Il termine Electronic Body Music viene definitivamente codificato (nonché stampato a chiare lettere!) sull’inner sleeve di “No Comment” (1984) dei belgi Front 242, i quali vollero dare un’impronta ben precisa alle loro sonorità elettroniche sempre più stratificate e cerebrali. Tuttavia, all’epoca, non esisteva soltanto la scuola d’avanguardia di provenienza belga, poiché altrove l’Ebm aveva già preso forma attraverso il minimalismo synth-punk dei DAF (seguito a ruota da quello dei britannici Nitzer Ebb e non solo).
Gabi Delgado (1958-2020), spagnolo di nascita, arrivava proprio dal punk, al contrario del suo collega bavarese Robert Görl (1955), formatosi principalmente come pianista dopo essere cresciuto ascoltando Béla Bartók. L’iniziale esperienza londinese, culminata con un contratto con la Mute, non lasciò grandi ricordi, considerando che i primi due lavori dei DAF suonano ancora oggi come due album sperimentali, pieni di intuizioni-decostruzioni allo stato embrionale.
Ad ogni modo, bastò poco per mettere a fuoco tali idee: è il 1981 quando a Düsseldorf nasce la cosiddetta körpermusik, l’incontro più autentico e viscerale tra il corpo e la macchina. Un corpo sudato e messo a dura prova, esattamente come quello di Gabi Delgado sulla copertina di “Alles Ist Gut”, perché adesso con i DAF è possibile danzare nervosamente, in un tripudio di ritmiche ossessive e ripetitive.
La voce dell’iberico è volutamente cupa e monotona, indizi importanti che ci permettono di prendere le distanze dalle suggestioni tecnologiche dei robotici Kraftwerk, anch’essi alfieri del binomio corpo-macchina (“Die Mensch-Maschine”) ma con un approccio ben diverso.
Le basi strumentali sono invece curate da Robert Görl, per l’occasione (anche) batterista ma soprattutto esecutore materiale di un’elettronica in loop, realizzata con un sintetizzatore analogico Korg e con un sequencer. Ingredienti semplici ma terribilmente efficaci per far sì che “Alles Ist Gut” diventi, nel giro di pochi mesi, un disco da botto in classifica.
L’album viene prontamente inserito all’interno di quella corrente musicale denominata Neue Deutsche Welle, quel contenitore prettamente teutonico generato dall’incontro tra punk e new wave (Gabi e Robert erano in ottima compagnia, insieme a gente del calibro di Nina Hagen, Grauzone, Malaria!, Abwärts oppure Xmal Deutschland). “Alles Ist Gut”, però, suonava differente da qualunque altra cosa, anche solo per la mancanza della chitarra o di qualsiasi altro orpello strumentale diverso dall’accoppiata voce-sintetizzatore.
Da qui l’unicità di un singolo come “Der Mussolini”, un inno marziale (ancora oggi molto gettonato nelle balere dark) spesso oggetto di critiche per via di un titolo alquanto controverso. Una provocazione bella e buona, racconteranno i due indiziati, il cui obiettivo era quello di emergere anche attraverso gli equivoci, trasformando ogni ambiguità in un motore sporco ma inarrestabile. In effetti, è difficile restare fermi davanti a questi quattro minuti di nevrosi elettronica totalitarista!
“Alles Ist Gut” è un disco pregno di tensione: se con “Sato-Sato” il minimalismo dei DAF diventa immediatamente teso e soffocante, basta atterrare sulle note di “Alle Gegen Alle” per toccare con mano un’irruenza fuori dal comune, un caos nietzschiano capace di dare vita a minacciose stelle danzanti (“i nostri vestiti sono così neri, i nostri stivali sono così belli. Un lampo rosso a sinistra, a destra una stella nera. Le nostre urla sono così forti, la nostra danza è così selvaggia. Una nuova danza malvagia, tutti contro tutti”). Anni dopo, i Laibach omaggeranno il brano con una riuscitissima cover.
Inoltre, quello dei Deutsch-Amerikanische Freundschaft si può anche definire un corpo sessuale, come nella sinuosa “Rote Lippen”, nel cui testo le rosse tonalità delle labbra e di un vestito alla fine colorano il mondo intero. Un cuore che batte senza tregua (“Mein Herz Macht Bum”), in attesa che la seduzione lasci spazio al contatto fisico: un bacio, un abbraccio sempre più forte, come se fosse l’ultima volta (è il drammatico incedere della morbosa nonché sublime “Als Wär’s Das Letzte Mal”).
Con l’album in esame, la fusione tra macchina ed essere umano subisce una svolta decisiva, in quanto per i DAF la tecnologia deve servire esclusivamente per sollecitare al meglio il proprio corpo, portandolo su livelli di intensità mai raggiunti prima. Dunque, il sudore che cola sulla pelle altro non è che il risultato più eclatante di questo sfruttamento, una peculiarità che ritroveremo presto come leit-motiv in molte realtà di stampo Ebm (la prestazione atletica, gli sport individuali, la prestanza fisica, l’evoluzione di questo genere non ha mai rinunciato a queste tematiche).
Il succo della body music scivola così tra queste scarne (ma devastanti) note, mentre si spalanca una finestra inedita sull’universo della musica industriale ed elettronica di quel periodo. Tra giubbotti di pelle, sintetizzatori e adrenalina pura.
19/02/2023