
Quando Eddie Vedder sale su un palco si verificano particolari congiunzioni astrali che hanno davvero dell’inspiegabile: a Firenze una stella cadente traccia la propria scia giusto sul finale di “Imagine”, nella prima serata di Taormina i fuochi d’artificio lanciati dal golfo sottostante, forse durante una festa, illuminano il cielo alle spalle del leader dei Pearl Jam proprio sulla prima nota dell’iniziale “Long Road”.
E’ il potere sovrannaturale di una delle più grandi icone del rock (qualcuno ha detto grunge?) contemporanee, che ha deciso di chiudere in Italia il tour che lo ha portato in giro per l’Europa, fugando qualsiasi dubbio (sì, in molti ne avevano) relativo alla reale consistenza del suo show in solitaria: ha dimostrato di saper tenere in pugno una platea per oltre due ore con la sua voce e una chitarra, in qualsiasi contesto, dal mega raduno da 50.000 paganti del Firenze Rocks (dove Ed è stata l’attrazione principale di una tre giorni di concerti che resterà scolpita nella memoria del capoluogo toscano), alla situazione decisamente più raccolta nell’incredibile scenario del Teatro Greco di Taormina, nel quale si è esibito per due serate consecutive, suggellando nella maniera più scenografica possibile un tour indimenticabile, sia per noi che – ne siamo certi – per lui.
Vedder è uno dei più bravi al mondo nel preparare le scalette, lo fa da sempre con cura artigianale - in questo ha appreso molto da Springsteen - lasciando spazio a tante sorprese ed evitando situazioni troppo telefonate. E fra le due location che lo hanno ospitato le differenze non sono state soltanto nei titoli prescelti quanto nell’atteggiamento generale: a Firenze, al cospetto di una folla da stadio, ha puntato su ritmo ed energia, con molte canzoni dei Pearl Jam e poche concessioni all’intimismo da ukulele (in pratica nessun estratto da “Ukulele Songs”…), a Taormina invece spazio al quartetto d’archi e a una rappresentazione fortemente emozionale in più punti, sempre con il fido Glen Hansard protagonista non solo dell’opening act, ma anche delle fasi finali del set di Eddie, che gli ha messo a disposizione una gran bella vetrina.
“Questa è la prima volta che suono da solo in Italia, ed è anche la prima volta che suono da solo davanti a tutte queste persone”, dirà a Firenze. Come al solito Ed prepara qualche frase in italiano, riuscendo sempre a toccare le corde giuste; “Sin da bambino ho sognato di andare in Sicilia, ora grazie alla musica è stato possibile, grazie a voi”. Parla tanto con il suo pubblico Eddie, racconta delle persone che lo chiamano per strada e gli chiedono le canzoni da inserire nella setlist, racconta del suo incontro a Milano con l’attuale moglie, dice la sua su Trump e sulle architetture che resistono al tempo, e si lascia andare persino a qualche anticipazione privata: “mia moglie non è italiana, ma avrebbe voluto esserlo: se un giorno vi ritroverete con un nuovo vicino di casa rumoroso che suona dalla mattina alla sera, quello potrei essere io”, ed un boato accoglie la concreta possibilità che Vedder e famiglia possano decidere di acquistare una casa nel nostro paese.
La bottiglia di vino rosso diventa un simpatico feticcio da condividere coi commensali delle prime file, stregati dal magnetismo dell’uomo con la chitarra, da quello sguardo che riesce ancora a preservare l’energia e il mistero dei vent’anni, quando i ragazzi della Generazione X trovarono in lui un portavoce in grado di rappresentare con poche frasi concise tutti i loro disagi e i loro malesseri, quando quei giovani avrebbero potuto uccidere in nome di Vedder, e lui stesso ebbe in qualche modo paura nel sentirsi un simbolo tanto grande, soprattutto all’indomani della scomparsa di Cobain, quando si ritrovò a dover rappresentare da solo quella foltissima platea.
Di recente un altro drammatico lutto ha sconvolto la sua vita, e quando a Firenze sulle note finali di “Black” urla “come back”, con gli occhi lucidi, non può che riferirsi a Chris Cornell, o così ci piace pensare. Ci commuove Eddie, ma poi sa costruire anche momenti di catarsi collettiva, come quando sale in piedi sulla transenna (vedi foto sopra) fingendo di volersi lanciare sul pubblico, regalando ai fan più vicini uno dei momenti più belli delle loro vite, nonché un irrimediabile rimpianto per tutti coloro che hanno preferito restare a casa temendo un concerto troppo soporifero e lontano dall’epicità dei migliori Pearl Jam.
Mai profezia sarebbe potuta essere più errata. Eddie ha fatto di tutto – e con estrema semplicità – per fornire materiale necessario a far ricredere anche i più scettici, e i momenti da incorniciare nei tre show italiani sono davvero tanti. Dovendone scegliere uno su tutti, forse potrebbe essere la “Jeremy” da crepacuore rivisitata con gli archi (nella prima serata di Taormina) come nessuno si sarebbe mai potuto aspettare, con Ed che nella parte finale scende in platea a cercare il contatto con i fan. Appena prima c’era stata una “Crazy Mary” altrettanto memorabile, dove dopo un accordo sbagliato Vedder ha invocato l’aiuto di Stone Gossard, ricominciando poi tutto da capo, cantando su un registro ancor più baritonale, lasciando la platea senza parole.
Ma come non menzionare la “Sleepless Nights” resa a due voci con Hansard, senza microfono, con il solo accompagnamento dell’ukulele, con tutto l’anfiteatro in religioso silenzio, oppure i deliziosi siparietti familiari condivisi con le figlie che – incoraggiate dalla mamma dietro al mixer di palco - gli portano gli strumenti?
L’unica certezza del set è la parte centrale dedicata alle canzoni di “Into The Wild”, e la chiusura che giunge sempre puntuale sulle note di “Hard Sun”. Tutto il resto sfugge a qualsiasi ragionevole previsione, fra ripescaggi dal grande canzoniere dei Pearl Jam e cover che spaziano dall’onnipresente Neil Young agli U2 (meravigliosa “Bad” a Taormina), dai Pink Floyd a George Harrison, da Cat Power a Nick Cave, dai R.E.M. ai Fugazi.
A colpire non è tanto quella voce che tutti ben conosciamo, quanto la tecnica chitarristica: pur senza slanciarsi in inutili onanismi, Vedder sa come saturare l’atmosfera al punto giusto, ora con un’elettrica, ora con un’acustica, un banjo, un ukulele o un mandolino.
“Se noi siamo le onde, voi siete il mare” dirà a un certo punto, con fare da vecchio surfista, per sottolineare l’importanza del pubblico, senza il quale nessuna rockstar al mondo potrebbe esistere.
Lui ha dimostrato in questa settimana italiana di essere uno dei più grandi intrattenitori al mondo, uno dei pochissimi in grado di radunare in perfetta solitudine oceaniche folle adoranti. Per tanti di noi è stato come ritrovare il fratello maggiore che temevamo di aver smarrito per sempre. Un artista che continua ad essere sempre sè stesso, pur rappresentando qualcosa di diverso per ognuno dei suoi fan.