alla Motörhead, un sussulto di rabbia stradaiola che però ha perso per strada gran parte dell'oscurità e della freddezza glaciale di “Under A Funeral Moon”.
Prendere o lasciare: questo è il nuovo corso dei due, che tornano così ad accasarsi alla Peaceville che li aveva licenziati anni prima.
Con il successivo F.O.A.D. (acronimo di Fuck Off And Die) uscito l’anno dopo, si rincara la dose di quello che gli stessi Darkthrone hanno definito come una sorta di “New Wave Of Black Heavy Metal”. È una risposta decisa alle critiche del precedente album da parte di molti blackster delusi. Al duo non importa molto, così sceglie di continuare imperterrito per la sua strada. Infatti, anche Dark Thrones & Black Flags (2008) continua a macinare Venom e Motörhead come se non ci fosse un domani.
Circle The Wagons (2010) è la consueta sfilata di pezzi forgiati nel fuoco di black'n'roll e crust-punk che erompe grezza e selvaggia come non mai, mentre The Underground Resistance del 2013 calca la mano in particolare sulla componente speed-metal e aggiunge anche momenti epic che faranno storcere il naso a molti.
I veterani giocano a fare gli adolescenti rabbiosi e comunque sembrano divertirsi molto nel farlo, pur se con risultati un po' incostanti.
Una compilation come Introducing Darkthrone (2013) ben fotografa il percorso dei norvegesi, che manifestano sempre una loro radicale coerenza, frutto della passione e della ricerca musicale. Pur attraversando diversi territori, si mantenengono sempre su sentieri "oscuri" e pagani anche quando giocano con diversi ambiti del metal.
Con Artic Thunder, album del 2016, torna a soffiare un po’ di vento freddo in più nella musica dei Darkhtrone che comunque non si discosta nemmeno qui da un proto-black metal vintage capace di far la felicità di ogni metalhead. In un mondo ossessionato dal “nuovismo” e dalle mode, quale modo migliore di tenersene deliberatamente a distanza che far rivivere lo spirito che animava i Celtic Frost del 1985... Con il paradosso che l’operazione conquista anche un certo hype ben al di là degli appassionati di black metal tout court.
Old Star del 2019 dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, come la vecchia stella del black metal norvegese continui a brillare con un rinnovato senso di libertà. Senza aver bisogno di aggrapparsi alla novità, ma reinterpretando il passato con la giusta dedizione, i Nostri confermano il loro status di leggende del metal cui tutto è concesso, persino citare gli Ac/Dc in “The Hardship Of The Scots”. Sicuramente con brani come “Duke Of Gloat” il duo trova qui un perfetto equilibrio, realizzando una delle uscite migliori del suo ultimo periodo.
Bisogna ammettere che Vårjevndøgn, l'album targato Isengard uscito nel 2020, è stato una sorpresa. Ben venticinque anni di attesa per trovarsi tra le mani un nuovo capitolo del progetto solista di Fenriz ma questa volta si tratta, come dichiarato dallo stesso artista, solo di materiale registrato tra il 1989 e il 1993, poi dimenticato in qualche cassetto e oggi magicamente ritrovato. L’album in realtà suona come una sorta di demo interamente suonato e registrato da Fenriz in puro spirito DIY. Gli appassionati di commistioni tra viking e black metal si troveranno tra le mani un lavoro che guarda principalmente al metal degli anni Ottanta, un sincero tributo a quelle band di culto che hanno formato l’immaginario del musicista norvegese. Dal punto di vista concettuale, la mossa suona come una protesta verso un certo metal moderno, un sound patinato che ha rinnegato le proprie origini, imbellettato e ben prodotto ma con poca anima. A volte sentendo la parola “sperimentale” in bocca a certi critici musicali tuttologi e pretenziosi, che spaziano da Captain Beefheart al “post metal” in rosa, viene da mettere mano alla pistola o ad un disco qualsiasi della discografia dei Darkthrone. In questo senso, essere realmente “true” come Fenriz è ancora cosa buona e giusta. Prendiamo quindi "Vårjevndøgn" come un monito per ricordare un certo spirito da non dimenticare mai. Detto ciò, l’album nel suo complesso è deludente, esclusi un paio di episodi riusciti, tra cui da segnalare la gemma doom “The Light”.
Al di là dei giudizi sui lavori recenti, i Darkthrone comunque passeranno alla storia per la loro “Unholy Trinity”, una serie di tre album (A Blaze In The Northern Sky, Under A Funeral Moon e Transilvanian Hunger) cui si possono aggiungere tranquillamente le tenebre invernali di Panzerfaust. Sono dischi che hanno fatto veramente la differenza all’epoca in cui sono stati realizzati e che non possono mancare nelle case di tutti i veri appassionati di metallo nero e non solo, specie se oltre la ricerca stilistica e l’archeologia del genere si guarda anche alla radicalità dei contenuti espressi, che trascendono l’ambito del metal stesso.
Due anni e arriva Eternal Hails......, da loro definito epic black heavy metal, ma si potrebbe parlare più semplicemente di un proto-black influenzato dal doom: non a caso un pezzo come “Hate Cloak” sembra voler citare in un colpo solo sia i Celtic Frost (tanto per cambiare) che i Pentagram, nonostante siano davvero pochi i motivi per urlare al miracolo (i passaggi cadenzati non lasciano addosso grandi sensazioni). Molto meglio l’iniziale “His Master’s Voice” (partenza speed per poi chiudere col freno tirato) ma soprattutto la terza “Wake Of The Awakened”, otto minuti dal vago sapore old-fashioned che non avrebbero affatto sfigurato sul sottovalutato “Ravishing Grimness”.
Con la penultima “Voyage To A North Pole Adrift” l’approccio doom torna a farsi sentire, ma sono i riff a non convincere, al di là dell’apprezzabile tentativo di cambiare più volte registro all’interno della composizione stessa. La produzione lurida e attufata può aiutare fino a un certo punto, perché davanti a questa operazione spudoratamente vintage si respira una mancanza di idee fin troppo palese. Per fortuna “Lost Arcane City Of Uppakra” riporta il disco sui binari giusti, anche grazie a un suggestivo epilogo atmosferico che si aggancia in un sol colpo all’immagine della copertina: un lavoro realizzato nel 1972 dallo space artist David A. Hardy (in verità già utilizzato dai greci Zephyrous per la ristampa in cd di un loro vecchio demo) che proietta questo duo norvegese nel cuore di un lontano pianeta primordiale, praticamente una comfort zone che continua a prosperare nel background anni Ottanta di questi musicisti.
Se tornare alle origini del caos è la missione dichiarata dei Darkthrone, è giusto anche rendersi conto che questo obiettivo col passare del tempo rischia di diventare un’operazione fine a se stessa, al di là di una coerente e inossidabile attitudine old-school. In questo discorso può rientrare anche Astral Fortress (2022), ennesimo lavoro in cui il recupero del passato si fonde comunque con un approccio genuino e mai forzato. I Darkthrone stavolta sembrano volersi prendere meno sul serio, presentandosi con una copertina alquanto curiosa (una figura scivola con i pattini sul ghiaccio) e con un approccio meno legato al doom (elemento che aveva in parte appesantito il disco precedente).
L’apertura affidata a “Caravan Of Broken Ghosts” può trarre in inganno: dopo una pregevole introduzione acustica, i norvegesi affilano le armi con uno dei brani più riusciti del loro recente repertorio, tra citazioni per l’epica dei Bathory e un crescendo puramente heavy metal, quello più sporco e grezzo.
Se con le successive “Impeccable Caverns Of Satan” e “Stalagmite Necklace” le intuizioni e i riff si fanno ancora rispettare, è la seconda parte del disco a lasciare l'amaro in bocca, soprattutto quando il duo scivola pericolosamente nel doom, alimentando oltremisura dei pezzi già pesanti in partenza (i dieci minuti della fin troppo prolissa “The Sea Beneath The Seas Of The Sea”).
Contributi di Paolo Chemnitz (“Old Star”, “Eternal Hails......” e “Astral Fortress”)
DARKTHRONE | ||
Soulside Journey (Peaceville 1991) | ||
A Blaze In The Northern Sky (Peaceville 1992) | ||
Under A Funeral Moon(Peaceville 1993) | ||
Transilvanian Hunger(Peaceville 1994) | ||
Panzerfaust (Moonfog Productions 1995) | ||
Goatlord(compilation, Moonfog Productions 1996) | ||
Total Death(Moonfog Productions 1996) | ||
Ravishing Grimness(Moonfog Productions 1999) | ||
Plaguewielder(Moonfog Productions 2001) | ||
Hate Them(Moonfog Productions 2003) | ||
Sardonic Wrath(Moonfog Productions 2004) | ||
The Cult Is Alive(Peaceville 2006) | ||
F.O.A.D.(Peaceville 2007) | ||
Dark Thrones And Black Flags(Peaceville 2008) | ||
Circle The Wagons(Peaceville 2010) | ||
The Underground Resistance(Peaceville 2013) | ||
Introducing Darkthrone (compilation, Recall, 2013) | ||
Arctic Thunder(Peaceville, 2016) | ||
Old Star(Peaceville, 2019) | ||
Eternal Hails......(Peaceville, 2021) | ||
Astral Fortress (Peaceville, 2022) | ||
NEPTUNE TOWERS | ||
Caravans To Empire Algol(Moonfog Productions 1994) | ||
Transmissions From Empire Algol(Moonfog Productions 1995) | ||
ISENGARD | ||
Vinterskugge(compilation,Deaf Records 1994) | ||
Høstmørke (Moonfog Productions 1995) | ||
Vårjevndøgn(Peaceville, 2020) | ||
STORM | ||
Nordavind(Moonfog Productions 1995) | ||
VALHALL | ||
Moonstoned (Head Not Found 1995) | ||
Heading For Mars (Head Not Found 1997) | ||
Red Planet (Housecore Records 2009) |
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