Se sessantacinque primavere non ne hanno minimamente scalfito freschezza e coolness, figuriamoci se a fermarlo può mai essere la minaccia di un acquazzone. Paul Weller suonerà comunque all’aperto, alla Cavea, anche sotto la pioggia - fa sapere l’organizzazione dell'Auditorium (a differenza di quanto accaduto con Carmen Consoli ed Elvis Costello, che trovarono rifugio nell’austera Sala Santa Cecilia). Non si è Modfather per caso, insomma.
Muniti di impermeabile e pronti a subire la furia del temporale, guadagniamo dunque i seggiolini della Cavea, appena in tempo, perché il Cappuccino Kid alle 21 in punto è già lì sul palco, maglietta celeste e pantaloni bianchi (abbinamento sul quale qualche noto romanista presente avrà da obiettare), in splendida forma, come sempre: fisico asciutto e chioma argentata ciondolante, a mascherare quella ragnatela di rughe – unico segno di invecchiamento – che tradisce gli anni vissuti velocemente, da capofila del rinascimento mod prima e del new cool poi.
Weller giunge all'appuntamento con questo tour dopo aver trascorso l’intera stagione della pandemia ad aggiungere nuovi capitoli all'invidiabile canzoniere accumulato in una carriera quasi cinquantennale. L’ex leader di Jam e Style Council nel biennio 2020-2021 ha prodotto due dischi, “On Sunset” e “Fat Pop (Volume 1)”, e nei prossimi mesi, come ha annunciato proprio sul palco dell’Auditorium presentando l’inedita “Jumble Queen”, pubblicherà un nuovo lavoro.
Dopo l’appuntamento in Italia rinviato per problemi di salute nel 2022, il mini-tour settembrino dell’artista inglese prevede ben quattro date nel nostro paese, a Milano, Bologna, Roma e Jesolo. Un tour nel quale Weller mette in copertina i lavori più recenti, materiale - va precisato - di tutto rispetto, a discapito dei numerosi classici del passato che restano esclusi dalla scaletta: nella notte romana risuonerà un suo “oh no, it’s fucking boring!”, probabilmente in risposta a qualche richiesta del pubblico che non l’aveva persuaso. Pazienza, tanto quelle canzoni le custodiamo gelosamente nella memoria e nel cuore. Ma stasera ne ha tante altre da proporre, spesso sorprendenti e fresche come quelle di un tempo.
Il cielo è sinistramente plumbeo, qualche goccia di pioggia inizia a cadere, si aprono gli ombrelli, anche se per fortuna il temuto nubifragio non si verificherà. Lui, in ogni caso, tira dritto senza esitazioni. Pronti, via: attacca una tiratissima “Cosmic Fringes” con la chitarra elettrica a graffiare su un tessuto di suadente soul-funk. Neanche il tempo di assimilare la botta che arriva un tuffo mozzafiato nella nostalgia del periodo Style Council, siamo in pieni anni Ottanta con “My Ever Changing Moods”, una delle ballate più autobiografiche dell'evergreen “Café Bleu” (1984), con quel suo vortice di umori mutevoli che è un po' il manifesto dell'intera storia di Weller.
Se c’è una cosa che più di ogni altra colpisce riguardo l’eterna giovinezza di Paul Weller, è la voce: la sua perfetta forma fisica non è nulla in confronto all’immutabilità di quel timbro vocale, rimasto intatto all’inesorabile trascorrere del tempo, e sempre assolutamente riconoscibile.
Il set si sofferma soprattutto sulle canzoni dei due più recenti lavori in studio, “Fat Pop” (cinque estratti) e “On Sunset” (4), nei quali il songwriting dell’autore continua a brillare di luce cristallina. Ne sono validissimi esempi brani come “Old Father Tyme” o “Village”, che si incastonano alla perfezione alternati alle collaudatissime “Stanley Road”, "All The Pictures On The Wall" e “Peacock Suit”, a un paio di ripescaggi dal primissimo lavoro solista (“Above The Clouds” e “Into Tomorrow”) e agli omaggi riservati al proprio passato con Style Council (oltre alla suddetta “My Ever Changing Moods”, risplenderanno “Headstart For Happiness” e una trascinante “Shout To The Top!”, niente da fare invece per i cultori di “Our Favorite Shop”) e Jam (“Start!”), lasciando spazio anche a una canzone completamente nuova, la coinvolgente “Jumble Queen”, che - come detto prima - anticipa il suo prossimo lavoro.
È un concerto nel quale groove e ritmo la fanno da padroni, grazie al supporto di una band rodatissima, guidata dal fido chitarrista Steve Cradock (Ocean Colour Scene). Weller si pone vivacissimo al centro della scena, con il suo intatto carisma, alternando alla chitarra un paio di incursioni al pianoforte. La miscela di blues-rock, funk e blue-eyed soul surriscalda rapidamente l'atmosfera, in un crescendo di riff taglienti e ritmi martellanti. La serata scorre energetica e al termine di una ventina di canzoni, dopo una breve pausa, arrivano i bis, fra i quali incantano - come al solito – le sempreverdi “You Do Something To Me” e “Wild Wood”, i brani più amati del Weller solista. Nel mezzo “That’s Enterteinment”, dal repertorio dei Jam, e in chiusura le ultime emozioni regalate dalla più recente “Rockets”. Ma non è ancora finita: la band rientra un'ultima volta per suonare un'altra canzone dei Jam, la travolgente “A Town Called Malice”, alla quale spesso spetta il compito di chiudere i concerti del Modfather.
Saluta e ringrazia: “Sono sempre felice di venire qui a Roma”, grida al pubblico che lo venera, fan incluse. Non ritroviamo però la ragazza bionda che invase per due volte il palco durante l'esibizione del 2015, incassando la prima l’agognato bacio di Weller e la seconda il meno piacevole abbraccio dei nerboruti addetti alla security, che la trascinarono via. Chissà se le sarà stato inflitto un Daspo…
Il pubblico svuota lentamente la Cavea, euforico e soddisfatto per l'ennesima convincente prestazione di Weller, l'artista che deve aver rinnovato il proprio patto col diavolo. Se gli anni passassero per tutti come passano per lui, ecco, forse ci si potrebbe anche stare, a invecchiare.
Foto © Fondazione Musica per Roma/ Musacchio, Ianniello, Pasqualini, Fucilla