
Robben Ford. Alex Britti e Max Gazzè (12 luglio)
Che fosse fortunata questa nuova edizione di Umbria Jazz lo si sapeva da un po’ (record assoluto in termini di incassi e di spettatori); che dovesse iniziare bagnata, invece, lo avevano previsto in pochi. Eppure quando il 12 luglio, intorno alle 21, Robben Ford – accompagnato da un supporting cast giovane e poco appariscente – ha fatto il suo ingresso sul palco del festival umbro, il cielo ha deciso di riversare qualche centimetro di acqua sui tanti spettatori accorsi all’Arena Santa Giuliana. Un acquazzone estivo, tuttavia, non poteva certamente impedire a Robben Ford di legittimare il suo posto nell’olimpo dei cento chitarristi più influenti della storia. L’artista californiano ha potuto così immergere Perugia nell'atmosfera che vuole respirare per quasi dieci giorni, quella della musica jazz d’oltreoceano che divaga tra rock e blues, tra alto e basso, tra tradizione e avanguardia.
Quando Alex Britti (Les Paul color oro) e Max Gazzè (basso Fender color bianco) sono entrati accompagnati dal grande Manu Katché (batterista, tra gli altri, di Peter Gabriel, Tori Amos, Pink Floyd, Sting e Joe Satriani) il cielo aveva già firmato l’armistizio con il capoluogo umbro e con tutti gli spettatori paganti. “Gelido” ha introdotto un concerto suonato in punta di piedi per tutta la prima metà, strizzando l’occhio a sonorità anni 80 e a dissonanze jazzy su cui Clemente Ferrari (tastiere) e Flavio Boltro (tromba e cappellino da sole) hanno almanaccato con la naturalezza cristallina di chi ha talento da elargire senza riserva alcuna. Lo show, di fatto, è stato un rimpallo tennistico tra i due artisti della Scuola Romana, che hanno riarrangiato i loro pezzi di successo in chiave psichedelica e jazz.
Su “Vento d’estate”, per esempio, il trio iniziale (Gazzè, Britti, Katché) ha soffiato un afflato fresco di Manica, quel poco che basta per spalmare un po’ di Police tra le linee sinuose delle colline umbre; su “Annina”, “Nomi” e “Amore pensato” le voci degli spettatori hanno iniziato a sovrapporsi, intonando i pezzi che conoscono tutti, mentre sul finale di “Le cose che ci uniscono” una jam è esplosa in tutta la sua potenza, chiudendo la fase sperimentale del concerto e aprendo quella tradizionale, un po' meno stimolante giacché ripasso canonico di successi in forma originaria.
Per qualche minuto i due italiani hanno lasciato le luci del palco a un brano strumentale di Manu Katché, usandolo come rampa di lancio per la parte finale del concerto. La canzone più bella del repertorio (“Oggi sono io”) ha chiuso il sipario solo per finta, mentre l’esplosiva cover di “Voodoo Child” lo ha fatto per davvero.
In definitiva, il concerto di Britti e Gazzè è stato ciò che doveva essere: l’antipasto giusto per la nuova stagione di Umbria Jazz. Trasversale, divertente e popolare.
Paolo Conte (14 luglio)
Il pienone arriva il 14 luglio con l'avvento del Cantautore. Paolo Conte porta pubblico da tutte le parti d’Italia; fino all’autunno, d'altro canto, non ci saranno altre occasioni per rivederlo nello Stivale e in molti sembrano esserne consapevoli. “Ratafià, elisir, aquabuse. È una bottiglieria. Mille-feuilles, tarte auxpommes, chantilly. È una pasticceria”. Sulla sera appena fatta e sulla luna quasi piena il maestro entra in polo scura e canta “Ratafia” strappando - com'era prevedibile - applausi a scena aperta. “Sotto le stelle del jazz”, “Alle prese con una verde Milonga”: Conte sembra voler celebrare ogni suo classico, pur ignorando il più atteso. “50 anni di Azzurro” si intitola l’evento, eppure dal maestro neanche un accenno al capolavoro, una citazione, un passaggio d’orchestra. Ogni tanto Conte soffia sul kazoo e apre mappe che spingono verso scenari elegiaci come quelli di "Gioco d’azzardo”, brano che spiana la strada a una fantastica versione di “Madelaine”.
Qualcuno, negli interstizi in cui si riversa il silenzio tra un’esecuzione e un’altra, non riesce a finire di urlare magico! che parte subito “Via con me”, vaudeville in versi liberi, capolavoro intramontabile e pietra miliare cementata nei cuori di chiunque. Con lei si alza un applauso e un lenzuolo di cellulari al cielo - quelli che gli esagerati King Crimson, qualche giorno dopo e sullo stesso palco, combatteranno come la peste nella Milano di Manzoni.
In “Diavolo rosso” il palco si colora di sangue e stende il tappeto purpureo a una passerella di assoli. Il finale è di quelli che non attende richieste di bis e con novanta minuti spaccati Conte si rivela anche un tantino mestierante. Tutto d’un fiato arriva “Le Chic et le charme”, “Messico e nuvole” e di nuovo “Via con me”, che fa scomparire il cantautore dietro le quinte, forse accennando un saluto o forse chissà.
Chick Corea & The Spanish Heart Band (16 luglio)
Uno che Perugia la conosce bene è Chick Corea e il live del 16 luglio lo ha ricongiunto al pubblico di Umbria Jazz con un tributo ispanico di inestimabile valore. Una formazione di nove elementi ha rabboccato una giara che Corea aveva iniziato a riempire nel 1976 con “My Spanish Heart”. Quello del Santa Giuliana è stato uno show quasi ininterrotto, un flusso di musica senza soluzione di continuità, come un deliquo onirico ambientato tra la Spagna e gli Stati Uniti.
“The Spanish Heart Band” significa Jorge Pardo al sassofono, Michael Rodriguez e Steve Davis ai fiati, Carlito del Pueros al contrabbasso, Marcus Gilmore alla batteria, Lusito Quintero alle percussioni e Nino Jorsele – stupefacente - alla chitarra classica, ma soprattutto significa un omaggio alla musica che pulsa, quella che parla di emozioni senza usare parole, come nello stile magistrale del compianto Paco De Lucia, a cui Corea ha dedicato gran parte della sua esibizione. Il concerto è una propaggine di quel racconto che Corea sospese quarant’anni fa e di cui nessuno sapeva di aver bisogno, almeno fino alla serata del Santa Giuliana.
Dopo più di un’ora di musica e l'apparizione mistica e preziosa di Nino de los Reyes - tra i più talentuosi danzatori di flamenco viventi - Corea butta uno sguardo ai lati del palco e getta la spugna dinanzi alla forza improcrastinabile - e stavolta scomoda - del tempo che scorre. Poi torna a guardare il pubblico mortificato e si fa uscire un “è tardi”. Per fortuna la platea ha già iniziato a intonare il tema di “Spain”: l’istante preciso in cui realizzi che non è ancora il momento di andare.
Kamasi Washington (19 luglio)
Di solito ci si riscalda prima di entrare, si aumentano progressivamente i giri prima di raggiungere il picco massimo. Abitudini diffuse, convenzioni universali, che il sassofonista di Los Angeles, tuttavia, sembra non conoscere minimamente. Con una introduzione tutta free jazz Kamasi Washington sale sul palco di Umbria Jazz per la seconda volta in carriera. Indossa una veste larga color oro, come il jazz che suona: colata preziosissima di ossigeno, di speranza, di pace e d’amore. E proprio come l’amore la musica di Washington sprigiona una forza che pare impossibile da arginare. Il sassofonista statunitense è praticamente incontenibile, come chi deve dimostrare tutto nei pochi preziosi istanti che gli vengono concessi. Non temporeggia, non attende che il concerto venga a lui, ma lo afferra subito e lo domina. Kamasi parte come un centometrista appena dopo lo sparo e con il sangue che gli ribolle nelle vene dimostra ancora una volta che Perugia gli piace e che il festival lo esalta. Qualcuno giura di averlo visto la sera prima esibirsi in una jam tra i vicoli medievali del capoluogo umbro e probabilmente non è una leggenda. La band veste magliette attillate, occhiali da sole, kefya e catenine d’oro. È lo stile di una formazione che appartiene ad altre epoche geologiche rispetto a quella di Diana Krall e di Chick Corea.
Metà platea sembra chiedersi se un sassofono possa esplodere a forza di soffiarci dentro; domanda che di norma suonerebbe ridicola, ma che se sei a un concerto di Kamasi Washington riacquista tutta la sua dignità. Quando l’altro Washington - il padre (flauto traverso) - fa il suo ingresso sul palco, il dialogo si trasforma. Per un po' diventa trilaterale, non più solo fra artista e pubblico, ma tra padre-figlio e tutti gli altri. Non appena i toni si abbassano e la cornucopia tramonta, decolla il soul e si eleva la voce di Patricia Quinn, che finalmente giustifica la sua presenza sul palco con aperture melodiche che fanno sorgere il sole al Santa Giuliana a meno di un’ora dalla mezzanotte. “The Rythm Changes” – per una volta incastrato in un umano 4/4 - farebbe trasalire anche un replicante, figuriamoci un umano capace di provare emozioni. “Abram” subito dopo - pezzo del contrabbassista Miles Mosely e introdotto da Kamasi come una bomba a orologeria - rialza le pulsazioni sconquassando gli intestini e buttandosi a capofitto nel mondo dell'R&B. La standing ovation finale è la spiegazione fenomenologica del termine “fisiologico” e il viso di Kamasi si trasfigura in un pendolo che oscilla tra l’orgoglioso e l’emozionato.
Poi il sassofonista sorride e biascica un “I told you” lapidario quanto ultroneo, vista la fiducia cieca e incondizionata che la platea del Santa Giuliana gli dimostra. “Truth” - da “Armony Of Difference” - è un inno alla diversità e un viaggio musicale verso l’America Latina. "Askim" lo scenario perfetto per un duello fra batteristi, che infatti prende piede per qualche spettacolare minuto. “Fists Of Fury” è il finale perfetto; quello che dà la sensazione di trovarsi di fronte a un artista che è già un mostro sacro, a dispetto della sua giovane età.
Thom Yorke (20 luglio)
Prima del bardo di Oxford sul palco di Umbria Jazz alla sua penultima sera sale Andrea Belfi – batteria ed elettronica, già presente sul suolo umbro non troppo tempo fa, in un’esibizione “nascosta” tra le pieghe di una Perugia più quotidiana e meno appariscente.
Il concerto del leader dei Radiohead, prima ancora di iniziare, si contraddistingue per un fatto tutt'altro che secondario: l’Arena Santa Giuliana è priva di posti a sedere. L’età della platea è scesa vorticosamente e l'organizzazione sa che questo concerto va goduto in maniera diversa. Sul palco gli strumenti analogici lasciano il posto a quelli digitali - con rare incursioni di chitarra e tastiere. Quella che propone Yorke è un’esibizione tra il catartico e l’ipnotico. L’udito e la vista combattono alla pari, si uniscono e si spalleggiano partorendo un unico fascio di sensazioni che a tratti sembra omaggiare quel piccolo grande passo per l'umanità che cambiò la storia di un secolo intero e che proprio in quei giorni il mondo era intento a celebrare. La scaletta pesca sapientemente tra i lavori solisti dell’artista inglese, mostrandosi più come un’installazione museale che come un concerto vero e proprio. "The Eraser", "Tomorrow’s Modern Boxes" e "Anima" sono le ceste da cui Yorke attinge, "Truth Ray" "Traffic" e "Twist" solo alcuni dei frutti che sapientemente spolpa insieme a Nigel Godrich - suo storico collaboratore - e Tarik Barri, visual artist.
Le atmosfere evocate - non solo fantascientifiche - si combinano e intrecciano come generi cinematografici in continua evoluzione. Se talvolta gli inquietanti echi di “Suspiria” si propagano tramite le suggestive "Has Ended" e "Suspirium", le tensioni eteree e astrali di “The Eraser” si librano con canzoni come la magnifica “Harrowdown Hill”, uno dei punti più alti della serata. L’algido diventa bollente quando Yorke riabbraccia gli spettatori per eseguire "Dawn Chorus", "Runwayaway", "Atoms For Peace" e "Default", gli ultimi regali per un pubblico che non ha tradito e per un festival che ogni anno dilata i suoi confini, togliendo valore, con arguta provocazione, alle parole “generi” e “definizioni”.