29/01/2022

The Smile

Magazine, Londra


Non avevo davvero idea di cosa attendermi. Dai primi indizi su Instagram, a maggio 2021, il progetto mi era parso inedito e molto promettente, ma poi lo avevo perso di vista. Al tempo era disponibile giusto qualche stralcio della loro performance in live streaming alla versione digitale del festival di Glastonbury: se ne intuiva un taglio decisamente asciutto e math, ma poco altro. Nelle ultime settimane era arrivato qualche video ufficiale, “You Will Never Work In Television Again” e “The Smoke”: non li avevo guardati, più per disattenzione che per altro.
Giungevo dunque all’evento online di ieri — la prima di tre date consecutive al Magazine di Londra, trasmesse da Dreamstage — sostanzialmente impreparato, sperando soprattutto di venire sorpreso. Cosa che, puntualmente, è accaduta fin dai primi brani.
Thom Yorke, Jonny Greenwood e Tom Skinner attaccano la prima “Panavision” e ancora prima del pezzo (sospeso, ipnotico, in 7/4) balza agli occhi il set: un palco circolare, al centro del locale, circondato da una gabbia di colonne luminose. Ciascuno dei tre musicisti dispone di un vasto armamentario di strumenti: basso, chitarra, due synth e un Rhodes per Yorke, per Greenwood basso, chitarra, un pianoforte verticale, un’arpa (!) e uno strano scatolotto bianco (con un po’ di ricerche scoprirò che si tratta di un Tom Oberheim SEM Pro, un altro synth); Tom Skinner, oltre alla batteria, ha un sintetizzatore Prophet 08, una matassa di cavi e potenziometri immediatamente riconoscibile come un synth Eurorack, e un campionatore Elektron. La videocamera gira fra i musicisti, districandosi tra fili, amplificatori e un tappeto di pedali e svelando le fonti del suono. A che servirà tutta quella roba? Altre sorprese si profilano all’orizzonte.

 
 
 
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La scaletta prosegue. “The Smoke” parte secca su una ritmica pressoché hip-hop, ma ecco che un basso in 7 le si infila sopra: Thom Yorke si rivela piuttosto abile col suo Fender Mustang, suona e canta mantenendo il passo vagamente afrobeat sullo strumento. Poi “Speech Bubbles”: Skinner si sposta al Prophet e Greenwood si occupa con una mano dell’arpa e con l’altra del pianoforte: è un brano molto radioheadiano (non che gli altri…), e l’evoluzione che ricorda perfino “Paranoid Android”. Come tutti i pezzi suonati finora, e anche i successivi a dire il vero, la durata è però contenuta: parte del “gioco” di The Smile sembra essere di puntare su mutazioni e costruzioni sorprendenti, condensandole però in pochi minuti.
“Thin Thing” è al tempo stesso una conferma e una scossa: incastri, chitarra terzinata e classici mugugni yorkiani, ma anche un piglio più aggressivo, da qualche parte fra math e wave, animato dalla batteria più incalzante sentita finora. Credo sia qui che Yorke sfodera il vocoder, integrato nel suo piccolo ma versatile string synth Waldorf STVC. Segue “Open The Floodgates”, brano di Yorke già divulgato in versione per piano solo, qui trasferito al Rhodes e rinforzato dal modulo “arpeggiatore” dell’Eurorack di Skinner — ne risulta un flusso pacato, diradato, dagli ammalianti contorni progressive electronic.

La schermata dei titoli annuncia “Free In The Knowledge”, con cui si completa la metamorfosi elettronica del terzetto: Yorke armeggia con una qualche loop station e tira fuori un tappeto di stagnazioni e riverberi vari, Skinner parte fisso al Prophet, Greenwood sta al piano a puntinare di accordi sparsi. Si disegna una ballad assai più orecchiabile del consueto, accompagnata da Yorke alla chitarra acustica, che ingrana ritmicamente con lo spostamento di Greenwood al basso e Skinner alla batteria… Solo per sfumare in una lunga digressione strumentale, piuttosto libera, uno po’ GY!BE, con Greenwood a giocare coll’archetto e Yorke transitato dall’acustica alla Gibson SG. Dalla dissolvenza emerge “A Hairdryer”, una prima assoluta, che riporta la memoria ai tempi di “Hail To The Thief” con una chitarra molto alternative e un passo ritmico un po’ jazzy. L’andamento è in crescendo, da intrecci e intersezioni tutto sommato pacate a un discreto baccano, sferragliante e obliquo il giusto, col basso di Greenwood ben in evidenza. Ottimo preludio a… Niente, anche qui il brano finisce sul più bello: l’apparente raccordo era una coda. Sembra proprio li diverta molto, lo scherzo del tagliare i pezzi sul più bello!
Un’altra chiusura irrisolta sta in “Waving A White Flag”, retta di nuovo dall’arpeggiatore di Skinner e dai pad di Yorke sul Waldorf. Qui Greenwood fa Greenwood, alla Les Paul, e quando Skinner si risiede alla batteria la scansione si cristallizza su un disorientante 11/8.

L’illusione che il gioco inizi a farsi trito è mandata all’aria da “We Don't Know What Tomorrow Brings”, il pezzo più tagliente del set: subito un riffone sul basso di Greenwood, e sotto una batteria che spinge a più non posso. In una rara concessione alla grandeur, Yorke stende un tendaggio di archi e ottoni con un synth la cui identità, inizialmente celata dalle riprese in bianco e nero, si rivela inconfondibile non appena il passaggio a colori ne mette in evidenza la livrea verde, gialla, azzurra e violetta: il Moog Matriarch, che coi suoi duemila e rotti euro di listino parrebbe essere il giocattolo elettronico più costoso a disposizione dei tre. Intanto, ci giurerei, il Bpm pare aumentare. Yorke passa alla chitarra e ci dà dentro come un forsennato. Bel pezzo, teso e tirato e perfino un po’ grunge.

Manca ormai poco alla fine, inizio a riordinare i concetti: l’allontanamento dallo stile Radiohead non è vistoso — d’altra parte la band nasce essenzialmente come un side project da lockdown — ma la voglia di scombussolare le carte risulta evidente. Non per forza aprendo a chissaché: sì, c’è un po’ di afrobeat portato da Skinner, c’è una certa dose di math e post-punk, ma l’ossatura è ancora data dalle consuete fisse che i britannici portano avanti da venticinque anni a questa parte. Eppure la sintesi è diversa, si ripesca dal proprio passato andando a evidenziare elementi che non sono i soliti delle ultime uscite: c’è più grinta, meno lavorio di contorno, molta enfasi sugli aspetti più progressivi delle costruzioni. Ok, è un evento dal vivo, quindi è logico che emergano questi particolari e non altri, ma è abbastanza per rinfocolare la fiducia nel progetto.

Four more to go. Yorke, taciturno per tutta la prima parte del concerto, si fa leggermente meno laconico e inizia a farsi scappare qualche “thank you” e stringatissime presentazioni dei brani. “Skirting On The Surface” la si dovrebbe forse chiamare cover dei Radiohead, visto che il pezzo era già stato eseguito dal vivo dal quintetto. La versione di The Smile è però irriconoscibile, a partire dal tempo che diventa 11/8 e sospende l’atmosfera fra il trascinante e il cullante. Greenwood si concede un assolo, il primo e l’ultimo della serata, abbinando alla sua Les Paul un octaver Electro Harmonix per trasfigurare il pitch verso impossibili acuti.
Poi una doppietta: “The Same”/”The Opposite”. La prima parte ancora sull’arpeggiatore, sorretto stavolta da un kick sintetico. Greenwood affianca un poliritmo sul piano (5 contro 4, a naso), Yorke si aggiunge alla voce: un pezzo molto ritmico, insistente ma posato. “The Opposite” rivede invece Greenwood alla chitarra per uno dei pezzi più classicamente rock, anche se a dominare è forse il taglio post-punk (dance-punk si potrebbe dire, almeno a giudicare dalle mossette convulse di Yorke). Anche qui il cantante si svela abile bassista, e incalza con saltelli fra note e acute e gravi gli slanci matematici di Greenwood, qui in area decisamente Three Trapped Tigers.
Gran finale con “You Will Never Work In Television Again”, concisa e parecchio punk, ma in 5/4 che non guasta mai. Qua e là sul finale emerge pure qualche sprazzo di Sonic Youth. Niente male davvero.



Escono e rientrano. “We don't have much, but we will give you what we got” è la presentazione che Yorke dà di “Just Eyes And Mouth”, unico bis prima che cali il sipario dei titoli di coda. Il brano è un pesce fuor d’acqua, in pieno territorio afrobeat nonostante gli immancabili arpeggi in 7-e-rotti di Greenwood. Yorke torna a sedersi al Rhodes ed estrae dal cappello un timbro perfino un poco soul (viene da chiedersi perché non lo faccia più spesso!).

Un’ora e poco di esibizione: poco per uscirsene con qualcosa di più che semplici prime impressioni, abbastanza però per accendere curiosità e speranze verso la prima uscita discografica del progetto. L’album, prodotto da Nigel Godrich, a stare a sentire Jonny Greenwood era già pronto quest’estate: a quando l’annuncio? In attesa dell’ufficialità, continuerò a coltivare l’ottimismo verso questa ventata di rinnovamento nel sound radioheadiano: fra me e me, mi dico che sembra Yorke e Greenwood abbiano riavvolto il nastro della loro ispirazione musicale. Che siano tornati con lo stile e le idee al periodo di “Ok Computer”, e l’abbiano poi fatto partire in fast forward lungo una strada alternativa a quella già nota. Ancora un incontro di alternative rock ed elettronica, ma su coordinate nuove per il mondo e per i fan: più taglienti e più dispari senz’altro, non saprei dire però se più entusiasmanti o meno. È ancora presto. Ci sarà da aspettare.