Undicesimo disco lungo per Bob Mould, escludendo l'avventura con i Sugar. È, anzitutto, la pratica risposta alla vociferata e smentita notizia di un'improbabile reunion dei suoi Husker Du. A parte l'ex-compagno d'avventure Grant Hart, ancora attivo qua e là ma ormai tramontato, Mould è il vero baluardo a proseguire negli anni. Logico, dunque, un continuo sfruttamento commerciale che faccia inconsciamente leva su quella mitica sigla, sempre più vagheggiata da vecchi e nuovi fan.
Come funziona "Patch The Sky", successore biennale di "Beauty & Ruin" (2014), a sua volta successore biennale di "Silver Age" (2012)? Esattamente così, come un album a cadenza, preciso come un meccanismo, e sempre più lubrificato per eludere le pecche della vecchiaia.
Oltre alle due bombette "Hands Are Tied" e "Losing Time", che ancora sfoderano con classe la sua potenza emo-core di replicante punk, è composto dalla solita ricetta preconfezionata di mestiere, ballate rumorose ("Voices In My Head", le rabbiose "The End Of Things", "Pray For Rain", "You Say You" ecc.), liriche confessionali, uno dei suoi polpettoni crepuscolari però più secchi e onesti. Catartica, inevitabile la ricaduta nel pop ("Hold On", contagiosa ma scritta malino, e "Losing Sleep") che manda tutti a casa contenti. Chirurgicamente diretti e prodotti i due fidi Narducy (basso) e Wurster (batteria).
18/03/2016