If you don't stop to smell the roses now/ They might end up on you
("These Important Years")
Una sgommata per prendere la rincorsa, un groppo deglutito prima di lanciarsi nel vuoto, un nastro spremuto in rewind: quando un disco si apre con un glissando supersonico, la sensazione di essere tirati dentro a una mischia è poderosa. Potrebbe scaraventarci ovunque, quella lievissima spinta: indietro, in una pozza di sudore hardcore, o avanti, nelle camerette posterizzate della X Generation. Quanto a lei, preferisce rimanere inchiodata sul confine come un Checkpoint Charlie floreale, una trottola lisergica che proietta scintille in ogni tempo e luogo. Ci si ritrova investiti dal tornado prima ancora di aver realizzato che il vento si è alzato, e dà lì in avanti si precipita lungo un caleidoscopio rotto.
È già tutto dentro quell'enigmatica copertina (ideata come sempre da Grant Hart), ultimo tassello di un codice cifrato che è un immaginario a parte, sciarada a puntate che tiene incollati i fan da sei anni: oggetti misteriosi affastellati in una foschia fosforescente, aggiornamento proto-vaporwave dei tre elettrodomestici di "Three Imaginary Boys". Un "salone di pompe funebri psichedelico", secondo Bob Mould, o più semplicemente una natura morta che si dà un po' troppe arie. Non è un accostamento casuale: gli Hüsker Dü del 1986 sono a tutti gli effetti un diorama spacciato per una scena reale, un animale impagliato che emette versi pre-registrati. Imperversa il caos che di solito prelude al collasso: l'assimilazione nella scuderia Warner ha voluto dire sì immensa visibilità, ma anche tempistiche da supereroi (e tutto sommato pochi lussi, se è vero che alla guida del furgone c'è ancora Greg Norton). Con gli impegni dal vivo decuplicati, la vecchia strategia di provare brani nuovi durante i soundcheck per poi testarli davanti al pubblico non è più praticabile. La nuova prassi sarà di affittare di volta in volta dei "magazzini", sia per scrivere sia per provare. I due galli razzolano ormai in pollai separati, ognuno beccando il proprio mangime e inseminando galline differenti: dorate o meno, le uova non potranno che avere un gusto diverso. Amaro.
Non si sopportano più Bob e Grant, impelagati tra l'altro nelle rispettive dipendenze (alcol il primo, eroina il secondo, che a causa di un test errato è pure convinto di aver contratto l'Hiv). Il chitarrista, però, ha un inatteso colpo di reni: dopo la festa di matrimonio di Norton trova le forze per smettere di bere e, determinato a trainare l'aratro finché la terra non gli frana sotto i piedi, riprende in mano le redini con pugno dittatoriale. Inizia dettando le condizioni sui singoli: due canzoni sue, o non se ne fa nulla. Fa anche peggio con la scaletta del disco: si rifiuta di lavorare alle composizioni del compare per tenerle fuori dalla conta, "altrimenti saremmo pari, e questo non accadrà mai, non in questo gruppo". Anche Grant però punta i piedi, e alla fine della fiera i brani sul piatto sono ben venti, metà dell'uno metà dell'altro: due album in uno, né più né meno. Nessuno intende cedere di un millimetro, e l'unica soluzione per chetare le acque è azzardare un altro doppio Lp, tracotante sfida a distanza con il loro lavoro più celebrato. Manco a dirlo, la label non ci sta e prova a respingerlo, ma il trio di St. Paul ha dalla sua una reputazione semi-leggendaria e un contratto che lo autorizza, letteralmente, a fare ciò che vuole: per queste e altre misteriose ragioni riesce a spuntarla, una roba inaudita per l'epoca e ancora più impensabile oggi (sia Mould che Hart, in ogni caso, si sono successivamente detti pentiti del gargantuesco capriccio, liquidandolo come "una scusa per mostrare i muscoli"). La Warner riesce a imporre due sole limitazioni: royalties ridotte ai due autori (come se si trattasse di un Lp singolo, in pratica) e una confezione semplificata rispetto al progetto iniziale. Poco male: quando sei sull'orlo del cornicione, essere vestiti eleganti è un dettaglio.
Le session si svolgono in un clima surreale: separate in casa, le prime donne non si rivolgono la parola e si evitano il più possibile, mentre il povero Norton preferisce farsi vedere di rado pur di sfuggire a quella tensione grottesca (in alcune tracce saranno gli altri due a occuparsi delle linee di basso). A questo si aggiungono le pressioni della casa discografica per rendere il suono più brillante, portando a non felicissime scelte in sede di registrazione (sovraincidere a parte i piatti) e missaggio (tenere le voci molto più alte della musica). Sembra il resoconto di un disastro, ma sarà il presupposto per un miracolo. A dispetto della rovinosa ritirata delle truppe (o forse proprio in virtù di essa), le "storie dal magazzino" echeggiano ancora oggi come il canto d'agonia del cigno alternativo americano, il sigillo malfermo su un'epopea nazionale tutta in sottrazione, il fischio finale di una partita arbitrata chiudendo un occhio e spesso anche due. Parto turbolento di una crisi in fase avanzata, rispecchia con commovente sincerità la confusione dei protagonisti, giovani uomini allo sbando ma anche vigorosi capipopolo prodighi di consigli e spalle su cui piangere.
Azzerati superomismi psichedelici e inserti pianistico-folkeggianti, si consolida piuttosto la profondità di un suono che, nei paraggi dei Ramones prodotti da Spector, si trasforma in un'intricata trama di compressioni e riverberi proto-shoegaze, pop nei risultati e forse anche nelle intenzioni, quanto di più distante dalla ruvida presa diretta degli esordi marchiati SST. Alla variegata concisione di "Candy Apple Grey" si contrappone un approccio uniforme e debordante, come se si ripetesse all'infinito uno stesso tema nel tentativo di carpirne l'essenza ultima, con una ricorsività da dare le vertigini. Se il salto nel vuoto di "Zen Arcade" (l'Iliade che frantuma qualsiasi tabù) era una marcia in mezzo alle pallottole, l'ostinata testuggine di "Warehouse" (l'Odissea che riporta tutto a casa) è una guerra di trincea in cui si tiene la posizione a costo di stramazzare dalla fame; il primo manda in pensione tutto il movimento hardcore rendendolo obsoleto, il secondo seppellisce un decennio intero esaurendone le possibilità.
Divergenti gli itinerari dei piloti: Mould (ottimista ma serioso) mira a scolpire una volta per tutte la sua ronzante epica provinciale, Hart (disperato ma giocoso) ad autosabotarsi introducendo di soppiatto strumenti acustici, percussioni, effetti sonori e field recording. Il cesello melodico è allo zenith, e la scaletta è una mirabolante rincorsa della canzone perfetta: da questo punto di vista, è il disco più autenticamente rock che abbiano mai inciso. Se venti album contenessero ciascuno uno solo di questi brani, sarebbero forse altrettanti classici: sperperarne così tanti in una volta sola è una prova di talento sfacciatamente bulimica, una lezione da primi della classe che rimangono con i piedi per terra, carica della struggente consapevolezza che non ci sarà una seconda occasione e per questo investita di un'urgenza viscerale.
Il tema non è più la maturazione, ma la sopravvivenza in un mondo che ignora e disprezza i nostri pur dolorosi progressi, con la costante sensazione che tutto possa finire da un momento all'altro (anche e soprattutto per loro: non a caso, i due sembrano lanciarsi continue accuse reciproche tra le righe, come nella più calligrafica delle love story). Tante piccole storie fallimentari al posto di una narrazione organica, con pochi voli pindarici: "La rivoluzione comincia davanti allo specchio del bagno", recitano le note di copertina (una frase che trafigge Mould mentre fissa inorridito la propria immagine riflessa, poco prima di dire addio alla bottiglia, resosi conto che "sta diventando come suo padre": reazione scontata per un punk, meno per uno che nel disco precedente si chiedeva "cosa farò quando i miei genitori moriranno?"). Più che un disco che cresce con l'ascoltatore, è un disco che guarda l'ascoltatore crescere. Nonostante i brani siano disposti con l'unico criterio di alternare due penne che non si sono mai incrociate, il risultato è di una coesione granitica, e la tensione che si respira dall’inizio alla fine è quella del più avvincente dei racconti. E' un album irrealmente sospeso tra oppio e speed, una spirale di cerchi concentrici da uscirne storditi, di quelli che, recensiti in differita, chiedi al lettore dove fosse la prima volta che l'ha ascoltato.
Quel glissando, dicevamo: l'elastico di una fionda, e sei già nell'occhio del ciclone. Poco da discutere, "These Important Years" è la "My Generation" degli anni 80, il canto per antonomasia dell'adolescenza in fuga: quello che un tempo si sarebbe definito un "inno generazionale", per l'appunto, il frutto di una precisa scelta di responsabilità autorale, anthem conativo che trasuda romanticismo per Flying V accordate aperte, preso terribilmente sul serio. Ti mette al tappeto e ti rialza con lo stesso colpo, come il più esperto e premuroso degli allenatori. Di Mould anche la drammatica corsa per le scale di "Standing In The Rain" e gli umori bipolari di "Ice Cold Ice", micro-sequenze cinematografiche più che semplici canzoni. Hart, dal canto suo, contrattacca con un saggio alleggerimento di quella foga emozionale, tra i tintinnanti campanelli wilsoniani di "Charity, Chastity, Prudence And Hope" e il falsetto sbarazzino di "Back From Somewhere" (che tracolla però in un agghiacciante rallentamento, fatale down di una botta tirata con troppa leggerezza), per poi dominare sulla facciata B, inaugurata dal divertissement poppeggiante "You're A Soldier": se Mould omaggia gli amati anni 60 con "Could You Be The One?" e "Friend, You've Got To Fall" (frecciatina manco troppo velata al vizietto del collega, sorta di "Life Of Pain" parte II che ruba il riff a "Over, Under, Sideways, Down" degli Yardbirds) e rassicura i fan della prima ora con le fulminee capriole di "Visionary", i colpi da ko li sferra Hart con le spezie avvelenate di "Too Much Spice", tra leccate rock'n'roll e dilatati accordi di nona, e l'abrasiva alluvione elettrica di "She Floated Away", che si porta via il primo disco (entusiasta) con fatati inserti di glockenspiel e flauto su melodia celtica e testo dylaniato.
Il secondo (rassegnato) si apre con una drastica sterzata di atmosfere, anticipata da una scurissima registrazione ambientale: "Bed Of Nails" e "Tell You Why Tomorrow", seppur sdrammatizzate da un parodistico orologio a cucù, sono melodrammi Aor angosciati e claustrofobici, e sarà per questo che i balbettii sdilinquiti di "It’s Not Peculiar" splendono come cristalli (di metanfetamina). Tuttavia, anche un riempitivo come "Actual Condition", in odor della sbruffoneria proletaria degli eterni rivali Replacements, mozza il fiato per la micidiale precisione del tiro, mentre l'antica vocazione visionaria è confermata dai vortici d'incenso in reverse di "No Reservations", apice del loro magmatico raga-rock.
"Turn It Around" e "She's A Woman (And Now He's A Man)", magnificamente scanzonate, sono il trampolino per il battito d'ali estatico di "Up In The Air" (ripresa anni dopo da Heidi Berry), decollo che non prevede atterraggi. Chiude il caotico fatalismo di "You Can Live At Home", ubriaca e ubriacante, con quell'invito a "vivere a casa" di cui faranno tesoro una decina di anni dopo gli American Football (guarda caso, la band che firmerà il testamento dei 90 emo, ramificazione diretta di queste campane a morto per gli 80 intimisti). Potrebbe durare in eterno quella coda e verosimilmente in eterno durerà, almeno nelle nostre teste.
Era dai tempi di "Third/Sister Lovers" che non si ascoltava un power-pop così fresco, ispirato e cangiante, e poche volte lo si è ascoltato dopo. La compenetrazione tra psichedelia e punk, melodia e velocità, dolcezza e frastuono è allo stato dell'arte: l'attrito fra la sfrigolante schiuma poliuretanica delle corde (calda/antica/rock) e la tragicomica secchezza del rullante (fredda/moderna/pop) forgia una delle ultime evoluzioni credibili della musica guitar-oriented, trapuntata da armonie vocali tutt'altro che impeccabili ma di enorme fascino.
Appianando le divergenze tra Sixties e Eighties si spiana ufficialmente la strada al decennio successivo, che i nostri eroi non vedranno mai: la rottura definitiva tra i due leader, l'aggravarsi della tossicodipendenza di Hart (che darà luogo a un paio di spiacevoli episodi nel successivo tour, documentato nel live postumo "The Living End") e il suicidio del tormentato manager David Savoy abbasseranno di lì a poco il sipario sulla più esaltante esperienza dell'alternative rock mondiale, non prima di un congedo stupefacente in ogni accezione del termine.
Tenaci in una coerenza con loro stessi che né i sei zeri della Warner né i corteggiamenti di un pezzo da novanta come Cliff Burnstein sono riusciti a comprare, non hanno mai ceduto alla micragnosa tentazione della reunion, trasformandosi nella chimera rock per eccellenza: non si poteva aggiungere altro, evidentemente, e la prematura scomparsa di Grant Hart, il 13 settembre 2017, ha caricato di un ulteriore valore simbolico queste venti, rutilanti gemme.
L'album esce a gennaio del 1987, preceduto dal bizzarro promo "The Warehouse Interview", contenente 12 brani intervallati a frammenti di interviste e oggi ricercatissimo dai collezionisti. Venderà 125.000 copie: tante, per una band ex-indie, ma non tantissime, tenendo conto dell'investimento promozionale della casa discografica (per pareggiare il quale finiscono in buona parte assorbite), e non molte di più rispetto all’era SST. Un successo commerciale abortito che, però, si rivela col senno di poi un trionfo sul piano filosofico e politico: è la dimostrazione che il modello-major, con la sua macchina ingombrante e dispendiosa, non funziona, anche quando non snatura la sostanza musicale come si vanta di fare la Warner. Inaugurando la cooptazione e monetizzazione dell'industria indipendente, la band denuncia sulla propria pelle l'inadeguatezza della nuova gestione. Qualcosa che, in ogni caso, non la riguarderà più.
Precario, imperfetto, logorroico fino all'esasperazione, "Warehouse: Songs And Stories" è la vetta degli Hüsker Dü seconda maniera, la fotografia di un'epoca al capolinea, un manuale d'istruzioni per rimanere vivi in mezzo al (proprio) caos.
RIP Grant Hart (1961-2017)Walk, walk, walk away, keep on walking away
("You Can Live At Home")
02/02/2019