What kind of laws do you wanna defy?
Did you really say "Tax laws"???
Ancora un po’ e ci ritroveremo convinti di averglielo fatto per davvero un torto, al signor Beck.
Più di nove anni senza che il biondo di Los Angeles si sia fatto vedere dalle nostre parti non possono più essere archiviati tra le veniali dimenticanze. Parrebbero un intervallo di tempo più che sufficiente per quegli artisti à-la Cohen che si chiudono in monasteri buddisti finché non si ritrovano spennati da soci malfidati, non fosse che il Nostro è invischiato in Scientology e ha sì rallentato la produzione discografica ma non si è mai fermato davvero, anche e soprattutto nelle esibizioni dal vivo.
Qui a Parigi, dove abbiamo modo di incastonare il suo show di stasera quale gemma preziosa nell’arco pure splendente di una corona vacanziera, è passato l’ultima volta un annetto fa. Ma si era trattato di uno spettacolo in solitaria e prevalentemente acustico, come ricorderà al pubblico alla prima occasione, profondendosi in scuse per la sua prolungata assenza in zona alla guida di una band degna di questo nome. Per chi lo aspetta in Italia da un’eternità, con o senza musicisti a supporto, suona un tantino beffardo, anche considerato che questa dovrebbe essere la sua quinta volta solo nel palazzetto di Le Zenith, mentre nella nostra città non lo si vede dal 1994 quando, giovane dropout quasi sconosciuto, propose “Beercan” e “Mtv Makes Me Want To Smoke Crack” in un buco che non esiste più da secoli. Rimostranze inutili e di poco conto, a questo punto. Siamo contenti di esserci e basta, di cancellare il suo nome da una wishlist che pareva stregata, e poco importa se le reflex che temevamo interdette (e che abbiamo lasciato a ottocento chilometri dal parco parigino di La Villette) sono gentilmente concesse in uso ai comuni mortali del parterre, e un po’ ci rode. Poco importa se il tour che ci consente questo incontro è quello di un disco come “Morning Phase”, brutto no ma un tantino anemico sì, che lascia presagire calchi live magari monocordi e meno intriganti di quelli (già per lo più acustici) dell’era “Sea Change”.
A ingolosire i presenti, promettendo una soglia minima di scosse garantite, pensa la nuova creatura di Sean Lennon, The Ghost Of A Saber Tooth Tiger, annunciata come antipasto della serata solo qualche settimana fa. Non si sa bene quanto l’abbinamento possa considerarsi azzeccato, al di là di qualche affinità dagli occasionali frangenti psichedelici nella carriera di Hansen, ma alcuni video recenti intercettati in rete ci rincuorano. L’attesa è breve: siamo all’estero, dove i concerti iniziano presto e, soprattutto, puntuali. Uno sguardo alla platea, tristemente semivuota, poi in un attimo si parte e lo Zenith è già una bolgia strapiena. Il figlio di John e Yoko entra per ultimo in un drappello di sette musicisti, tutti barbuti e capelloni tranne la di lui compagna, la ninfetta Charlotte Kemp Muhl, di professione modella e, di fatto, altra metà del progetto.
Non si può dire si tratti di un avvio memorabile. Il suono delle chitarre fatica ad arrivare alle nostre orecchie, mentre con la voce è anche peggio. Quando l’inconveniente viene in qualche modo superato, possiamo sincerarci dell’effettiva qualità live di un gruppo di cui abbiamo sinceramente apprezzato le prime due prove in studio (ma diciamo anche tre, includendo il corposo Ep d’esordio “La Carotte Bleue”). Nonostante lo stuolo di musicisti e la giustezza di un sound che pesca dalla matrice seventies con indubbia voracità, l’impressione è che manchi qualcosa. La tigre dai denti a sciabola non morde, e questo non certo per la sua natura “ectoplasmica”.
Il grande virtuosismo rock del nuovo “Midnight Sun” – riproposto quasi per intero e senza recuperi dagli altri lavori – trova conferme sostanziali, ma si avverte un po’ troppa freddezza. Forse per eccesso di timidezza, il pacioso frontman appare distante. Si presenta semplicemente (e legittimamente) solo come Sean, ma limita le chiacchiere al minimo indispensabile, intestardendosi piuttosto nel formalismo degli assoli e trasformando forse inconsapevolmente il suo gruppo in una sorta di non richiesta replica dei Midlake. Il buon sangue c’è e si sente (“Animals” potrebbe passare senza problemi per un pezzo del padre), ma manca quel briciolo di follia misteriosa che su album assicurava a queste canzoni, altrimenti derivative oltre il lecito, un alito di vita, una patente di autenticità indispensabile per starsene a pieno diritto nella propria nicchia nel presente.
Il taglio più muscolare di questa esibizione impoverisce e non poco le loro credenziali. Più che alla Plastic Ono Band, la canzone che presta il titolo al disco più recente fa pensare agli Stone Temple Pilots macchinosi delle ultime prove, e anche il cantato sul ritornello asseconda questa sensazione. Quel tono fiabesco e decadente che abbelliva “Golden Earrings” affascina ancora, pur riuscendo un po’ annacquato, mentre le derive spacey e dreamy che il copione prometteva sanno più che altro di amplesso simulato. Il gruppo suona anche bene, per carità, per quanto lo show regali più che altro l’idea del compitino svolto diligentemente, senza troppo cuore. Merita un discorso a parte la Kemp Muhl, autentico oggetto misterioso in scena: un po’ bassista, un po’ tastierista, ma pallida e trasparente come una controfigura, praticamente assente nei panni di cantante che, evidentemente, indossa (quelle pochissime volte) senza un vero perché. Flebile sino a diventare impercettibile, la voce della ragazza è la grande assente di un concerto cui fa nondimeno difetto il brano forse più noto dei GOASTT, “Jardin Du Luxembourg”: che la facessero proprio qui, a Parigi, era il minimo che ci si potesse aspettare, e invece… Squalificato anche il giocoso retrogusto psych-pop stile Blonde Redhead (quelli di “Melody Of Certain Damaged Lemons”) di “Johannesburg”, non rimane che lasciarsi cullare dall’estetizzante ninnananna di “Moth To A Flame”, aggrappandoci nell’ammirazione alle pure rassomiglianze fisiche del non più troppo giovane (e non più troppo esile) Lennon jr. – gli zigomi e gli occhi della madre, il look hippie del padre, in linea con l’ibrido impossibile di “Woman Is The Nigger Of The World” – prima che una discreta cover di “Long Gone” di Syd Barrett chiuda la parentesi.
Mentre sentiamo alle nostre spalle quasi più parole in italiano che non in francese, inganniamo l’attesa vedendo disporre in sequenza sul palco una quantità esagerata di strumenti, chitarre soprattutto ma anche sintetizzatori e diavolerie elettroniche di ogni forma e dimensione. E’ il sussulto che serviva, ora che le aspettative sembravano davvero ai minimi. Un guizzo rivitalizzante, ma ancora nulla in confronto alla botta di adrenalina regalata dall’esplosione cromatica del pannello luminoso sullo sfondo della scena, perfetto accompagnamento visivo ai fendenti dell’elettrica di Beck nel miglior pezzo d’avvio che potessimo desiderare, una “Devil’s Haircut” roboante. Cancellate in una frazione di secondo le residue perplessità sullo spettacolo di questa sera, dagli esangui stornelli acustici in cui lo avevamo immaginato intrappolato alla povertà d’impatto di una prova di marca intimista e poco partecipata. Sono addirittura sei i musicisti con licenza di gigioneggiare a tutto campo a fianco del cantante, e la loro caratura è di quelle superiori. Ci fa estremo piacere riconoscere tra loro ben quattro veterani delle produzioni beckiane, sintomo di un’affinità oltremodo rodata e ulteriore sigillo di garanzia in merito a quanto ci attende. Sulla destra Justin Meldal-Johnsen impazza con il suo basso da mattatore e una bella criniera afro; sul margine opposto l’attempato Smokey Hormel si fa carico delle coloriture calde con la sua Gretsch; alle loro spalle Roger Manning Jr. si destreggia in un piccolo recinto di organi e tastiere, e non sembra invecchiato di mezzo secondo rispetto a quando recitava la parte dello sfigato con tanto di mantello nei video di “Midnite Vultures”; dietro ai rullanti si fa invece fatica a riconoscere uno stagionato (lui sì) Joey Waronker, anche se potremmo inquadrare il drumming eccellente del batterista degli Atoms For Peace (e primo rimpiazzo di Bill Berry nei Rem) pure a occhi chiusi.
La più grande sorpresa è però l’altro chitarrista a sinistra, quel Jason Falkner che era compagno di Manning nei dimenticati Jellyfish come nei TV Eyes e che, ne siamo sicuri, in pochi avranno identificato, inconsapevoli di come le decorazioni melodiche questa sera siano quasi un’esclusiva di uno tra i più sottostimati talenti degli anni Novanta (per approfondimenti, rimandiamo al power-pop dei primi lavori solisti, “Presents Author Unknown” e “Can Yos Still Feel?”). E’ del tutto superfluo specificare come, con il supporto di simili collaboratori, tutto sia già indirizzato sui binari giusti. Beck, ad ogni modo, non si limita a vivere di rendita e pare il più frizzante della compagnia, tra una schitarrata e l’altra, quasi fosse caricato a molla.
Nemmeno il tempo del boato di approvazione e la dose è rincarata dal tribalismo irresistibile di “Black Tambourine”, col sontuoso lavoro percussivo di Waronker a reggere da solo l’intera baracca. E non si rifiata perché, accompagnato a una sola voce dal palazzetto tutto, il blues sbilenco di “Loser” è già dietro l’angolo, con l’intatto corredo di rimandi generazionali e attribuzioni paradigmatiche (mai ben accolte dall’artista) alla fantomatica attitudine slacker di cui il brano sarebbe stato il manifesto. A rimorchio, ecco i sofisticati turgori di un altro singolo di “Odelay”, “The New Pollution”, e le nostre difese (assieme alla nostra obbiettività, forse) possono andare tranquillamente a farsi benedire.
E’ una festa, non c’è più alcun dubbio. La cui euforia è smorzata appena dal superbo diversivo rasserenante di “Blue Moon”, primo recupero dal nuovo album, impreziosito da ben quattro chitarre acustiche in campo. Un’incalzante “Gamma Ray” non esita comunque a ribadire come nei programmi sia il Beck delle ibridazioni a stravincere stasera, e il concetto è rimarcato ad ampio raggio dal florilegio di declinazioni bastarde sparate a pallettoni sul povero pubblico disarmato, con uno zelo nel dispensare ebbrezza a pieni watt che rasenta la bulimia pop: dal ludico cazzeggio rap di una contagiosa “Hell Yes” all’elegante retro-futurismo di “Think I’m In Love”, e dal funky disossato di “Soul Of A Man” alle robotiche suggestioni marca Kraftwerk di “Get Real Paid”, è esattamente il frastornante trionfo fusion che ci si sarebbe atteso dall’angelico monello Hansen solo nel più sfrenato dei sogni. Nel mezzo del filotto, il nudo duetto latin del californiano con Hormel ("Tropicalia") è la parentesi decongestionante che serve, oltreché unico ripescaggio (purtroppo) dallo scrigno mai troppo apprezzato di “Mutations”.
Dopo aver spinto a tavoletta per oltre tre quarti d’ora, il gruppo rallenta prevedibilmente per riproporre il lato più delicato dell’artista e giustificare l’impegno promozionale in favore di “Morning Phase”. “Lost Cause” e una superba “Paper Tiger”, dominata dai ceselli elettrici di Falkner, si ritagliano come è giusto che sia la più consistente fetta di applausi ma, incredibilmente, sono i pezzi nuovi a convincere di più in termini assoluti. Sugli scudi le armonie corali drakeiane della leggiadra “Heart Is A Drum”, e ancor più l’austero misticismo che, in un bagno di faretti blu, il losangelino regala nella potentissima prova vocale di “Wave”, accompagnato solo dall’organo di Manning. Tutta questa lunga parentesi è emblema della pacificazione che Beck ha raccontato nel disco e che qui intende condividere con i fan, una volta di più. Brani indispensabili per tirare il fiato, ma anche interpretazioni intense e di formidabile rigore, ennesima conferma di una pulizia e di un equilibrio sonori fuori dal comune. Poi, così come si era fermata, la giostra riparte con “Girl” più euforica che mai, tra ritmi esasperati, synth a palla e un folletto in camicia rossa e cappello che si dimena da destra a sinistra, senza posa. In una scaletta molto ben ponderata in chiave retrospettiva, il bistrattato “Guero” si impone come il vero disco di collante, alquanto insospettato, e tutti i suoi estratti rendono alla grande. E’ un po’ come se dietro le quinte ci fossero ancora i Dust Brothers, a muovere i fili. L’omaggio alle origini della carriera e al blues, con un sanguigno siparietto voce e armonica sulle note di “One Foot In The Grave”, sarà l’ultima stazione di sosta prima degli effetti speciali di un finale a dir poco pirotecnico.
Anthemica e avvolgente, “Timebomb” carica a mille il pubblico prima che “E-Pro” lo rivolti come un calzino. In platea si canta e si balla come bambini di nove anni, ma è comunque impossibile reggere il passo goliardico di chi recita tre metri più in là. L’esibizione termina con uno strike di chitarristi aggrovigliati a terra uno sull’altro, con Hansen che srotola il cordone biancorosso della polizia per delimitare la “scena del crimine”, in una farsa in grande stile. Si spengono le luci, i musicisti escono, ma è chiaro che ci siano ancora delle chicche in serbo per gli spettatori esaltati.
Al rientro il frontman latita e spetta a Meldal-Johnsen il compito di riscaldare la platea stuzzicandola a dovere, indirizzando le richieste a suon di grida telecomandate verso quella “Sexx Laws” che, in Francia, è anche tormentone pubblicitario per la più nota casa automobilistica nazionale. Beck torna a farsi vivo giusto in tempo per servirci l’ambito bonbon ed eccoci tutti qui, a fargli il coro come bimbetti adoranti. Prima di congedarsi ci dice che sono ancora tante le canzoni che vorrebbe offrirci stasera, anche se c’è poco tempo. Mente, visto che la tirerà in lungo per altri venti minuti buoni, e ricomincia pescando a ritroso dal soul bianco in falsetto della romantica “Debra”. Quindi è la volta dell’irrinunciabile parata autocelebrativa di “Where It’s At”, con un’eterna presentazione personalizzata di tutti i protagonisti in scena, sfruttata per il più classico dei mash-up à-la Beck con inserti da “Miss You” degli Stones e “Alex F.”, dalla colonna sonora di “Beverly Hills Cop”.
Il tripudio pop celebrato a tutta luce pare infinito e non può esimersi dal celebrare il Michael Jackson di “Billie Jean” nell’ultima, imprevista, guasconata. Hansen si gingilla con un robottino che spara sample a raffica. Lo spegne, riprende a guizzare come un ragazzino e alla fine, solo alla fine (a quasi due ore e mezza dal via), taglia il cordone biancorosso di cui sopra, salutando gli spettatori stremati e promettendo una nuova visita della combriccola in un futuro non troppo lontano. Per un attimo sembra un sogno nel sogno, poi torniamo lucidi e un piccolo broncio ci si stampa in viso mentre cerchiamo il banchetto del merchandise. L’ha promesso in francese ai francesi, sarà una festa privata anche la prossima volta.
Niente, toccherà imbucarsi ancora.
Encore