Gazebo Penguins - Meglio un giorno (e altri vent'anni) da Pinguini

intervista di Piergiorgio Pardo

I Gazebo Penguins tornano con un disco che è un viaggio dentro la mente, tra neuroscienze, ricordi e identità. In questa lunga chiacchierata, la band di Correggio ci racconta come "Temporale" sia nato da riflessioni sul cervello, sulla percezione e sulla fragilità umana, mescolando filosofia, rock e psicanalisi. Dopo aver esplorato la fisica quantistica in "Quanto", ora si interrogano su chi siamo davvero, dove risiede la nostra coscienza e cosa resta di noi ogni giorno. Con una produzione più libera che in passato, grazie anche a uno studio (dove li abbiamo raggiunti per questa nostra chiacchierata, nel bel mezzo delle prove per l’allestimento del tour) messo a disposizione dal figlio di un altro rocker di Correggio, il Ligabue nazionale, i Gazebo Penguins hanno potuto lavorare con calma, sperimentare suoni nuovi e strumenti vintage, fiati e droni di tastiere. Il tutto con un occhio perenne anche alla dimensione live, che rimane centrale nel loro rapporto con il pubblico, anche quello più giovane. Un'intervista intensa e sincera da cui emerge un messaggio forte, che lascia anche sperare e respirare: la fragilità ci unisce, e la musica è ancora un modo potente per raccontarlo.

Alla ricerca della Gestalt

Inizierei proprio dall’ultimo disco, partendo dall’idea della Gestalt. Com’è nata l’esigenza, anche poetica, di un disco incentrato sull’analisi e sulla definizione dell’io?
Ogni tanto ci piace divagare su temi molto ampi. Riflettendo, ci siamo accorti che se il disco precedente prendeva spunto dalla meccanica quantistica per raccontare il mondo in cui viviamo – quindi il “dove siamo” – in questo nuovo capitolo ci siamo spostati sul “chi siamo”. Da lì è nato il desiderio di raccontare a modo nostro il cervello: un organo strano, profondo e misterioso, che dice anche chi siamo stati e chi potremmo diventare. Tutto il discorso sulla memoria e sulla percezione della realtà, e quindi sulla Gestalt, ruota attorno a una domanda: siamo qualcosa oltre il nostro cervello o siamo interamente contenuti in esso? Cosa succede quando non ci riconosciamo più, quando sentiamo che la nostra coscienza è altrove? Dov’è la nostra identità?

Tutte queste riflessioni, già presenti nel disco precedente, si traducono in una scrittura che potremmo definire “colta”, letteraria, filosofica. Questo approccio ha influenzato anche la musica?
Sì, assolutamente. L’uso di strutture post-rock, fiati con armonie più ricercate, tempi dispari, tutto questo fa parte di una ricerca che abbiamo approfondito in questo disco. Ci sembra che il nostro approccio alla scrittura e agli arrangiamenti rifletta una modalità più matura di lavorare. Già con “Nebbia” (2017) avevamo iniziato a introdurre dal vivo l’uso di un sintetizzatore, il Korg MS-10, che sostituiva le basse ma con un suono diverso, creando anche dei tappeti sonori, dei droni – che noi chiamiamo “pad”. Abbiamo cominciato a costruire le canzoni partendo da questi droni, sui quali poi impostavamo delle batterie non convenzionali, che però mantenessero una certa fruibilità ritmica. “Temporale”, a differenza dei dischi precedenti, è nato però interamente in studio, senza prove in sala. Abbiamo avuto a disposizione uno studio bellissimo – proprio quello in cui ci troviamo ora – per un periodo lungo, e questo ci ha permesso di sperimentare tanto nella produzione e nella scrittura. Abbiamo potuto portare avanti, perfezionare e amplificare il tipo di lavoro iniziato nei dischi precedenti.

Ci raccontate qualcosa di più su questo studio? È la prima volta che ci lavorate?
Sì, per questo disco abbiamo avuto la fortuna di lavorare nello studio di Ligabue a Reggio Emilia, grazie a suo figlio Lenny, che è un nostro fan ed era venuto a vederci durante alcune date del tour precedente. Così è nata l’idea: “Perché non registrare il disco nuovo lì?”. È stata una vera svolta. Adesso siamo qui ad allestire il live.
 
Suoni nuovi e animali strani
 
Come si è evoluto nel tempo il vostro rapporto con il pubblico ai concerti? 
Bene! Dopo vent’anni che suoni, ogni tanto rischi di perdere quello slancio. Invece, vedere la risposta del pubblico giovane durante il tour di “Quanto” – nonostante i temi complessi del disco – ci ha dato una voglia fortissima di fare subito un nuovo album. “Nubifragio”, ad esempio, pur non essendo un brano facile, è andato molto bene. Ce ne accorgiamo più ai concerti che dagli streaming. Appena parte, il pubblico lo riconosce e si scatena. È un segnale forte per noi. Non è un brano catchy, ha una seconda parte molto lunga, senza batteria… eppure è uno dei pezzi più attesi e sarà sicuramente in scaletta nelle prossime date.
 
A proposito di pezzi senza batteria. Nel disco nuovo c’è “Strani animali”, che è un pezzo sospeso, senza beat. Come è nata l’idea?
Era un’idea chitarra e voce di Capra. Parla di allucinazioni, di percezioni interne vissute come esterne. È un brano “equivoco”: non ha batteria, rompe le aspettative, infatti è collocato in modo diverso su vinile, cd e streaming. Comunque, in un disco che parla di mente, percezione e identità, un brano che rappresenta una sospensione, una frattura, una discontinuità ha un significato pregnante ovunque tu lo collochi. Ma c’è anche un’altra cosa da dire. Nell’ultimo periodo abbiamo iniziato a lavorare su materiale per colonne sonore e questo ci ha aperto un mondo nuovo, fatto di atmosfere, loop, suggestioni. Non è detto che non possa giocare un ruolo anche in possibili evoluzioni dei Gazebo Penguins, ma più probabilmente rientra in un nostro lavoro compositivo parallelo. 
 
Il vostro suono è cambiato nel tempo. Avvertite pressioni da parte di fan che vi vorrebbero più vicini al suono dei primi album?
A volte sì, ma molti capiscono l’evoluzione. È normale che ci siano ascoltatori affezionati al vecchio sound, ma ce ne sono altri che ci hanno scoperto da “Nebbia” in poi. Succedeva anche ai Fugazi: i primi dischi erano una cosa, gli ultimi un’altra. È bello vedere l’evoluzione. E poi nell’ultimo disco ci sono anche pezzi che riportano al suono degli inizi, per quanto riveduto e aggiornato. Tutto torna, alla fine.
 
Corsi universitari e ritornelli ricorsivi

Parliamo un attimo del ruolo di Gabriele Malavasi, alias Capra, nella scrittura. È stato più centrale negli ultimi due dischi?
Sì, soprattutto per ciò che riguarda le idee tematiche, anche se nel gruppo decidiamo sempre tutto insieme. Durante il tour di “Quanto”, abbiamo iniziato a parlare di quale potesse essere il tema per un possibile disco nuovo. In quel periodo Capra frequentava un corso di filosofia, convinto di approfondire la meccanica quantistica, e invece ci siamo ritrovati a occuparci di filosofia della mente, scienze cognitive, relazione tra mente e cervello. 
 
A me sembra che questo legame tra cervello, fragilità e identità porti anche a una struttura musicale più “ricorsiva”. I ritornelli, ad esempio, hanno un ruolo mai ricoperto in precedenza nella vostra musica. È così?
Assolutamente. Il cervello è fatto di ricorsività: segnali che si ripetono, e anche i ritornelli nascono da questo principio. E poi, curiosamente, alcune teorie neuroscientifiche ipotizzano che la coscienza funzioni secondo principi della meccanica quantistica. È un’ipotesi minoritaria, ma affascinante. E poi c’è anche un messaggio di empatia: la nostra mente è capace di cose incredibili, ma si basa su una struttura fragilissima, fatta di impulsi elettrici tra neuroni. Tutto parte da lì. Suonare questi impulsi, farli diventare canzoni, è un po’ un omaggio alla fragilità, alla condivisione, all’empatia.
 
Tra personale-politico e influenze musicali

Tutto questo può avere anche un valore politico? La fragilità in questi tempi di forsennato abilismo è davvero sotto attacco…
Sì, magari nascosto, ma molto presente. Noi viviamo una visione antifascista della società, anche se non la esplicitiamo sempre nei testi. Il cervello è il simbolo della complessità umana, della sua grandezza, ma è anche il nostro organo più fragile. Un piccolo trauma all’ippocampo e puoi dimenticare chi sei. Questo dovrebbe renderci più empatici, meno razzisti, meno egoisti e chiusi.
 
Parliamo di influenze musicali. Una mi sembra il post-rock e altre forme di articolazioni sonore che espandono le strutture dei brani, tipo il kraut. A volte è la circolarità degli accordi, altre volte l’uso della chitarra effettata, o il crescendo degli strumenti. Vi torna?
Sì, è una lettura giusta. Sollo ha lavorato per anni con i Giardini di Mirò e con Francesco Donadello, che oggi è un produttore di caratura internazionale. I Giardini di Mirò lavoravano molto con sonorità kraut, ritmiche martellanti. Sono cose che anche inconsapevolmente ti ritrovi a tirar fuori durante un processo creativo ed è bello che accada e che si noti all’ascolto.
 
E l’hip-hop? Non ci sono influenze anche da quelle latitudini?
Il nostro modo di pensare la ritmica è profondamente influenzato dall’hip-hop. Spesso iniziamo a scrivere partendo dalla batteria. Alcuni beat nel disco potrebbero tranquillamente ricordare quelli dei Limp Bizkit. Se li ascolti bene, sotto certi brani c’è una ritmica crossover che magari con l’ambiente sonoro attorno si trasforma in qualcos’altro, ma la base è quella.
 
Come vi organizzerete per il live, ora che ci sono i fiati e arrangiamenti più ricchi? Cambierà qualcosa? 
Alcune date avranno i fiati – a Milano, ad esempio, ci saranno sicuramente – ma non sarà un elemento fisso, perché i musicisti coinvolti sono spesso in tour altrove. Il set sarà diviso in due parti: nella prima suoneremo tutto il disco nuovo, cercando di portare nel nostro suono live anche le sonorità ambientali, sintetiche e un po’ anni 80, che si ritrovano negli ultimi due dischi. Nella seconda parte suoneremo una selezione di pezzi vecchi, anche se decidere quali è difficile Ogni prova è una piccola battaglia. 
 
Vi capita mai di voler mandare tutto all’aria? 
Sì, ci capita spesso (ridono). Ma alla fine facciamo la musica che vogliamo, con compromessi solo interni al gruppo, Sappiamo di non essere al passo coi tempi, e non lo saremo mai. In compenso però non ci vergogniamo di nessuna delle nostre canzoni, e questo ci dà forza. Ci piace pensare che i nostri dischi possano durare nel tempo, o che almeno, anche a distanza, possano rappresentare qualcosa di buono per noi.

(26 marzo 2025)