Mentre dalle colonne di autorevoli quotidiani generalisti apprendiamo che il rock in Italia sarebbe stato salvato dai Måneskin, unici - a quanto pare - a saper scodellare riff elettrici e trasgressioni alle nostre latitudini, ci sembra giusto rendere omaggio a chi, circa quarant'anni prima, aveva fatto tutto ciò (e molto meglio) influenzando davvero intere generazioni di appassionati. Generazioni anche diverse e distanti tra loro, va detto, perché i Litfiba del cuore dei waver 80's non saranno mai quelli che mandano in solluchero i fan al grido di “Regina di cuori”. A fare da cerniera tra queste due quasi inconciliabili fazioni, il fatidico periodo “tamarrock” di inizio anni 90, che per chi scrive resta il più che dignitoso canto del cigno artistico della band fiorentina, trascinatasi poi tra liti, rotture, trasformazioni e reunion fino ad oggi.
Ma nell'Ultimo Girone di Piero Pelù e Ghigo Renzulli – invocati come star dal pubblico di un Atlantico sold-out anche nella seconda serata romana – c'è posto per tutto e per tutti. Una bolgia infernale di suoni, danze, slogan, parole e ricordi che deve semplicemente celebrare una grande storia musicale, quella dei ragazzi che debuttarono il 6 dicembre 1980 sul palco della Rokkoteca Brighton, appendice della casa del popolo di Settignano, vicino a Firenze. Il tour che pone fine alla tormentata vicenda della band toscana (ricordate “Litfiba tornate insieme” di Elio e Le Storie Tese?) è un lungo addio, strutturato in due tranche primavera-estate, in cui i due reduci vogliono condensare il loro sterminato juke-box, con scalette mutevoli – alla stregua de “Il mio corpo che cambia” - da una serata all'altra.
Ed eccoci qui, allora, in mezzo a questo eterogeneo parterre di cinquantenni iper-tatuate, ex-darkettoni travestiti da persone rispettabili, coatti impenitenti e anche - va sottolineato - tanti giovani, perché se spopolano i Måneskin, a maggior ragione dovrebbero piacere questi indefessi ghepardi del rock tricolore, benché la freschezza, inevitabilmente, non sia quella di Damiano, Victoria e compagni.
Dopo minuti interi delle succitate invocazioni da stadio, i nostri “Eroi nel vento” irrompono sul palco sulle trascinanti note dell'inno d'apertura dell'epico esordio “Desaparecido” (1985), pietra miliare di OndaRock e del rock italiano di ogni tempo. Un album che, assieme a "Siberia" dei Diaframma dell'anno precedente e ad "Affinità-Divergenze fra il compagno Togliatti e noi" dei CCCP del 1986, compone la sacra trinità della new wave italiana.
Dietro il palco, una scenografia formata solo da un telo nero con quattro X, una per ogni decennio di carriera della band. “Sono molte più potenti di tutte le Z dei carri armati del cazzo di Putin!”, avvisa un maculatissimo Piero Pelù salutando il pubblico, prima di attaccare la dissacrante “Tex”, atto d'accusa contro un'invasione e uno sterminio (quello degli indiani d'America) che suona sinistramente in linea con quanto sta accadendo oggi nel cuore dell’Europa. Quello che è stato il miglior frontman italiano della sua generazione ha qualche ruga in più, ma si conferma un innato rock'n'roll animal: padroneggia il palco con la sua mimica, la sua gestualità istintiva da pirata, e soprattutto ha ancora tanta voce in corpo per gridare gli inni del Libero stato di Litfiba.
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Scorrono allora hit di ieri “La preda” (da uno dei primi Ep datato 1983), di oggi (“L’impossibile”, da “Eutòpia”, l'ultimo album in studio uscito nel 2016) e di mezzo, come quella “Dimmi il nome” (da “Terremoto”, 1993) che offre lo spunto a Pelù per ricordare un recente fatto di cronaca romana – la scoperta di nuove infiltrazioni della 'ndrangheta – e rinnovare ancora una volta il suo atto d'accusa contro tutte le mafie, “il vero cancro di questo paese”. Politica e vissuto personale che, come sempre nei Litfiba, si intrecciano: “Quando ho detto che volevo fare il musicista, mio padre voleva convincermi a rinunciare... Cazzo, rispetta le mie idee!”, è l'introduzione allo storico scioglilingua di “Apapaia” che trascinò al successo l'opera seconda “17 Re” nel 1986. Nel frastuono generale dell'avvio quasi si perdono i riff impareggiabili di Ghigo Renzulli, defilato sulla destra del palco, poco appariscente ma chirurgico come sempre, mentre completano l’organico Luca Martelli alla batteria, Dado Neri al basso e Fabrizio “Simoncia” Simoncioni alle tastiere.
Poi giunge a sorpresa “Bella ciao”, inno alla resistenza ormai “globalizzato” e cantato in coro tra Piero e il pubblico, con grande partecipazione. È l’introduzione perfetta per “Sparami”, brano del 1998 scritto in supporto della popolazione palestinese e oggi idealmente virato a favore degli ucraini che resistono contro l’invasore russo. Già che ci siamo Pelù lancia una stoccata anche a un altro regime del pianeta, quello turco di Erdogan, dedicando alle donne curde oppresse la struggente “Istanbul”, “una nostra vecchia canzone che mi commuove ancora ogni volta che l’ascolto”, come ci confessa a cuore aperto.
È un Pelù in vena di memorie ed emozioni condivise, trattandosi inevitabilmente dell’amarcord di una lunga storia ormai al tramonto. Così “Il volo”, toccante requiem composto nel 1990 per l’ex-batterista Ringo De Palma stroncato da un'overdose di eroina pochi mesi prima, viene dedicato anche ad altri due musicisti: Candelo Cabezas (il percussionista scomparso nel 1997) ed Erriquez della Bandabardò (morto nel 2021).
Poi, sale in cattedra Renzulli con i riff lancinanti di “Fata Morgana”, apice del periodo tamarrock, che da un lato ci esalta con la sua carica dinamitarda, dall’altro ci preoccupa, perché prelude alla seconda parte della scaletta, quella più debole, in cui si avvicendano le hit che tanto sono piaciute al grande pubblico quanto hanno fatto storcere il naso ai fan della prim’ora. Ecco allora susseguirsi le paraculissime “Spirito”, “Regina di cuori” e “Il mio corpo che cambia”, con Pelù che gigioneggia da par suo, tra richieste di “scapezzolamenti” alle fanciulle (che alcune prontamente accolgono lanciando reggiseni verso il palco) e movenze da consumato pitone da palcoscenico.
Superato lo sconcerto per lo stacco brutale tra queste due fasi dissonanti della carriera dei Litfiba, c’è tempo per riprendersi un attimo con “Ci sei solo tu” (da “Litiba 3” del 1988), prima di fare indigestione della ipercalorica “adrenalina pura” di “Ritmo 2#” rispetto alla quale risulta quasi più digeribile il refrain acchiappone di “Barcollo” (singolo estratto dall'album live “Stato libero di Litfiba”, uscito dopo la reunion del 2009), mentre lo è senza dubbio la sempre divertente pantomima di “Gioconda”, che tra i riff fulminanti di Renzulli e l’inconfondibile grido di battaglia di Pelù (“non te lo do l’anello, scordartelooo”) ci rievoca le immagini del surreale video di quel “sogno sudaticcio, isterico e bizzarro”, sorta di ammonimento permanente sui rischi del matrimonio. Un tripudio tamarrock che prosegue con “Lacio drom” e “Cangaceiro”, altri due inni di quei Litfiba di mezzo, in fondo ancora credibili interpreti di un mainstream rock italiano senza molti rivali.
Dopo “Ci sei solo tu” e un accenno di “Pioggia di luce”, Pelù - ormai a torso nudo in versione Iggy della Curva Fiesole – si concede ancora ai ricordi, del tipo “quell’estate a Firenze faceva 42 gradi all’ombra con un’umidità del 90%, ci mangiammo insieme una trippa alla fiorentina innaffiata da un pessimo Chianti e dopo qualche… foglia, ci mettemmo a scrivere canzoni”. Quindi estrae dal cilindro un’altra chicca storica da “Desaparecido”, la magnetica “Lulù e Marlene”, sottolineando che “questo è quello che sta succedendo nei sotterranei di Mariupol e di Kharkiv oggi” e modificando anche leggermente il testo con una frase presa in prestito dalla sua strofa ne “Il mio nome è mai più”, ovvero “la pace è l’unica vittoria”.
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